2022-10-30
Il primo governo Mussolini tra rivoluzione e continuità
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Riunione di gabinetto del governo Mussolini il 1 novembre 1922 (Getty Images)
A tre giorni dalla marcia su Roma, Benito Mussolini ebbe l'incarico. Il primo esecutivo (1922-24) vide la partecipazione di molti esponenti del vecchio Stato liberale giunto al tramonto e del mondo cattolico eroso dalla lotta tra Don Sturzo e il Vaticano. E dai fantasmi della Grande Guerra.Quando il primo governo Mussolini nacque tre giorni dopo la marcia su Roma, erano tanti gli esponenti del vecchio Stato liberale a credere che fosse l’unica soluzione possibile all’agonia che il sistema politico, da essi stessi rappresentato per decenni, stava vivendo. La cesura traumatica della Grande Guerra, vinta in trincea ma pagata a caro prezzo in termini socio-economici, tolse alla élite politica nata dal Risorgimento la terra da sotto i piedi. Il vecchio Giovanni Giolitti, per ben cinque volte primo ministro del Regno tra il 1892 e il 1921, fu tra coloro che accolsero con attenzione (e speranza non celata) le prime mosse dell’esecutivo guidato dal capo del giovane partito fascista. L’Italia del primo dopoguerra era un Paese lacerato dalle conseguenze politico sociali del conflitto, frustrato dagli sviluppi delle trattative di pace, diviso e inquieto nel mondo del lavoro le cui tensioni sfociarono nelle dure lotte operaie del biennio rosso del 1920-21. Nobile e da sempre distaccata dagli affari del popolino, la classe politica post-risorgimentale risultava dopo la guerra ormai anacronistica e immota, incapace certo di rispondere adeguatamente alla crisi profonda che attraversava l’Italia. All’alba degli anni Venti, nuove forze venute dal basso chiedevano a gran voce uno spazio in Parlamento. L’erosione del vecchio establishment era ormai avanzata per opera di tre nuove forze, eterogenee e in conflitto tra loro: I cattolici del Partito Popolare di Don Sturzo, i Socialisti e i Fascisti. Alla lotta politica tra i nuovi protagonisti corrispose la lotta fisica nelle piazze tra anarco-socialisti e squadristi. Quegli stessi uomini che in molti casi avevano combattuto fianco a fianco nel fango e nel gelo delle trincee ora si trovavano ad affrontarsi corpo a corpo sotto vessilli che in molti casi presentavano la stessa simbologia mutuata dal mito dell’arditismo come il teschio e il pugnale. Il sangue continuò a scorrere nelle strade d’Italia richiamando ogni giorno la memoria della guerra, le cui migliaia di mutilati e invalidi rappresentavano, dopo la vittoria che portava il nome della loro disabilità, gli spettri di un sacrificio mai equamente ripagato dalla Patria. Il quadro difficile era completato dalla paura diffusa del bolscevismo, alimentato dal vento dell’Internazionale socialista, dagli echi della rivoluzione russa e dalla nascita del Partito Comunista nel 1921. A complicare ulteriormente la paralisi istituzionale fu la posizione dei nuovi protagonisti della vita politica italiana, i cattolici, nei confronti sia dei rapporti con il Vaticano (la questione Romana irrisolta) che degli altri partiti del vecchio Stato sulle grandi questioni economico sociali italiane. Il governo Mussolini I nacque nel segno della dicotomia tra i disordini di piazza durante e dopo la marcia sulla Capitale e l’insediamento nei seggi del Parlamento nel segno di una evidente continuità istituzionale, dato che lo Statuto Albertino (la carta costituzionale dell’Italia risorgimentale) era mantenuto in vigore. Il primo dicastero del capo del fascismo fu esito, oltre che degli effetti dei disordini e delle armi e della pressione sul sovrano, anche di un estremo quanto vano tentativo di formare un sesto governo Giolitti o un terzo governo a guida Luigi Facta (il debole primo ministro liberale in carica prima del 28 ottobre 1922) con la partecipazione dei fascisti. Una soluzione che non ebbe seguito e che lasciò sostanzialmente via libera all’esecutivo Mussolini, che per composizione non rappresentava affatto un «monocolore nero», ma piuttosto il risultato del magma politico precedente la marcia su Roma che si ricompose nel governo presieduto dal capo del fascismo. La presenza di liberali, cattolici, ex interventisti e nazionalisti, militari, vecchi giolittiani, democratico-sociali rispecchiava la lacerazione politica raggiunta dai partiti vecchi e nuovi all’inseguimento di una legittimità e di una continuità di fronte ad una crisi che ne aveva eroso le fondamenta. Tra questi ultimi figuravano due ministri del Ppi di Don Sturzo, già in netta crisi e diviso all’interno tra le correnti di destra e sinistra. Stefano Cavazzoni (ministro del Lavoro) era stato addirittura uno dei fondatori del partito cattolico e aveva contrastato Sturzo dopo le elezioni del 1921 assumendo una posizione attendista nei confronti di un fascismo visto come «normalizzatore». Vincenzo Tangorra, docente di economia tributaria a Pisa fu scelto come ministro del Tesoro, ma morì il 15 dicembre durante una seduta del Parlamento e fu sostituito dal fascista e squadrista della prima ora Alberto de’Stefani, regista della fase liberista degli anni Venti e più tardi firmatario dell’ordine del giorno Grandi. Due ministri venivano invece dalle file dei democratico-sociali, l’ala sinistra dei liberali costituitasi in partito indipendente nell’aprile del 1922. Si trattava di Giovanni Antonio Colonna di Cesarò, nobile siciliano dal passato nei radicali, che manteneva il ministero delle Poste già guidato sotto Facta. Lascerà la carica poco prima delle elezioni del 1924 per non aderire al cosiddetto Listone fascista. Passato all’opposizione sarà tra i massimi esponenti della scissione aventiniana nonché tra i maggiori sospettati del fallito attentato al Duce del 1926. I liberali al governo tra il 1922 e il 1924 erano due: Il marchese Giuseppe De Capitani d’Arzago andò all’Agricoltura. Al ministero dei Lavori Pubblici fu nominato Gabriello Carnazza che nel 1924 fu spinto alle dimissioni per il presunto coinvolgimento nell’omicidio Matteotti. Due gli indipendenti, poi confluiti nel Pnf, figure di notevole peso politico e intellettuale negli anni a venire: Luigi Federzoni al ministero delle Colonie (anch’egli vent’anni più tardi firmatario dell’ordine del giorno Grandi) e il filosofo Giovanni Gentile alla Pubblica Istruzione, ideologo del fascismo-regime e caduto per mano partigiana nel 1944. Chiudevano i ranghi dei ministri non fascisti due militari o meglio due icone della Vittoria: il generale Armando Diaz, colui che portò l’Italia da Caporetto a Vittorio Veneto e l’ammiraglio piemontese Paolo Thaon di Revel, alla guida di quella Regia Marina che dominò l’Adriatico con i Mas. I due militari erano le pedine più importanti per il Re, sia per l’incrollabile fede monarchica che per il prestigio che godevano in Patria. Ma anche come contrappeso ai fascisti e alla loro conformazione paramilitare rappresentata dallo squadrismo, una versione «popolare» dell’esercito fatta di reduci malvisti dai politici di alto lignaggio. Oltre a vigilare sugli sviluppi delle squadre fasciste post-marcia, Vittorio Emanuele III affidò agli uomini della Vittoria anche la vigilanza su quella componente dell’esercito che aveva aderito alla marcia su Roma. Tra i sottosegretari, il governo Mussolini I annoverò il popolare Giovanni Gronchi, futuro presidente della Repubblica Italiana ed ebbe l’appoggio del capogruppo del Ppi, Alcide De Gasperi, passato in seguito alle fila dei secessionisti aventiniani. Il composito ed eterogeneo governo Mussolini ebbe alla sua costituzione solo tre ministri organici al Pnf, contando che il capo del fascismo avocò a sé gli Interni e gli Affari esteri: il già citato De Stefani, Aldo Oviglio e Giovanni Giuriati. Con la compagine sin qui descritta, il governo nato formalmente il 31 ottobre 1922 ebbe ad affrontare grandi temi come la riforma della legge elettorale (che risulterà nella legge Acerbo, un maggioritario che premiava le liste con esiti superiori al 25% dei voti) e le questioni nate prima della sua costituzione, come la spina nel fianco del fallimento della Banca Italiana di Sconto trascinata nel baratro dalla cessazione delle vertiginose commesse militari della Grande Guerra per la controllante Ansaldo, con la conseguente erosione dei risparmi dei correntisti. I primi mesi di governo furono anche segnati dal tentativo di raggiungere un compromesso con i sindacati operai della Confederazione Generale del Lavoro, impresa vanificata per l’opposizione dei sindacalisti fascisti e dall’attività in politica estera con la partecipazione ai trattati internazionali durante la delicata fase delle riparazioni di guerra a carico della Germania, verso la quale Mussolini si mostrò inflessibile. Un altro punto cardine sul fronte interno era la politica del Governo nei confronti del Vaticano, fermo formalmente al 1870 nei confronti dello Stato unitario. La sfida del governo nato dalla marcia fu quella di ricondurre ad un' unità dei cattolici sotto la guida del fascismo, una volta sacrificato l'anticlericalismo della prima ora. Un'evoluzione determinante nel senso del riavvicinamento della Santa Sede al movimento (poi partito) fascista fu l'ascesa al soglio pontificio di Alcide Ratti, Papa Pio XI. Profondamente antisocialista, il nuovo pontefice segnò la distanza tra le gerarchie ecclesiastiche e il partito di Don Sturzo, erodendo alla radice la partecipazione politica al primo governo Mussolini, che già dopo il primo anno del nuovo dicastero vide l'eclissi del fondatore del Ppi e le dimissioni dei ministri eletti nel 1922. La strada verso il concordato fu aperta proprio durante il governo Mussolini I con una serie di concessioni alla Chiesa, a partire dall'importantissimo nodo dell'istruzione scolastica. Del 1923 è una delle riforme-chiave che attraverserà il ventennio andando oltre il fascismo stesso: la riforma dell'istruzione firmata dal ministro Giovanni Gentile. Nel testo di quella che lo stesso Duce considerò la “più fascista delle riforme”, fu introdotto per obbligo l'insegnamento della religione cattolica, dichiarata religione di Stato, e perfezionata la parificazione delle scuole private cattoliche con quelle pubbliche. A suggellare la convergenza tra il fascismo e il mondo cattolico, fu introdotta l'esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule scolastiche. Il primo governo Mussolini dovette anche affrontare la questione dei rapporti con la grande industria, che aveva appoggiato la formazione del dicastero nato in circostanze anomale ma considerato una garanzia per scongiurare una nuova stagione di disordini e paralisi produttiva come quella appena vissuta durante il biennio rosso. La confederazione degli industriali pressò continuamente durante i primi due anni di governo a guida fascista perché fossero progressivamente indebolite le organizzazioni sindacali e venissero concesse le privatizzazioni di alcuni settori chiave. Fu da questo pressing che nacque la politica industriale degli anni '20, nota come la fase del liberismo fascista che si infrangerà contro la grande depressione della fine del decennio (dopo un periodo di crescita alla metà degli anni Venti) lasciando il posto al dirigismo degli anni Trenta, che fece l'ossatura dei grandi istituti di Stato (IMI e IRI) che costituiranno la spina dorsale della grande industria di Stato per tutto il dopoguerra fino alle nuove privatizzazioni degli anni Novanta. La legislatura, caratterizzata da continui scontri con le opposizioni ed erosa dall'interno dall'agonia dei partiti del vecchio Stato liberale, andò rapidamente concludendosi alla data delle elezioni politiche del 1924, che saranno caratterizzate dalla rottura traumatica del delitto Matteotti e dalla secessione dell'Aventino. La fase di convivenza tra i rappresentanti della vecchia politica elitaria e il fascismo di governo si fermò definitivamente con la riforma elettorale Acerbo e la successiva assunzione di responsabilità da parte del capo del Governo riguardo l'assassinio del deputato socialista. Sul vero carattere rivoluzionario del suo primo governo nato dalla marcia del 1922, il Duce scriverà oltre un ventennio più tardi durante il crepuscolo di Gargnano e il ritorno alla vecchia passione giornalistica. La risposta fu un sostanziale diniego del mito del carattere rivoluzionario di quel dicastero ormai lontanissimo. Mussolini lo considerò come esito di una rivoluzione che rivoluzione non fu, almeno nel carattere eversivo della forza del fascismo post-marcia. Le regole e i protagonisti della vita politica dell'Italia uscita dalla Grande Guerra non erano cambiati. Ne erano i paradigmi il mantenimento dell'istituzione monarchica espressa dalla vecchia costituzione di concessione regia, lo Statuto Albertino. Che tutto era fuorché l'espressione di una rivoluzione compiuta.