2019-09-16
Posti a rischio, 183 crisi, 300.000 persone in bilico. E nessuno che se ne occupi davvero...
Ballano circa 300.000 posti di lavoro, più della popolazione del Comune di Verona. Tanti sono i dipendenti le cui aziende sono impegnate nei 183 tavoli di crisi. I settori? L'elettronica, il siderurgico, i call center, ma anche l'intimo: viaggio nelle vertenze più importanti che cercano una risoluzione con il nuovo governo. Una grana in più nelle difficoltà dell'esecutivo Conte bis.Lo speciale contiene un articolo più sei approfondimenti sui principali tavoli di crisi.Sono in 300.000, vivono in ogni angolo d'Italia e sono dimenticati: è il numero di persohe che lavorano in aziende in crisi e la cui occupazione è a rischio. Per garantire un futuro a questi posti, sono aperti tavoli al ministero dello Sviluppo economico (Mise), retto fino al mese scorso da Luigi Di Maio ed ereditato da Stefano Patuanelli. Ma al Mise tutto tace. I confronti sono fermi. Non esiste un numero ufficiale né dei tavoli né dei lavoratori a rischio. Nemmeno i sindacati hanno un monitoraggio dettagliato della situazione.Dall'inizio del 2018, cioè dalla campagna elettorale per le politiche, non ci sono più stati incontri complessivi, ma vertici sulle singole aziende. Non conveniva che certi dati venissero alla luce: alla Cisl risulta che tra il 2018 e il 2019 la richiesta di cassa integrazione sia salita dell'82%. Al 1° gennaio di quest'anno i tavoli di crisi al Mise erano 138, ora sono 183. Essi comprendono imprese note come l'Ilva di Taranto, la Mercatone Uno di Imola, la Whirlpool di Napoli. Ma ci sono poi decine di sedi produttive sparse in tutto il Paese e attive in vari settori diversi, dalla siderurgia (Acciaierie di Piombino e Ferriere di Trieste) all'indotto automobilistico nel Torinese, dai call center (Almaviva di Palermo) all'abbigliamento (La Perla di Bologna), e poi componentistica elettronica, servizi alle aziende, grande distribuzione, aerospazio. E non c'è regione d'Italia che non conosca un focolaio di crisi occupazionale. Andrebbero poi aggiunte le 18 aree di crisi industriale complessa, dove i problemi non riguardano la singola azienda ma un intero territorio: tra gli altri Venezia, Terni, Livorno, Gela, Porto Torres.Da un lato i problemi occupazionali si moltiplicano, dall'altro molti imprenditori si mostrano restii a fare nuovi investimenti, ma preferiscono vendere all'estero oppure battere cassa chiedendo aiuti di Stato. Il governo precedente non è stato un interlocutore che abbia favorito la soluzione delle crisi, come dimostra il fatto che ben poche sono state chiuse. I casi Ilva, Whirlpool, Mercatone, ex Alcoa, Bekaert si trascinano da mesi, alcuni da anni. E poi ci sono le situazioni irrisolte ma che il governo ha spacciato per chiuse con soddisfazione, come la Pernigotti comprata da un gruppo turco: oggi dei 250 lavoratori, 100 sono in cassa integrazione mentre per i 150 interinali c'è la disoccupazione senza ammortizzatori. In queste pagine raccontiamo alcune tra le situazioni di cui in Italia oggi si parla meno.<div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="manital-in-10-000-senza-stipendio-da-mesi-gli-uffici-pubblici-non-pagano" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> Manital, in 10.000 senza stipendio da mesi. Gli uffici pubblici non pagano Alcuni lavoratori Manital La storia della torinese Manital racchiude in sé le tristi vicende di molte altre aziende italiane che finiscono in crisi perché non vengono pagate dalla pubblica amministrazione. L'azienda nasce nel 1993 come consorzio di imprese che fornisce servizi integrati, dalle pulizie alla manutenzione alla gestione degli immobili; i destinatari sono in primo luogo gli enti pubblici ma anche realtà private. Successivamente l'attività si allarga anche alla fornitura di consulenze e il numero dei dipendenti era salito fino a superare i 10.000.Ora Manital, che ha sede a Ivrea (Torino), ha filiali anche in Lombardia, Liguria, Toscana, Lazio, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna dove gestisce numerosi appalti: sono 29 le aziende consorziate. Tra i loro clienti si annoverano Fca, Inps, Guardia di finanza, Inail, Agenzia delle entrate. E poi Comuni, tribunali, scuole.Una grossa fetta di attività si svolge in Piemonte, dove lavorano 1.500 addetti che sono senza stipendio da prima dell'estate (quattordicesima compresa), alcuni addirittura da maggio. L'azienda sostiene di vantare crediti con la pubblica amministrazione per 90 milioni di euro, in particolare con il ministero dell'Istruzione. Le prime «difficoltà di riallineamento economico» furono dichiarate da Manital nel 2017. Prima della pausa estiva era stato preso al ministero un impegno per versare una mensilità arretrata ai 10.000 lavoratori, ma gli addetti sono rimasti ancora senza retribuzione. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="jabil-italy-gli-esuberi-in-continua-ascesa-a-roma-si-limitano-a-fare-appelli" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> Jabil Italy, gli esuberi in continua ascesa. A Roma si limitano a fare appelli Nicola Zingaretti alla Jabil (Ansa) Sono campani, lavorano a Marcianise (Caserta), ma quando hanno protestato a Roma davanti alla sede del ministero dello Sviluppo economico non sono riusciti a farsi ricevere dall'allora ministro Luigi Di Maio. I lavoratori della Jabil Italy, filiale tricolore di una multinazionale delle telecomunicazioni e della componentistica elettronica, rischiano il posto dopo che l'azienda si era impegnata con il governo a non ricorrere ai licenziamenti. In realtà a fine giugno è stata annunciata la mobilità per 350 dei 700 dipendenti. Gli statunitensi della Jabil si sono consolidati nel Casertano grazie a una serie di acquisizioni, la più importante delle quali è stato lo stabilimento Ericsson di San Marco Evangelista nel 2015. Su 400 dipendenti dovettero andarsene in 65 dopo una trattativa con il governo Renzi che garantì uscite volontarie incentivate.L'azienda si era impegnata a non intervenire sul personale fino a marzo 2018: scaduto il termine, Jabil Italy ha annunciato il taglio di 250 addetti su 830. Nel 2018 Di Maio era riuscito a contenere la riduzione dell'organico ricollocando i lavoratori in esubero, ma soltanto in 120 sono riusciti a trovare un nuovo posto. Nel frattempo, l'azienda ha dichiarato altri 220 esuberi, per un totale di 350 su 700 dipendenti rimasti: la metà.Le ultime notizie risalgono a luglio, quando il ministero ha rivolto un timido appello all'azienda: «È auspicabile che l'azienda accolga la richiesta di sospendere la procedura di licenziamento collettivo», ha detto il vice capo di gabinetto, Giorgio Sorial. L'auspicio è finito nel nulla. In Campania sono circa 5.000 i posti di lavoro a rischio in aziende per le quali è aperto un tavolo di crisi; il Mise finora non ha sbloccato la situazione. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="acciai-speciali-terni-migliaia-di-operai-appesi-alla-concorrenza-asiatica" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> Acciai speciali Terni, migliaia di operai appesi alla concorrenza asiatica Operai Ast davanti al Mise Non c'è pace per la Acciai speciali Terni (Ast), il sito produttivo che fa capo al gruppo tedesco Thyssen, il gigante europeo della siderurgia. Soltanto tre mesi fa, a giugno, era stato firmato un accordo al ministero dello Sviluppo economico che salvaguardava produzione e posti di lavoro. L'acciaieria doveva sfornare 1 milione di tonnellate di acciaio inox tra il 1° ottobre 2019 e il 30 settembre 2020.Ma agli inizi di settembre, appena finite le ferie, l'azienda ha chiesto 13 settimane di cassa integrazione per 1.200 dipendenti su un totale di 2.350. È stata una comunicazione giunta improvvisa e inaspettata. La ragione addotta è un calo di commesse che, secondo l'amministratore delegato Massimiliano Burelli, dipendono in larga parte dalla congiuntura economica globale, in particolare dalla politica dei dazi imposta dagli Stati Uniti che mette a dura prova la tenuta sul mercato del colosso siderurgico. Ma l'azienda sottolinea anche altri aspetti: «Fino a oggi il calo degli ordinativi è stato il frutto di una concorrenza selvaggia che arriva dai mercati asiatici, dove il costo del prodotto è notevolmente inferiore, a causa del basso costo dei salari dei lavoratori, della totale assenza di costi ambientali e di ogni tipo di tutela a difesa della salute dei dipendenti, nonché degli importanti aiuti pubblici a sostegno della siderurgia».In ogni caso, i sindacati temono che gli obiettivi produttivi non saranno rispettati e che, di conseguenza, si addensi nuovamente lo spettro di ulteriori licenziamenti. Secondo i rappresentanti dei lavoratori, la scelta di anticipare la lavorazione delle commesse già in essere, in modo da saturare gli impianti e poi procedere con la cassa integrazione, è tesa a mascherare un bilancio aziendale non positivo.Nonostante le rassicurazioni del gruppo tedesco, da anni il polo siderurgico umbro non è più considerato strategico dalla Casa madre e sono ripartite le voci di cessione. Già nel 2011 Thyssenkrupp aveva tentato di svendere Ast e aveva trovato un acquirente nella finlandese Outokumpu, ma l'anno successivo l'intervento dell'Antitrust europeo aveva bloccato l'operazione. Quella vertenza si chiuse con 300 uscite volontarie. Thyssen fece un secondo tentativo di liberarsi dell'acciaieria italiana nel 2017, ma la cosa non ebbe esito. La riapertura della crisi va ad aggravare la situazione della siderurgia italiana, che oltre all'ex Ilva di Taranto riguarda anche l'ex Alcoa in Sardegna e la Ferriera di Trieste. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="cmc-il-colosso-coop-sullorlo-del-crac-attende-un-decreto" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> Cmc, il colosso coop sull’orlo del crac attende un decreto Il premier Conte in un cantiere Cmc (Ansa) Era uno dei colossi della cooperazione emiliana, uno dei protagonisti del settore delle costruzioni italiane nel mondo. Fu fondata a Ravenna nel 1901 da 35 manovali con l'interminabile nome di Società anonima cooperativa tra gli operai, muratori e manuali del Comune di Ravenna; quando, nel 1909, si fuse con la società dei cementisti divenne la Cooperativa di cementisti e muratori, Cmc appunto. Nel dopoguerra partecipò largamente alla ricostruzione; nel 1975 vinse il primo appalto all'estero, in Iran, e da allora ha operato in Africa, Medio ed Estremo oriente costruendo strade, centrali energetiche, gallerie, dighe, complessi industriali; oggi produce all'estero il 60% del fatturato ed è presente in 40 Paesi. Uno dei gioielli del sistema legato alla Lega delle cooperative.Tuttavia, la crisi finanziaria è pesante. Lo scorso giugno la Cmc è stata ammessa alla procedura di concordato preventivo, richiesto in dicembre per garantire la continuità aziendale, mentre la coop e i suoi dipendenti all'estero sono diventati bersaglio di ritorsioni da parte di governi stranieri, soprattutto in Africa. Ma la situazione di dissesto interessa anche aziende satelliti del pianeta delle costruzioni romagnolo. Il tribunale di Ravenna ha accettato la domanda di concordato preventivo anche per due società di progetto legate a Cmc, Empedocle 2 e Bolognetta.Le proteste più accese provengono dalla Sicilia, dove l'impresa ha aperto numerosi cantieri stradali che non procedono nei lavori. Sono bloccate soprattutto le opere lungo la statale 640 Agrigento-Caltanissetta e la 121 Palermo-Agrigento, oltre ai cantieri della metropolitana di Catania Nesima-Monte Po' e Stesicoro-Palestro. Pochi giorni fa la giunta regionale ha chiesto urgentemente alla Cmc un piano industriale «che faccia comprendere quali sono i reali margini di rilancio delle due opere, come si intende fare ripartire i lavori, con quali imprese e in quanto tempo i lavori saranno realizzati». Anas ha ricordato che sulle due commesse pende una proposta di risoluzione dei contratti per inadempimento.L'intero sistema delle coop rosse delle costruzioni è stato decimato dalla crisi. Nel 2011 erano 6 le grandi realtà infrastrutturali cooperative: Cmc Ravenna appunto, e poi Ccc di Bologna, Cmb di Carpi (Modena), Unieco (Reggio Emilia), Coopsette (Reggio Emilia) e Cesi (Imola). Oggi le ultime tre sono in liquidazione e l'unica veramente in salute è la Cmb. Al ministero dello Sviluppo è aperto un tavolo di monitoraggio sulla Cmc dopo l'ammissione al concordato preventivo. L'impresa potrebbe beneficiare della legge «sblocca cantieri» tramite un fondo di garanzia. Ma mancano i decreti attuativi, rallentati dalla crisi del governo Conte 1. <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="almaviva-contact-lazienda-fondata-dallamico-di-prodi-verso-la-chiusura-definitiva-a-novembre" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> Almaviva contact, l’azienda fondata dall’amico di Prodi verso la chiusura definitiva a novembre Un corteo di lavoratori Almaviva (Ansa) Almaviva Contact è uno dei maggiori call center italiani. A rischio sono 1.660 lavoratori a Palermo: l'azienda ha già chiuso la sede di Roma nel 2016 lasciando a casa 1.600 persone mentre a Napoli, qualche mese dopo, la serranda non è stata abbassata soltanto in virtù di un accordo molto penalizzante per i dipendenti. Negli ultimi anni si è tirato avanti con la cassa integrazione, ma i titolari vogliono chiudere e non intendono rinnovare gli ammortizzatori sociali in scadenza nel novembre 2019: il tavolo di fine luglio si è concluso con un nulla di fatto.L'azienda è stata fondata nel 1983 da Alberto Tripi, amico di Romano Prodi e Gianni Letta, e conobbe una forte crescita dopo la privatizzazione di Telecom. La proprietà oggi sostiene che la crisi è di sistema ed è necessario sfrondare gli organici in Italia. In realtà Almaviva Contact è un'azienda in salute che vuole delocalizzare in Romania, dove ha già due sedi operative. Il gruppo ha 62 sedi in 8 Paesi con 45.000 dipendenti. In Italia ha vinto appalti in società come Eni, Enel, Poste, Trenitalia, Inps, Equitalia, Corte dei conti, in quasi tutti i ministeri e in 9 Regioni, per un fatturato di 144 milioni di euro, il 17% dei ricavi globali. Si tratta di gare bandite dalla Consip, altra cliente del gruppo.Dopo l'insediamento del Conte 2, i rappresentanti dei lavoratori non sono ancora riusciti a incontrare il nuovo ministro Patuanelli. Hanno dovuto accontentarsi di Giuseppe Provenzano, titolare della delega per il Sud ma privo di portafoglio, il quale non poteva prendere impegni di alcun tipo. Al neo ministro è stata chiesta «una politica industriale per un settore dei servizi che potrebbe avere futuro con nuovi investimenti, un sistema di formazione continua e una costante innovazione tecnologica». Lapidario il commento del ministro, che per i lavoratori Almaviva ha auspicato un «percorso dignitoso». <div class="rebellt-item col2" id="rebelltitem6" data-id="6" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/posti-a-rischio-183-crisi-300-000-persone-in-bilico-e-nessuno-che-se-ne-occupi-davvero-2640375367.html?rebelltitem=6#rebelltitem6" data-basename="la-perla-le-perdite-pesantissime-del-finanziere-tedesco" data-post-id="2640375367" data-published-at="1757889553" data-use-pagination="False"> La Perla, le perdite pesantissime del finanziere tedesco Una sfilata di intimo La Perla La Perla è uno dei marchi più noti della lingerie di lusso made in Italy, che produce anche costumi da bagno, biancheria da notte, accessori, profumi. Fu fondata a Bologna nel 1954 dalla sarta Ada Masotti, venduta nel 2008 al fondo americano Jh partners e quindi acquistata nel 2013 dall'imprenditore Silvio Scaglia, già fondatore di Fastweb. A sua volta nel 2018 Scaglia l'ha ceduta alla società anglo olandese Tennor.Alla fine dello scorso giugno la proprietà ha informato che stava per scattare il licenziamento di 126 lavoratrici su 420 impiegate nello stabilimento di Bologna, mentre negli altri poli industriali all'estero il numero complessivo dei dipendenti sale a 1.200. Un annuncio piombato come un fulmine a ciel sereno durante uno degli incontri periodici con i sindacati per un aggiornamento della situazione aziendale.Al Mise è aperto il tavolo per trasformare gli esuberi, al momento congelati, in cassa integrazione. L'azienda ha annunciato la quotazione in Borsa a Parigi, mercato di primo piano per le società del lusso: un'operazione finalizzata a portare nuova liquidità nelle casse della Perla. Ma i conti fanno acqua: dai documenti depositati per la quotazione, nel 2018 il fatturato (106 milioni di euro) è stato pari ai debiti finanziari mentre le perdite operative sono scese da 179 milioni a 91 milioni. Un ottimo risultato in quanto il passivo è stato dimezzato, ma in termini assoluti una perdita che sfiora il fatturato significa una situazione al limite del crac.Il principale azionista di Tennor è un discusso finanziere tedesco, Lars Windhorst, che è stato al centro qualche mese fa di discusse operazioni. Il Financial Times ha scoperto che la banca d'investimento francese Natixis, proprietaria dei fondi H2O Asset Management, aveva investito in strumenti finanziari non liquidabili detenuti da fondi che facevano capo proprio a Windhorst. Questi fondi sono stati fortemente svalutati. Ma successivamente il giornale della City è andato a scavare nel portafoglio industriale del finanziere tedesco. E ha scoperto le fortissime perdite riguardanti proprio La Perla.I tagli occupazionali annunciati per Bologna, dove risiede gran parte del know how produttivo dell'intimo e della corsetteria, rischiano di compromettere il marchio, la cui linea di progettazione e realizzazione rischia di essere interamente trasferita all'estero, con un grave danno per la manifattura italiana.
Jose Mourinho (Getty Images)