
Il procedimento nei confronti del porporato prosegue, anche per l'imputazione che lo vede coinvolto assieme alla Marogna. Il collegio presieduto da Pignatone ha rimandato alla Procura solo atti relativi a casi specifici, come quello del segretario Carlino.Il processo al cardinale Angelo Becciu si ferma e torna in mano al promotore di giustizia, ma al tempo stesso continua. Ieri il collegio del Tribunale Vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone, ha ritenuto «che la lamentata (dalle difese, ndr) violazione dell'art. 289 c.p.p. sia fondata, limitatamente, però, agli imputati ed ai reati di seguito precisati, con conseguente restituzione degli atti al promotore di giustizia nei relativi limiti soggettivi ed oggettivi». Tradotto, per alcuni imputati gli atti tornano in mano alla Procura, mentre per altri, in alcuni casi colpiti dallo stesso capo d'accusa, il processo, salvo ulteriori sorprese, prosegue come se non fosse successo nulla. Si ferma completamente il processo per l'ex segretario di Becciu, monsignor Mauro Carlino (accusato di cinque episodi di abuso d'ufficio e uno di estorsione) e per l'uomo d'affari Raffaele Mincione (tre accuse di peculato, una di truffa, una di abuso d'ufficio, una di appropriazione indebita e quattro di autoriciclaggio). Stop a tutte le accuse anche per l'avvocato Nicola Squillace (truffa, abuso d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio) e per l'alto funzionario del Vaticano Fabrizio Tirabassi (cinque accuse di corruzione, sei di abuso d'ufficio, quattro di peculato). Per il principale imputato, il cardinale Becciu invece, sono stati restituiti gli atti per due imputazioni su otto. A tornare sulla scrivania dall'aggiunto Alessandro Diddi, sono le carte relative all'accusa di subornazione di teste (capo EE) e una delle cinque accuse di peculato (il capo JJ), quella relativa ai 225.000 euro percepiti dalla cooperativa presieduta dal fratello. Vanno avanti invece le due ipotesi di abuso d'ufficio e le restanti quattro di peculato, tra cui quella che, oltre al porporato coinvolge Cecilia Marogna, titolare della società slovena Logsic, destinataria di fondi della Segreteria di Stato. Somme di cui i due, secondo l'accusa si «appropriavano indebitamente convertendole a proprio profitto e comunque usavano in modo illecito e distraevano, a vantaggio proprio, i fondi ed i valori pubblici, di importo non inferiore a 575.000 euro, destinandolo anche ad acquisti voluttuari incompatibili con le finalità impresse dalla Segreteria di Stato nell'atto di affidamento stesso alla predetta Logsic». La società riconducibile alla Marogna era anch'essa imputata, ma quel capo d'accusa è tra quelli fermati dalla decisione del tribunale. Tornano parzialmente all'ufficio del pg anche le posizioni di Enrico Crasso per un'ipotesi di peculato, una di corruzione, cinque di truffa, una di falso e una di riciclaggio (rimangono due ipotesi di peculato, due di corruzione, una di truffa e una di estorsione); di Tommaso Di Ruzza per il reato di peculato (restano in piedi sei ipotesi di abuso d'ufficio e una di pubblicazione di documenti segreti). Per tutte le posizioni rimaste del tutto o in parte immuni dal decreto, il processo va avanti, e riprenderà nell'udienza fissata al 17 novembre. Per i rinvii a giudizio interamente o parzialmente azzerati, invece, si dovrà procedere agli interrogatori degli indagati, decidendo poi sulle nuove basi, o per un nuovo rinvio a giudizio o per l'archiviazione. La restituzione degli atti all'Ufficio del promotore di giustizia era stata chiesta nell'udienza di due giorni fa dallo stesso pg aggiunto Diddi, motivandola con l'intento di procedere agli interrogatori preliminari degli imputati che non li avevano resi durante la fase di indagine. Le difese dei dieci imputati avevano invece bollato come «irricevibile» la richiesta di Diddi, puntando invece ad ottenere la nullità del decreto di citazione a giudizio a causa sia dei mancati interrogatori preliminari sia per l'ancora omesso deposito di atti del processo, tra cui i il video dell'interrogatorio di monsignor Alberto Perlasca. Registrazione di cui Pignatone ieri ha disposto il deposito entro il 3 novembre, acconsentendo ad una richiesta presentata dalle difese fin dall'udienza del 27 luglio e alla quale l'accusa si era inizialmente detta d'accordo, per poi cambiare idea, adducendo ragioni di privacy. Per l'ex capo della Procura di Roma, «il deposito degli atti richiesti dalle difese appare indispensabile al fine di assicurare la par condicio delle parti nella conoscenza degli atti e quindi il rispetto del principio del contraddittorio». Ma dal decreto emesso ieri dal tribunale emerge la durezza dello scontro procedurale che ha paralizzato queste prime due udienze. Il 27 luglio le difese chiedono «il deposito delle audio e videoregistrazioni degli interrogatori degli imputati e delle dichiarazioni rese da Mons. Alberto Perlasca», e «il promotore di giustizia ha aderito alla richiesta esplicitando che in proposito “non e c'è nessun problema"». Di conseguenza il tribunale ha disposto il deposito degli atti. Il 9 agosto però, l'ufficio del promotore ha comunicato al tribunale che non avrebbe provveduto al deposito osservando, che «il deposito del materiale di cui si tratta sia suscettibile di successiva divulgazione con conseguente potenziale grave ed irreparabile nocumento dei diritti delle persone che hanno partecipato all'atto (oltre agli interessati, gli avvocati e, in un caso, l'interprete)» e che con il deposito «risulterebbe irreparabilmente compromesso il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte». Una posizione stroncata senza appello dal collegio giudicante: «Non si comprende come la tutela della riservatezza possa essere messa a rischio dalla pubblicità, propria della sede dibattimentale, di atti (gli interrogatori) che per loro natura non sono sottoposti a segreto di dichiarazioni […] che lo stesso Promotore ha indicato come fonti di prova e ha ripetutamente evocato per motivare la sua richiesta di citazione a giudizio degli imputati».
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