
Dal 2018 i club inglesi comprano giocatori a peso d’oro eppure non stravincono sul campo.Jadon Sancho, acquistato dal Manchester United per 85 milioni di euro, Antony, preso dall’Ajax per 100, l’ivoriano Nicolas Pepe, l’Arsenal l’ha strappato alla concorrenza sborsando 80 milioni, e poi Kepa, arrivato all’Arsenal in cambio di 80 milioni, o più banalmente Gonçalo Guedes, il fantasista portoghese accasatosi al Wolverhampton per 40 milioni. La lista dei «bidoni», che poi spesso e volentieri «bidoni» non sono, acquistati a peso d’oro dai top club della Premier League e svenduti come fossero dei pesi morti dei quali disfarsi il prima possibile potrebbe continuare all’infinito e certifica nei numeri la mancanza di corrispondenza tra le cifre folli investite dai club d’Oltremanica e i trofei portati a casa. L’analisi prende spunto dal focus dedicato al calciomercato all’interno dell’Osservatorio sullo Sport System italiano di Banca Ifis.Dati alla mano, il saldo tra spese e incassi nel periodo 2018-2024 è stato negativo per 7,5 miliardi in Premier, per 957 milioni nella serie A italiana, per 630 milioni nella Liga spagnola e addirittura positivo per 270 milioni in Bundesliga e per 981 milioni nella Ligue 1 francese. Di fronte a uno sproporzione del genere, parliamo di un rapporto almeno di otto a uno, ci si aspetterebbe che i club della Premier avessero fatto man bassa di titoli europei, e invece non è così. Anzi. Se prendiamo la Champions League, nello stesso arco temporale (2018-2024) vediamo che il Real Madrid si è imposto in tre edizioni, poi certo ci sono i successi di Liverpool, Chelsea e Manchester City, intervallati dalla vittoria del Bayern Monaco. Nessuna supremazia, insomma, rispetto al resto d’Europa. E il confronto con le spagnole va ancora peggio se prendiamo l’Europa League. Nella coppa minore infatti, una sola squadra inglese, il Chelsea (se consideriamo sempre gli ultimi sette anni), ha impresso il suo nome nel palmares. Poi è un’alternarsi di club iberici - Siviglia, Villareal e Atletico Madrid - oltre ai sigilli di Atalanta ed Eintracht Francoforte.Morale della favola: la Spagna ha fatto decisamente meglio delle squadre di Sua maestà, nonostante i numeri del mercato parlino di un rapporto di saldo tra le entrate e le uscite decisamente inferiore. Conta certo la capacità del vivaio di sfornare talenti, e su questo le cantere e il coraggio spagnolo di buttare i giovanissimi nella mischia fa la differenza, ma per il resto i manager delle squadre inglese dovrebbero farsi un bell’esame di coscienza. Non dice solo questo lo studio di Banca Ifis presentato ieri allo Sheraton di Milano con la partecipazione di Luigi De Siervo (amministratore delegato della Lega di Serie A), Paolo Bedin (presidente della Lega di Serie B), Umberto Calcagno (presidente Aic), Giuseppe Marotta (presidente e ad dell’Inter) e Ariela Caglio (docente Sda Bocconi). Dice anche che il calciomercato genera una spesa media annua di 6,7 miliardi di euro e movimenta oltre 19.000 trasferimenti internazionali di giocatori a livello globale. In termini assoluti, questo si traduce in una spesa media annuale per i campionati europei pari a 5,77 miliardi di euro e incassi medi pari a 5,69 miliardi. Sul fronte degli acquisti viene privilegiato il mercato «domestico» del Vecchio Continente, con il 75% degli arrivi provenienti dai campionati Uefa; dato che sale all’81% guardando alle cessioni. A questa convergenza verso l’Europa contribuisce principalmente il Sud America, con il Conmebol che fornisce il 36% degli arrivi extra europei. I campionati sudamericani si confermano dunque un grande contenitore di valore atletico anche per il calcio europeo. Ma il mercato non è solo cifre e percentuali, porta anche sogni e speranze per il futuro. Analizzando il sentiment web, emerge infatti che le sessioni di calciomercato, sia estive sia invernali, amplificano le opportunità perché fanno aumentare l’interesse degli appassionati, finendo per rappresentare un vero e proprio asset al servizio del marketing sportivo. Che non vede l’ora cavalcare la passione dei tifosi.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».
Antonio Scoppetta (Ansa)
- Nell’inchiesta spunta Alberto Marchesi, dal passato turbolento e gran frequentatore di sale da gioco con toghe e carabinieri
- Ora i loro legali meditano di denunciare la Procura per possibile falso ideologico.
Lo speciale contiene due articoli
92 giorni di cella insieme con Cleo Stefanescu, nipote di uno dei personaggi tornati di moda intorno all’omicidio di Garlasco: Flavius Savu, il rumeno che avrebbe ricattato il vicerettore del santuario della Bozzola accusato di molestie.
Marchesi ha vissuto in bilico tra l’abisso e la resurrezione, tra campi agricoli e casinò, dove, tra un processo e l’altro, si recava con magistrati e carabinieri. Sostiene di essere in cura per ludopatia dal 1987, ma resta un gran frequentatore di case da gioco, a partire da quella di Campione d’Italia, dove l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti è stato presidente fino a settembre.
Dopo i problemi con la droga si è reinventato agricoltore, ha creato un’azienda ed è diventato presidente del Consorzio forestale di Pavia, un mondo su cui vegliano i carabinieri della Forestale, quelli da cui provenivano alcuni dei militari finiti sotto inchiesta per svariati reati, come il maresciallo Antonio Scoppetta (Marchesi lo conosce da almeno vent’anni).
Mucche (iStock)
In Danimarca è obbligatorio per legge un additivo al mangime che riduce la CO2. Allevatori furiosi perché si munge di meno, la qualità cala e i capi stanno morendo.
«L’errore? Il delirio di onnipotenza per avere tutto e subito: lo dico mentre a Belém aprono la Cop30, ma gli effetti sul clima partendo dalle stalle non si bloccano per decreto». Chi parla è il professor Giuseppe Pulina, uno dei massimi scienziati sulle produzioni animali, presidente di Carni sostenibili. Il caso scoppia in Danimarca; gli allevatori sono sul piede di guerra - per dirla con la famosissima lettera di Totò e Peppino - «specie quest’anno che c’è stata la grande moria delle vacche». Come voi ben sapete, hanno aggiunto al loro governo (primo al mondo a inventarsi una tassa sui «peti» di bovini e maiali), che gli impone per legge di alimentare le vacche con un additivo, il Bovaer del colosso chimico svizzero-olandese Dsm-Firmenich (13 miliardi di fatturato 30.000 dipendenti), capace di ridurre le flatulenze animali del 40%.





