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2025-03-25
Il video che svergogna Prodi
Ora che ha dato il cattivo esempio, per parafrasare una nota canzone di Fabrizio De André, Romano Prodi - e con lui tutto il fronte progressista che si è guardato bene dal condannare il gesto - può smettere di dare buoni consigli. Ieri sera a Quarta Repubblica, programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, è stato trasmesso il video in cui l’ex premier se la prende con la giornalista Lavinia Orefici, rea di avergli posto una domanda sgradita sul manifesto di Ventotene. Il filmato parla chiaro: non solo il padre dell’Ulivo (o forse sarebbe meglio dire patriarca) si rivolge alla donna con aria di scherno e toni da professorino, ma con una mano le afferra anche i capelli e, per quanto senza particolare forza, li strattona. Non è difficile immaginare che cosa sarebbe successo se, a parti invertite, un politico di destra si fosse comportato in questo modo con una giornalista di sinistra (cosa che, per altro, non accade): fiumi di inchiostro sul patriarcato, appelli di intellettuali e artisti contro il maschilismo tossico, richieste di scuse ed eventualmente di dimissioni, proposte per nuovi corsi di educazione alla parità di genere nelle scuole.
Il tutto è avvenuto lo scorso sabato, a margine della presentazione del libro scritto da Prodi con Massimo Giannini presso l’Auditorium di Roma. Finché le domande le fanno gli amici, l’ex presidente della Commissione europea sorride ed è cordiale. Il volto si fa scuro quando arriva il turno della collega di Quarta Repubblica: «Posso chiederle che cosa ne pensa di questa frase, se la condivide?», domanda Orefici prima di leggere la citazione: «“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”». «Ma che cavolo mi chiede?», sbotta allora Prodi. «Io ho mai detto una cosa del genere in vita mia?». «È un passaggio del manifesto di Ventotene», replica la giornalista.
A questo punto il professore inscena quello che gli esperti della parità di genere chiamerebbero mansplaining. Citando la Treccani, si tratta dell’«atteggiamento paternalistico con il quale certi uomini pretendono di rappresentare e spiegare alle donne il loro stesso punto di vista e ciò che è lecito o non è lecito che le donne facciano». La celebre enciclopedia riporta anche un’osservazione di Vera Gheno, sociolinguista e specialista in linguaggi giovanili, secondo cui un tratto «tipico del modo di esprimersi degli uomini è quello che in America chiamano mansplaining: quando a ogni parola di donna un uomo interviene a spiegare come un patriarca, perché lui la sa più lunga». Difficile trovare un esempio più calzante di questo.
«Lo so benissimo signora», replica infatti Prodi all’ultima risposta di Orefici, intonando una cantilena tra il sarcastico e l’infantile: «Non sono mica un bambino, sa?». Proprio in quel momento, la mano si allunga verso il volto della giornalista, ne afferra i capelli e li tira leggermente. Nessuno strattone, come erroneamente descritto da qualcuno, ma nemmeno una mano sulla spalla, come affermato dal protagonista. Il servizio di Quarta Repubblica mostra chiaramente che le dita del professore sono ben sopra la spalla e afferrano una ciocca di capelli. Il gesto non è tale da provocare dolore, ma sicuramente è sufficiente per umiliare la donna. A chiunque guardi il video, infatti, la domanda sorge spontanea: se fosse stato un uomo, si sarebbe mai permesso di mettergli le mani addosso in quel modo? Avrebbe usato gli stessi toni da professorino spazientito?
Ognuno, rivedendolo, può darsi una risposta. Il modo saccente, d’altra parte, continua anche nelle frasi successive. «Ma era nel 1941, gente messa in prigione dai fascisti...», aggiunge l’ex presidente: «Cosa pensavano secondo lei, al trattato o all’articolo secondo della Costituzione? Ma il senso della storia ce l’ha lei o no?». «Volevo sapere, visto che era stato citato…», prova a replicare Orefici. «Allora io le cito un verso di Maometto», la interrompe lui, «e mi dice cosa lei pensa di Maometto? Ma dai, su, questo è far politica in modo volgare, scusi». A questo punto si volta verso un’altra giornalista.
La stessa Lavinia Orefici ha commentato l’accaduto: «Il presidente Prodi oltre a rispondere alla mia domanda con tono aggressivo e intimidatorio, ha preso una ciocca dei miei capelli e l’ha tirata. Ho sentito la sua mano fra i miei capelli, per me è stato scioccante. Lavoro per Mediaset da dieci anni, inviata all’estero su vari fronti e non ho mai vissuto una situazione del genere. Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna».
Basterebbe questo. Tuttavia, il professor Prodi non solo non si è premurato di rivolgere delle scuse alla collega, gesto che in qualche modo avrebbe consentito di archiviare la vicenda, ma ha anche riportato una versione fantasiosa dei fatti. «Nessuno strattone o tirata di capelli», ha commentato: «Come tutti i giornalisti e le persone presenti possono testimoniare ho appoggiato una mano sulla sua spalla perché stava dicendo cose assurde». Il filmato, però, lo sbugiarda. E ieri, in aggiunta, dribblando i cronisti al termine di un incontro a Bologna, si è permesso anche di fare lo spiritoso: «Figurati se parlo con una giornalista, che poi dicono che l’ho stuprata...». Proprio lui, quello con «la casa che ricorda un alveare color miele» (citazione da Repubblica), autore nel 1997 di una direttiva del presidente del Consiglio sull’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne. Ma in silenzio, sull’accaduto, non è rimasto solo il centrosinistra: anche dall’Ordine dei giornalisti, come ha rilevato il deputato della Lega Rossano Sasso, neanche una voce si è alzata in difesa di Lavinia Orefici.
Se fosse stato un politico di destra la stampa avrebbe fatto le barricate
Un attempato signore infastidito dalla domanda di una giornalista la strattona, le tira i capelli e le risponde in malo modo. Ci si aspetta che, a reti unificate, tv, giornaloni, Federazione della stampa, femministe, Ordine dei giornalisti, mobilitate le truppe del generale sdegno, facciano il diavolo a quattro. Invece su X Elon Musk a volte fa comodo, Luca Bottura, la voce del politicamente corretto, risponde a Francesca Totolo - ricercatrice di geopolitica - che stigmatizza il fatto: «Prodi ha fatto benissimo. Era ora che qualcuno desse al retequattrismo la risposta che merita. Peccato solo sia toccato a chi esegue ordini e non alla ghenga che ha trasformato una gran parte del giornalismo italiano nella cinghia di trasmissione della produzione di odio». Come se Bottura usasse un linguaggio da chierico: da restare senza woke! Sandra Zampa - vestale dei vaccini e cattofemminista - aggiunge: «Hai ragione, ma anche chi esegue dovrebbe avere una dignità». L’addetta Zampa di Prodi peraltro sostiene ogni due per tre: «Il governo della destra penalizza le donne in difficoltà». I fatti sono noti. Romano Prodi alla giornalista di Rete 4, Lavinia Orefici, che gli chiedeva un commento sul manifesto di Ventotene ha risposto malamente («Ma che cavolo mi chiedete?»), poi le ha tirato i capelli a dirle: stia buonina. Ha provato a negare, ma i filmati, trasmessi ieri sera da Nicola Porro conduttore di Quarta Repubblica, lo smentiscono e la Orefici ha commentato: «Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna; mi dispiace che il presidente non si sia semplicemente scusato». Prodi non ha mai chiesto scusa in vita sua. È protetto dagli indignati speciali di sinistra: hanno trasformato la Orefici in provocatrice. E anche la Rizzoli difende il suo «autore» esprimendogli vicinanza dopo gli attacchi di alcuni giornali! Il professore ci provò anche con Oriana Fallaci che mai gli perdonò la seduta spiritica per trovare la prigione di Aldo Moro. Lei gli scrisse - era il 2001 e lui stava al vertice dell’Europa - «Non mi parve serio, Monsieur, meglio: non mi parve rispettoso, pietoso, umano, nei riguardi di Moro che stava per essere ucciso». Aggiungendo: «So che in Italia la chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella, che è uno squisito e nobile insaccato di cui andar fieri, non certo per lei che in me suscita disistima fin dal 1978». L’entourage prodiano provò ad «azzannare» la Fallaci. La vendetta ci fu nel 2006 con lui presidente del Consiglio; nonostante 75.000 firme che la volevano senatrice a vita, la nomina della Fallaci non arrivò. Con Alessandro Manzoni bisognerebbe scrivere «delle colonne infami» notando col gran lombardo: «Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder ciò che si desidera». La sinistra a parole vorrebbe la libertà e la dignità di stampa. Ma solo se il presunto attacco viene da destra. L’epoca più florida dell’indignazione a senso unico è stata quella di Silvio Berlusconi. Ma i due precedenti più clamorosi furono il pamphlet di Camilla Cederna, poi condannata per diffamazione, che portò alle dimissioni di Giovanni Leone (1978) da presidente della Repubblica, e, dieci anni prima, lo scandalo Sifar che assicurò il seggio parlamentare a Eugenio Scalfari. Nel 2009 la Fnsi interviene tre volte. Prima contro il famoso «editto bulgaro» (la sospensione dei programmi Rai di Enzo Biagi e Michele Santoro) poi per la celeberrima battuta su Rosy Bindi pronunciata a Porta Porta con tanto d’indignazione del gruppo delle «donne della realtà» e con l’allora segretario della Fnsi, Franco Siddi, giornalista del gruppo Espresso-Repubblica, che rampogna: «Non passa giorno senza che il presidente del Consiglio distilli la sua dose di disprezzo contro l’informazione: ha il coraggio di lamentarsi di un sistema che è sfigurato dal suo conflitto di interessi». Giuseppe Giulietti (Fnsi) difese Repubblica per le famose dieci domande a Berlusconi, ma se la prese con Il Giornale che con il cosiddetto metodo (Dino) Boffo aveva attaccato l’Avvenire. Quando vuole la corporazione funziona! Epico è l’intervento di Berlusconi a l’Infedele di Gad Lerner, che si indigna per l’offesa. Gli disse, era il 25 gennaio 2011: «La sua trasmissione è un postribolo televisivo». Tutti a difesa di Lucia Annunziata quando, il 9 gennaio del 2013, il Cav abbandonò lo studio di In mezz’ora. Epico lo scontro con Lilli Gruber nel 2018, ovviamente era intoccabile. La categoria nulla disse a Massimo D’Alema (Pd), che da presidente del Consiglio sparava raffiche di querele, né quando nel 2018, presenti i De Luca padre e figlio (Vincenzo e Roberto), Gaia Bozza di Fanpage vene aggredita da militanti pd a Salerno. Non dettero pace invece a Ignazio La Russa, presidente del Senato, lo scorso luglio, dopo le botte a un cronista della Stampa che aveva «spiato» una riunione di Casa Pound. Disse: «Assoluta e totale condanna, ma serve un modo più attento di fare le incursioni legittime da parte dei giornalisti. La persona aggredita, a cui va la mia solidarietà, non si è mai dichiarata giornalista». Per l’allora direttore di Repubblica, Maurizio Molinari: «La Russa ha varcato la linea rossa della libertà di stampa». Sempre da Repubblica - in questa lacunosa antologia delle «colonne infami» - il 30 luglio scorso Annalisa Cuzzocrea nel salotto «amico» di La 7 sentenzia: «Quello che è successo in Cina è molto grave; indicare come ha fatto Giorgia Meloni dei giornali come oppositori politici non è da Paese democratico». Ah, trovare su Repubblica il caso Prodi-Orefici è un’impresa.
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Il filmato (clicca qui per visualizzarlo) trasmesso da Rete 4 mostra l’ex premier prendere per i capelli la reporter mentre l’apostrofa con disprezzo per una domanda scomoda. Se un politico di destra avesse fatto un gesto così, avremmo i giornalisti sulle barricate. Invece molti applaudono Mortadella.Ora che ha dato il cattivo esempio, per parafrasare una nota canzone di Fabrizio De André, Romano Prodi - e con lui tutto il fronte progressista che si è guardato bene dal condannare il gesto - può smettere di dare buoni consigli. Ieri sera a Quarta Repubblica, programma condotto da Nicola Porro su Rete 4, è stato trasmesso il video in cui l’ex premier se la prende con la giornalista Lavinia Orefici, rea di avergli posto una domanda sgradita sul manifesto di Ventotene. Il filmato parla chiaro: non solo il padre dell’Ulivo (o forse sarebbe meglio dire patriarca) si rivolge alla donna con aria di scherno e toni da professorino, ma con una mano le afferra anche i capelli e, per quanto senza particolare forza, li strattona. Non è difficile immaginare che cosa sarebbe successo se, a parti invertite, un politico di destra si fosse comportato in questo modo con una giornalista di sinistra (cosa che, per altro, non accade): fiumi di inchiostro sul patriarcato, appelli di intellettuali e artisti contro il maschilismo tossico, richieste di scuse ed eventualmente di dimissioni, proposte per nuovi corsi di educazione alla parità di genere nelle scuole. Il tutto è avvenuto lo scorso sabato, a margine della presentazione del libro scritto da Prodi con Massimo Giannini presso l’Auditorium di Roma. Finché le domande le fanno gli amici, l’ex presidente della Commissione europea sorride ed è cordiale. Il volto si fa scuro quando arriva il turno della collega di Quarta Repubblica: «Posso chiederle che cosa ne pensa di questa frase, se la condivide?», domanda Orefici prima di leggere la citazione: «“La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”». «Ma che cavolo mi chiede?», sbotta allora Prodi. «Io ho mai detto una cosa del genere in vita mia?». «È un passaggio del manifesto di Ventotene», replica la giornalista.A questo punto il professore inscena quello che gli esperti della parità di genere chiamerebbero mansplaining. Citando la Treccani, si tratta dell’«atteggiamento paternalistico con il quale certi uomini pretendono di rappresentare e spiegare alle donne il loro stesso punto di vista e ciò che è lecito o non è lecito che le donne facciano». La celebre enciclopedia riporta anche un’osservazione di Vera Gheno, sociolinguista e specialista in linguaggi giovanili, secondo cui un tratto «tipico del modo di esprimersi degli uomini è quello che in America chiamano mansplaining: quando a ogni parola di donna un uomo interviene a spiegare come un patriarca, perché lui la sa più lunga». Difficile trovare un esempio più calzante di questo.«Lo so benissimo signora», replica infatti Prodi all’ultima risposta di Orefici, intonando una cantilena tra il sarcastico e l’infantile: «Non sono mica un bambino, sa?». Proprio in quel momento, la mano si allunga verso il volto della giornalista, ne afferra i capelli e li tira leggermente. Nessuno strattone, come erroneamente descritto da qualcuno, ma nemmeno una mano sulla spalla, come affermato dal protagonista. Il servizio di Quarta Repubblica mostra chiaramente che le dita del professore sono ben sopra la spalla e afferrano una ciocca di capelli. Il gesto non è tale da provocare dolore, ma sicuramente è sufficiente per umiliare la donna. A chiunque guardi il video, infatti, la domanda sorge spontanea: se fosse stato un uomo, si sarebbe mai permesso di mettergli le mani addosso in quel modo? Avrebbe usato gli stessi toni da professorino spazientito?Ognuno, rivedendolo, può darsi una risposta. Il modo saccente, d’altra parte, continua anche nelle frasi successive. «Ma era nel 1941, gente messa in prigione dai fascisti...», aggiunge l’ex presidente: «Cosa pensavano secondo lei, al trattato o all’articolo secondo della Costituzione? Ma il senso della storia ce l’ha lei o no?». «Volevo sapere, visto che era stato citato…», prova a replicare Orefici. «Allora io le cito un verso di Maometto», la interrompe lui, «e mi dice cosa lei pensa di Maometto? Ma dai, su, questo è far politica in modo volgare, scusi». A questo punto si volta verso un’altra giornalista. La stessa Lavinia Orefici ha commentato l’accaduto: «Il presidente Prodi oltre a rispondere alla mia domanda con tono aggressivo e intimidatorio, ha preso una ciocca dei miei capelli e l’ha tirata. Ho sentito la sua mano fra i miei capelli, per me è stato scioccante. Lavoro per Mediaset da dieci anni, inviata all’estero su vari fronti e non ho mai vissuto una situazione del genere. Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna».Basterebbe questo. Tuttavia, il professor Prodi non solo non si è premurato di rivolgere delle scuse alla collega, gesto che in qualche modo avrebbe consentito di archiviare la vicenda, ma ha anche riportato una versione fantasiosa dei fatti. «Nessuno strattone o tirata di capelli», ha commentato: «Come tutti i giornalisti e le persone presenti possono testimoniare ho appoggiato una mano sulla sua spalla perché stava dicendo cose assurde». Il filmato, però, lo sbugiarda. E ieri, in aggiunta, dribblando i cronisti al termine di un incontro a Bologna, si è permesso anche di fare lo spiritoso: «Figurati se parlo con una giornalista, che poi dicono che l’ho stuprata...». Proprio lui, quello con «la casa che ricorda un alveare color miele» (citazione da Repubblica), autore nel 1997 di una direttiva del presidente del Consiglio sull’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne. Ma in silenzio, sull’accaduto, non è rimasto solo il centrosinistra: anche dall’Ordine dei giornalisti, come ha rilevato il deputato della Lega Rossano Sasso, neanche una voce si è alzata in difesa di Lavinia Orefici.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/prodi-ha-tirato-i-capelli-2671396537.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="se-fosse-stato-un-politico-di-destra-la-stampa-avrebbe-fatto-le-barricate" data-post-id="2671396537" data-published-at="1742850275" data-use-pagination="False"> Se fosse stato un politico di destra la stampa avrebbe fatto le barricate Un attempato signore infastidito dalla domanda di una giornalista la strattona, le tira i capelli e le risponde in malo modo. Ci si aspetta che, a reti unificate, tv, giornaloni, Federazione della stampa, femministe, Ordine dei giornalisti, mobilitate le truppe del generale sdegno, facciano il diavolo a quattro. Invece su X Elon Musk a volte fa comodo, Luca Bottura, la voce del politicamente corretto, risponde a Francesca Totolo - ricercatrice di geopolitica - che stigmatizza il fatto: «Prodi ha fatto benissimo. Era ora che qualcuno desse al retequattrismo la risposta che merita. Peccato solo sia toccato a chi esegue ordini e non alla ghenga che ha trasformato una gran parte del giornalismo italiano nella cinghia di trasmissione della produzione di odio». Come se Bottura usasse un linguaggio da chierico: da restare senza woke! Sandra Zampa - vestale dei vaccini e cattofemminista - aggiunge: «Hai ragione, ma anche chi esegue dovrebbe avere una dignità». L’addetta Zampa di Prodi peraltro sostiene ogni due per tre: «Il governo della destra penalizza le donne in difficoltà». I fatti sono noti. Romano Prodi alla giornalista di Rete 4, Lavinia Orefici, che gli chiedeva un commento sul manifesto di Ventotene ha risposto malamente («Ma che cavolo mi chiedete?»), poi le ha tirato i capelli a dirle: stia buonina. Ha provato a negare, ma i filmati, trasmessi ieri sera da Nicola Porro conduttore di Quarta Repubblica, lo smentiscono e la Orefici ha commentato: «Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna; mi dispiace che il presidente non si sia semplicemente scusato». Prodi non ha mai chiesto scusa in vita sua. È protetto dagli indignati speciali di sinistra: hanno trasformato la Orefici in provocatrice. E anche la Rizzoli difende il suo «autore» esprimendogli vicinanza dopo gli attacchi di alcuni giornali! Il professore ci provò anche con Oriana Fallaci che mai gli perdonò la seduta spiritica per trovare la prigione di Aldo Moro. Lei gli scrisse - era il 2001 e lui stava al vertice dell’Europa - «Non mi parve serio, Monsieur, meglio: non mi parve rispettoso, pietoso, umano, nei riguardi di Moro che stava per essere ucciso». Aggiungendo: «So che in Italia la chiamano Mortadella. E di ciò mi dolgo per la mortadella, che è uno squisito e nobile insaccato di cui andar fieri, non certo per lei che in me suscita disistima fin dal 1978». L’entourage prodiano provò ad «azzannare» la Fallaci. La vendetta ci fu nel 2006 con lui presidente del Consiglio; nonostante 75.000 firme che la volevano senatrice a vita, la nomina della Fallaci non arrivò. Con Alessandro Manzoni bisognerebbe scrivere «delle colonne infami» notando col gran lombardo: «Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder ciò che si desidera». La sinistra a parole vorrebbe la libertà e la dignità di stampa. Ma solo se il presunto attacco viene da destra. L’epoca più florida dell’indignazione a senso unico è stata quella di Silvio Berlusconi. Ma i due precedenti più clamorosi furono il pamphlet di Camilla Cederna, poi condannata per diffamazione, che portò alle dimissioni di Giovanni Leone (1978) da presidente della Repubblica, e, dieci anni prima, lo scandalo Sifar che assicurò il seggio parlamentare a Eugenio Scalfari. Nel 2009 la Fnsi interviene tre volte. Prima contro il famoso «editto bulgaro» (la sospensione dei programmi Rai di Enzo Biagi e Michele Santoro) poi per la celeberrima battuta su Rosy Bindi pronunciata a Porta Porta con tanto d’indignazione del gruppo delle «donne della realtà» e con l’allora segretario della Fnsi, Franco Siddi, giornalista del gruppo Espresso-Repubblica, che rampogna: «Non passa giorno senza che il presidente del Consiglio distilli la sua dose di disprezzo contro l’informazione: ha il coraggio di lamentarsi di un sistema che è sfigurato dal suo conflitto di interessi». Giuseppe Giulietti (Fnsi) difese Repubblica per le famose dieci domande a Berlusconi, ma se la prese con Il Giornale che con il cosiddetto metodo (Dino) Boffo aveva attaccato l’Avvenire. Quando vuole la corporazione funziona! Epico è l’intervento di Berlusconi a l’Infedele di Gad Lerner, che si indigna per l’offesa. Gli disse, era il 25 gennaio 2011: «La sua trasmissione è un postribolo televisivo». Tutti a difesa di Lucia Annunziata quando, il 9 gennaio del 2013, il Cav abbandonò lo studio di In mezz’ora. Epico lo scontro con Lilli Gruber nel 2018, ovviamente era intoccabile. La categoria nulla disse a Massimo D’Alema (Pd), che da presidente del Consiglio sparava raffiche di querele, né quando nel 2018, presenti i De Luca padre e figlio (Vincenzo e Roberto), Gaia Bozza di Fanpage vene aggredita da militanti pd a Salerno. Non dettero pace invece a Ignazio La Russa, presidente del Senato, lo scorso luglio, dopo le botte a un cronista della Stampa che aveva «spiato» una riunione di Casa Pound. Disse: «Assoluta e totale condanna, ma serve un modo più attento di fare le incursioni legittime da parte dei giornalisti. La persona aggredita, a cui va la mia solidarietà, non si è mai dichiarata giornalista». Per l’allora direttore di Repubblica, Maurizio Molinari: «La Russa ha varcato la linea rossa della libertà di stampa». Sempre da Repubblica - in questa lacunosa antologia delle «colonne infami» - il 30 luglio scorso Annalisa Cuzzocrea nel salotto «amico» di La 7 sentenzia: «Quello che è successo in Cina è molto grave; indicare come ha fatto Giorgia Meloni dei giornali come oppositori politici non è da Paese democratico». Ah, trovare su Repubblica il caso Prodi-Orefici è un’impresa.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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