2024-11-13
In 10.000 a rischio cassa a causa dei giudici
L'area industriale di Priolo (Getty Images)
I magistrati bloccano di nuovo i depuratori del sito di Priolo per rivolgersi alla Consulta contro il decreto del governo: tutto fermo per almeno sei mesi. È lo stesso copione dell’Ilva. Convocato un tavolo di emergenza. Urso: «Colpiscono il Paese per colpire noi».È dicembre del 2022 quando l’area industriale di Priolo, a pochi chilometri da Siracusa, era interessata a una difficile operazione di cessione. In ballo, la necessità di vendere a fondi in grado di subentrare alla proprietà russa congelata dopo l’avvio della guerra in Ucraina. Il governo mette in piedi un decreto d’urgenza con l’obiettivo di tutelare le attività e i posti di lavoro. Il decreto 187, secondo cui spetta al tTribunale di Roma vagliare i casi di sequestro (per motivi ambientali) di tutte quelle società considerate strategiche. Dentro il polo si registrano aziende del calibro di Versalis (Eni), Sasol, Priolo servizi (Erg ed Eni), Sonatrach raffineria italiana che come dice il nome fa riferimento al colosso algerino, e, infine, la Isab di Priolo in precedenza di proprietà dei russi di Lukoil. Il 15 giugno del 2022 il giudice del tribunale aretuseo sequestra l’impianto per «disastro ambientale». Secondo l’accusa le autorizzazioni non sarebbero conformi e di conseguenza tra il 2016 e il 2020 sarebbero stati sversati idrocarburi in mare. A luglio di due anni fa la Regione rilascia l’Aia, autorizzazione integrata ambientale, con l’obiettivo di consentire i lavori di bonifica e al tempo stesso le attività quotidiane. La situazione non migliora in alcun modo, l’Aia viene sospesa e il 23 dicembre successivo i giudici segnalano all’amministratore giudiziaria di «avviare le operazioni di interruzione dei conferimenti». Insomma, non è difficile immaginare il panorama giudiziario che si prospetta e la terribile assonanza con quanto è successo a Taranto a partire dal 2012 quando l’impianto dell’Ilva finì sotto la scure della magistratura. Anche lì sequestri, autorizzazioni integrate e 12 anni di tira e molla giudiziari aggravati da interventi politici sciagurati (vedi la sparizione dello scudo penale per opera dei grillini) fino alla scelta di un partner industriale che non ha aiutato - per usare un eufemismo - il rilancio dell’acciaio italiano. Anche il decreto pro Ilva come quello in questione su Sasol affronta il dilemma di base tra il diritto al lavoro e alla salute. Nel testo si legge chiaramente che «le sanzioni interdittive non possono essere applicate quando pregiudicano la continuità dell’attività svolta in stabilimenti industriali o parti di essi dichiarati di interesse strategico nazionale se l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi». Scorrendo ulteriormente il documento si nota pure che «il modello organizzativo si considera sempre idoneo a prevenire reati se nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale sono stati adottati provvedimenti diretti a realizzare il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva e di salvaguardia dell’occupazione e la tutela della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute, dell’ambiente». Due frasi chiare e nette che però non sembrano aver risolto granché. Infatti da ieri i depuratori di Priolo sono di nuovo fermi. Negli ultimi due anni si sono susseguiti ricorsi. Prima il giudice di Siracusa impugna il decreto Sasol e lo porta davanti alla Corte costituzionale. E lo impugna nel merito. Iter lungo che viene respinto. Così quest’anno sempre da Siracusa si fa un secondo ricorso e si contesta il decreto nel metodo. Come da iter finisce al Tribunale di Roma, il quale risponde rispedendo nuovamente il testo alla Corte costituzionale, solo che nel frattempo emette un dispositivo che non prevede l’utilizzo degli impianti. Tutto di nuovo fermo. O meglio fermi i 4.500 dipendenti del polo a cui vanno sommati quelli impiegati nell’indotto. Il totale fa circa 10.000 persone. Se si aspettasse il responso della Consulta significherebbe attendere almeno sei mesi e avviare la cassa integrazione. Risultato, ieri il Consiglio dei ministri ha affrontato il tema e ha dato l’ok per la convocazione di un tavolo di urgenza il prossimo 21 novembre. «Ancora una volta la decisione di un tribunale rischia di vanificare l’azione di governo a tutela dell'interesse generale», ha dichiarato il titolare del Mimit, Adolfo Urso, «Stavolta a essere colpito è proprio il diritto al lavoro di migliaia di persone in una zona strategica della Sicilia. Per colpire il governo colpiscono il Paese». Come andrà a finire? La speranza che in Italia torni la cultura industriale è ormai al lumicino. Purtroppo in questa vicenda si sommano due temi paralleli e altrettanto complessi. Il primo è la frattura in atto tra i due poteri dello Stato, quello esecutivo e quello giudiziario. Si vede a Priolo, in Albania con la questione rimpatri e persino con la Corte dei conti. Il secondo tema riguarda la postura assolutamente piegate a logiche ambientali di apparente tutela della salute pubblica. In nessun passaggio della Costituzione si dice che il diritto alla salute è primario rispetto a quello al lavoro. Invece, forti anche della decisione di mettere in costituzione la tutela dell’ambiente, le sentenze, soprattutto dopo il Covid, ormai sono sempre manichee e in una sola direzione. Quando l’Italia sarà del tutto deindustrializzata che faremo?
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