2021-11-03
Le vocazioni ci sono, ma la Chiesa le ostacola
Secondo l'ultimo rapporto della Cei, i seminaristi diocesani sono calati del 28% in soli dieci anni. Gli ambienti conservatori invece prosperano, come i Francescani dell'Immacolata o la Fraternità san Pio X. Però il Vaticano preferisce commissariarli o isolarli.Oltre un quarto di vocazioni in meno in dieci anni. É questo il dato che più colpisce, tra quelli dell'ultimo aggiornamento dell'Ufficio nazionale per la pastorale della vocazioni della Conferenza episcopale italiana. In effetti, meno 28% di seminaristi diocesani dal 2009 al 2019 è un calo notevole e che aggrava un quadro già cupo da anni.Beninteso, dalla Cei sono arrivate informazioni anche su molto altro. Per esempio, sull'età dei seminaristi - la maggior parte dei quali oggi ha tra i 26 e i 35 anni -, nonché sulla loro provenienza, in larga parte riconducibile a famiglie numerose. Appena un aspirante sacerdote su dieci, infatti, è figlio unico. Degna di nota è pure la formazione dei seminaristi di oggi: il 28,1% ha alle spalle studi umanistici-classici, il 26,9% scientifici mentre il 23,2% si è diplomato in istituti tecnici, poco più di uno su dieci, il 10,8%, reduce da studi professionali; è una rivoluzione copernicana rispetto a qualche decennio fa, quando tra gli aspiranti sacerdoti spopolava la maturità classica.Ma torniamo al calo delle vocazioni, che fa sì che oggi, nei 120 seminari maggiori della penisola, i seminaristi diocesani ammontino a 1.804. Al di là della distribuzione regionale di costoro - che vede primeggiare la Lombardia con 266 unità e il Lazio, con 230, mentre in rapporto agli abitanti il primato vocazionale è di Calabria e Basilicata -, il dato che dovrebbe preoccupare la Chiesa è che sempre meno giovani ambiscano a fare il sacerdote.La sola consolazione, in questo scenario, poggia su due elementi: la storicità del fenomeno, non nuovo essendo in corso da mezzo secolo, e il fatto che «gli andamenti più recenti», dei quali ha parlato alla Verità lo scorso 11 ottobre il sociologo Roberto Cipriani, mostrino «un certo rallentamento della tendenza al ribasso». Troppo poco, però, per portare sollievo. Da parte loro, i vescovi italiani, attraverso don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell'Ufficio per la pastorale della vocazioni, fanno sapere che «se mancano le “vocazioni" non è un problema sociologico, o non soltanto», risultando più «una malattia della quale trovare una cura» in un'Italia «da evangelizzare come il cuore di ciascuno, sempre». Parole condivisibili, per carità. Però il nodo resta irrisolto: che fare con la sparizione dei seminaristi? Come fronteggiare e, possibilmente, superare la notte delle vocazioni?Ora, è chiaro che nessuno ha la bacchetta magica e che molto di ciò di cui si sta parlando rispecchia il più generale paradigma della secolarizzazione, che non riguarda certo solo i seminari ma investe la società intera: istituzioni, scuola e famiglie. Questo però non toglie che il tema vocazionale sia urgente. Il punto è che da tempo la Chiesa non solo non affronta il problema ma, se possibile, lo aggrava. In che modo? Non valorizzando o addirittura osteggiando gli ordini che crescono. Si pensi ai Francescani dell'Immacolata, che dal 1990 fino al 2013 hanno registrato una lenta ma costante crescita vocazionale: poi, con il placet di papa Francesco, sono stati commissariati. Al di là di alcuni auspici di qualche anno fa, a livello ecclesiale non si è verificato alcun avvicinamento neppure con la Fraternità san Pio X, la società di vita apostolica tradizionalista fondata da monsignor Marcel François Lefebvre. Peccato, verrebbe da dire, perché quanto a vocazioni i «lefebvriani» se ne intendono: i loro sacerdoti, da 30 che erano nel 1976, sono lievitati a 180 dieci anni dopo, per salire a 354 nel 1996, a 622 nel 2015 e, ancora, a 658 nel 2019. Un'impennata di oltre il 2000% in poco più di 40 anni.Il fatto che gli ordini e i seminari conservatori prosperino, si badi, non è casuale, essendo fenomeno noto da decenni ai sociologi della religione. Già nel lontano 1972, per dire, lo studioso Dean M. Kelley nel suo volume Why conservative churches are growing (Harper&Row) pronosticava la riscossa della religione conservatrice, basata su rigidi codici morali. Una lezione che, dopo decenni, continua a dimostrarsi valida.È di questi giorni, per dire, una nuova pubblicazione del sociologo texano Mark Regnerus che, studiando gli atteggiamenti dei sacerdoti americani, ha rilevato che se da un lato le vocazioni Usa desumibili dalle iscrizioni ai seminari «non stanno né aumentando né diminuendo notevolmente», dall'altro un dato emerge con chiarezza: «Chi completa il seminario con l'intenzione di essere ordinato è oggi più conservatore, in materia di sessualità e non solo, rispetto a chi lo faceva 20, 30 o 40 anni fa».Nulla di nuovo: già nel 2017, in uno studio pubblicato su Sociological science, Sean Bock, sociologo di Harvard, evidenziava come negli Usa solo «la religione moderata» fosse «in declino»; viceversa, gli evangelici conservatori e in generale quanti hanno convinzioni che molti giudicherebbero anacronistiche sono stabili, quando non avanzano. Insomma, il futuro della religione - e dei seminaristi - è conservatore oppure non è. Speriamo che anche in casa cattolica ci si arrenda a questo dato di realtà, smettendo di inseguire l'agenda di Greta Thunberg, Black lives matter e tutte quelle realtà che il declino della Chiesa non lo temono, ma se lo augurano.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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