2021-02-14
«Porto le star di Hollywood in trattoria»
Giuseppe Zanotti (Victor Boyko/Getty Images for GQ)
Lo stilista che crea scarpe per Lady Gaga, Rihanna e Beyoncé: «Ospito le dive nella mia Savignano sul Rubicone. Per fare tacchi di 20 centimetri serve un rigoroso studio tecnico ed ergonomico: se una cantante cade sul palco e si fa male, poi è colpa mia...»Se gli si chiede come ha fatto ad avere tra i suoi clienti nomi tanto famosi, Giuseppe Zanotti, origini romagnole, mago delle scarpe più glamour, risponde semplicemente: «Sono loro a essere venuti da me». Come a dire, niente regali per accattivarseli. «La prima star che acquistò una paio di scarpe mie negli anni Novanta fu Madonna a Los Angeles. Le mise in un video che girò sulla spiaggia, con le onde che s'infrangevano sul sandalo gioiello con una zeppa super sexy. E da lì iniziarono le richieste di altre cantanti. Ogni mese andavo a New York, la città dove ho iniziato a lavorare con la mia collezione. Dove ho conosciuto le Destiny's Child, il gruppo d'esordio di Beyoncé, e altre cantanti. Amavo tantissimo le Supremes, tutti gli artisti della Motown degli anni Settanta. Sapevano che mi piaceva la musica e quando ci vedevamo ne parlavamo sempre».Da dove trae ispirazione?«Lady Gaga ha una passione per l'altezza, le piace esagerare, e allora otto anni fa preparammo scarpe da 18/20 centimetri con platform, grazie al quale poteva camminare in sicurezza. C'era uno studio approfondito sia da un punto di vista stilistico sia da quello dell'architettura. Non puoi fare il creativo se non ti avvali di un supporto tecnico ergonomico, perché con quelle scarpe la cantante ci deve camminare, se cade mentre sta ballando e magari si rompe una gamba ce l'hai sulla coscienza e sarai sputtanato a vita. Perciò devi starci attento, mettere dell'acciaio nei tacchi, avere molta cura anche in quello che non si vede. Estetica sì, ma con un grande studio degli elementi. Tutto questo avviene partendo da una richiesta dello stylist che cura l'immagine della diva. Parliamo di anche di Rihanna, Jennifer Lopez e tante altre. Si tiene conto del concerto, della scenografia e delle varie uscite. Mi danno un copione e in base a quello faccio varie proposte. Ascolto pure la musica per entrare ancora più dentro l'atmosfera. È un lavoro di empatia e di rispetto reciproco». Lady Gaga ha indossato le sue scarpe anche all'insediamento di Joe Biden. «Ha deciso all'ultimo momento cosa avrebbe messo. Ha scelto lo stesso modello del Festival del cinema di Venezia. Per lei abbiamo fatto tante scarpe in tono con i suoi abiti. Sono zeppe ergonomiche che ho copiato da una sedia Panton degli anni Sessanta, una scarpa sospesa, senza tacco, ma sulla quale si può camminare tranquillamente». I personaggi internazionali non finiscono mai.«Ho disegnato anche per Michael Jakson e per sua sorella Janet. Abbiamo creato le scarpe per il concerto di Londra che, purtroppo, non c'è mai stato. Erano tante, tutte studiate in base alle uscite, voleva anche lui un po' di tacco. L'Amfar organizzò un'asta dove venne venduto un paio di queste scarpe e il ricavato è andato alla ricerca sull'Aids. Ho realizzato anche una scarpa con brillanti per Chopard, che venne venduta a 400.000 euro per beneficenza. L'acquistò una signora del Marocco». Ha un rapporto personale con queste star?«Molti sono venuti a trovarmi in azienda. Le Kardashian, Kanye West, tanti rapper li ho ospitati a casa mia, a Savignano sul Rubicone, un posto di campagna. E li portavo a mangiare al circolo Arci, all'Acli, dai preti, posti sfigati ma bellissimi dove si mangiava semplice, sui tavoloni, con gli anziani. Andavano fuori di testa. Li portavo nel nostro ambiente di provincia. E poi ci vedevamo a Los Angeles, a Miami. Quando ero a casa non fingevo di essere un semidio. Poi ora i semidei sono tutti crollati». Ma tutto quando è partito?«Fin da ragazzino la mia passione era l'estetica, mi piacevano la storia, i fiori, andare nei musei. Nato in un paesino di 10.000 anime, per l'appunto Savignano sul Rubicone, mi sentivo un po' frustrato. I miei avevano un bar e delle gelaterie al mare. Quello che non volevo era fare quel lavoro. San Mauro Pascoli, vicino a Savignano, è sempre stato un distretto di calzature e di moda. Non è che amassi le calzature ma era la cosa più vicina a un mondo di estetica. Più vicina ancora era la musica e ho lavorato per sette anni a zero lire, in nero, in piccole radio locali. Nel frattempo ho iniziato a studiare il lavoro nelle aziende di scarpe finché nel 1983/84 sono passato alle consulenze. Nel 1994 sono partito con il mio marchio: prima la società si chiamava Vicini e poi Giuseppe Zanotti. Chi pensa che chi fa questo lavoro sia una persona senza cultura si sbaglia di grosso. Se non mi fossi documentato non avrei avuto accesso a tanti riferimenti storici inseriti nelle nostre creazioni. Una collezione è una storia. La produzione è a San Mauro Pascoli, ci lavorano 500 persone. Gli Stati Uniti, a parte questo momento buio, sono da 30 anni il primo mercato. E poi il Medio Oriente, la Cina e l'Asia. Abbiamo 70 negozi».Oggi come vanno le cose?«Non bene. Ci siamo trovati a gestire una complessità molto seria con affitti, persone da pagare e boutique chiuse. È totalmente cambiato il sistema. Dal febbraio scorso i buyers non vengono più e mancano i compratori del turismo internazionale. Il nostro negozio di Wuhan ha chiuso il 6 gennaio 2020 e dei nostri 30 negozi in Cina anche quello di Hong Kong aveva già abbassato le saracinesche per le proteste. Poi è toccato a Macao. Ma ora lì si sta tornando a una certa normalità che in Europa e negli Usa è lontana. Non sarà facile ma noi italiani abbiamo l'ingegno per farcela».Cosa pensa ci lascerà questo periodo così grave?«Ci ha regalato delle risposte. Il calendario della moda era una follia, uno spreco esagerato, dobbiamo pensare al rispetto dell'ecosistema. Un riflessione che ci porterà qualcosa di buono: spero che non dimenticheremo la lezione. Penso che in noi qualcosa sia cambiato e chi fa impresa e prodotti come i nostri deve rispecchiare le esigenze di un pubblico nuovo che è maturato e ha voglia di stare bene e di vestirsi bene in un modo meno istrionico, meno sprecone».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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