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2023-03-30
Il Pnrr ricorda i piani quinquennali sovietici. Oltre a fallire, spingerà l’inflazione
Ursula von der Leyen e Mario Draghi (Ansa)
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è in ritardo. La notizia, rafforzata l’altro ieri dalla consueta relazione della Corte dei conti, ha fatto il giro delle sette chiese. L’opposizione si è stracciata le vesti, la maggioranza ha tenuto a precisare che ora sarà possibile andare a Bruxelles per trovare soluzioni più vicine alla realtà o adeguate alle esigenze del nostro Paese. I competenti eurofili e spesso terzopolisti che approcciano le decisioni della Ue come si maneggia un dogma - inutile dirlo - puntano il dito sul governo e sull’incapacità della destra di mettere a terra i progetti. Idea che fa sorridere visto che questo nucleo di liberali per l’Europa da anni ormai si nutre solo di consulenze spesso pubbliche.
Non è questo il punto. La realtà è che non poteva andare diversamente. Da parte nostra nessuno stupore. E basta andare indietro con i mesi e con gli anni e leggere gli articoli della Verità. I piani quinquennali di stampo sovietico non possono funzionare e il Pnrr rappresenta esattamente la presunzione di Bruxelles di pianificare la società con anni di anticipo e al tempo stesso di creare vincoli fiscali interni in modo da spogliare i singoli governi di quella che si chiama responsabilità politica e strategica. Riprendendo i freddi numeri della relazione dei togati contabili, si vede che a fronte del raggiungimento dei 55 obiettivi previsti nel secondo semestre del 2022, di cui 24 riguardavano la missione «Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo», nasce un allarme sulla capacità di assorbimento delle risorse da parte degli istituti centrali, «con particolare attenzione per i Comuni», si legge sempre nel testo. Cosa è successo in poche parole? Al momento i cantieri sono avviati sulla carta ma nel complesso è stato speso solo il 6% delle cifre stanziate. Con un effetto trascinamento che ereditiamo dal precedente governo. «La traslazione in avanti delle spese originariamente assegnate al triennio 2020-2022 andrà a pesare sulla capacità di erogazione degli istituti pubblici per tutto il 2023», prosegue la relazione. «Con una spesa cumulata di quasi 15 miliardi, il picco di investimenti sarà raggiunto nel biennio 2024-2025 con valori annuali che supereranno i 45 miliardi». In pratica, la situazione non può che farsi critica, salvo non si proceda a un importante cambio di passo e a una complessiva revisione degli obiettivi da raggiungere. Le motivazioni sono molto semplici. La prima si chiama inflazione.
L’allora ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a gennaio del 2021 ebbe a rassicurare gli italiani: «Il Pnrr non è a rischio», disse, aggiungendo a bassa voce: «Se l’inflazione rimane al 2%». Sappiamo come è andata e sappiamo quanto la gestione della Bce da parte di Christine Lagarde sia tossica, e quindi mantenere gli stessi parametri significa ritardare i lavori o, ancora peggio, obbligare le aziende a partecipare a contratti in perdita. Sarebbe veramente un paradosso: il Pnrr servirebbe a rilanciare il Pil e finirebbe con il deprimerlo. Ovviamente il Pnrr di per sé - e questo è l’altro problema che dovrebbe spingerci a trattare nuovi progetti in tempi più lunghi - è un produttore di inflazione. Apporta liquidità e debito e alza la stanghetta del costo del denaro. Se non si lascia almeno una via di fuga si crea l’effetto cappio al collo. Chi si sveglia oggi ignora che i dati dei ritardi sono gli stessi di quelli contenuti della Nadef sottoscritta dal governo Draghi. Dunque, non solo tutto era già previsto, ma in questo Paese si continuano a confondere le cause con gli effetti. Il fatto è che il Recovery è una forma di indebitamento progressivo basato su vincoli interni che difficilmente si possono cambiare in corsa. Lo scrivevamo già a partire dal 2020 ed è esattamente ciò che si sta verificando in queste settimane. E si verificherà a ogni tappa di controllo sullo stato dell’arte del Pnrr.
Altro problema è la qualità dei progetti. Il capitolo della mobilità sostenibile contiene importanti misure per le nostre ferrovie, ma anche 300 milioni per sviluppare il cicloturismo. È una priorità? Il Pnrr stanzia ben 135 milioni con l’obiettivo di ristrutturare 30 Comuni montani e «sostenere lo sviluppo resiliente dei territori rurali e di montagna, favorendo la nascita e la crescita di comunità locali, anche tra loro coordinate e associate, attraverso il supporto all’elaborazione, il finanziamento e la realizzazione di piani di sviluppo sostenibili dal punto di vista energetico, ambientale, economico e sociale». Altro esempio. Circa 300 milioni sono destinati a Cinecittà, il pallino di Dario Franceschini. Ecco, anche su tale capitolo di spesa ci sono margini di revisione. Si tratta di decine di progetti da rivedere. Ciascuno ruba milioni che messi assieme fanno miliardi. E si sovrappone con progetti già avviati dai vari ministeri. Il governo Draghi ha creato per giunta un meccanismo ancor più rigido, ma ha lasciato scoperto il fianco a un elemento non da poco. Quando a metà del 2022 le critiche dei costruttori erano molto feroci ha inserito un decreto per coprire gli extra costi. Poi con il favore della stampa amica nessuno ha più seguito l’iter. Solo 1 miliardo scarso di cui è stato erogato il 10%. Draghi sapeva di essere in difetto sul Pnrr, ma i suoi sostenitori non lo vogliono ammettere. A questo punto non è più un tema di altri miliardi ma di rallentare i tempi. Più soldi e pochi anni significa tenere l’inflazione alta e impiccarsi.
Le quote obbligate di donne e giovani finiscono per bloccare i cantieri
I diktat europei sulle quote rosa si scontrano con la realtà. Spesso infatti gli imprenditori non assumono donne non per pregiudizio, ma per la mancanza strutturale di personale femminile nel loro settore. Un caso emblematico è quello dell’edilizia dove, secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, il tasso di disparità di genere è pari all’80,6%, considerando che la forza lavoro è composta al 90,3% da uomini. Lo stesso vale per le professioni legate alle materie scientifiche: se in media il 24,5 degli universitari italiani si laurea in materie Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), la percentuale scende al 15% se si prendono in considerazione soltanto le donne.
Un divario a cui Bruxelles ha pensato di poter porre rimedio a colpi di diktat, ovvero imponendo alle aziende che partecipano ai bandi per il Pnrr e il Pnc almeno il 30% di quote rosa e giovani. Peccato che, come denunciato da ItaliaOggi, questa decisione si sia trasformata in un boomerang: molte imprese hanno preferito non partecipare ai bandi, che sono andati deserti, vista l’impossibilità oggettiva di soddisfare i vincoli imposti dall’Europa.
Come ha spiegato ItaliaOggi, l’articolo 47 del dl 77/21 prevede «l’obbligo di riservare, in caso di aggiudicazione del contratto, una quota pari almeno al 30% delle assunzioni necessarie per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione delle attività ad esso connesse o strumentali, sia all’occupazione giovanile sia all’occupazione femminile». Così molte imprese, già in difficoltà nel reperire manodopera operaia specializzata, sono state costrette a rinunciare a gare finanziate del tutto o in parte con i fondi del Pnrr e del Pnc proprio perché consapevoli di non poter rispettare la quota di genere in fase esecutiva, viste le pesanti penali («Tra lo 0,6 per mille e l’1 per mille dell’ammontare netto contrattuale» in base alla gravità del fatto) e il rischio di esclusione dalle gare future per un ipotetico grave illecito professionale. Anche il nuovo Codice degli appalti dovrebbe mantenere gli impegni presi dal precedente governo sulla parità di genere.
È stata prevista una deroga, che però spesso non basta per rassicurare gli imprenditori. Il comma 7, infatti, prendendo atto della difficoltà di applicazione in alcuni settori, consente di derogare, con motivazione rafforzata, all’obbligo, in toto o solo in parte, in base ai criteri dettati dalle linee guida. In particolare, per la quota di genere nelle nuove assunzioni, la stazione appaltante può tenere conto, ai fini della deroga, del livello dei tassi di occupazione femminile, che «presentano significative differenziazioni tra settori economici e tipologie di committenza pubblica, per cui il raggiungimento della percentuale del 30% delle nuove assunzioni potrebbe incontrare difficoltà in particolari contesti di attività in ragione delle caratteristiche strutturali delle mansioni da svolgere o del contesto di applicazione per gli appalti relativi al Pnrr o al Pnc. Una rigida applicazione della regola potrebbe determinare nel breve periodo un onere troppo gravoso per i settori in cui i tassi di occupazione femminile sono lontani da quelli prevalenti nel sistema economico a livello nazionale». Ma le stazioni appaltanti non sempre decidono di sfruttare questa possibilità. E i lavori restano al palo.
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I ritardi non sono colpa dell’Italia, ma di un programma rigido e scollegato dalla realtà. E che farà alzare ancora i prezzi.Molti bandi vanno deserti anche perché in edilizia è impossibile applicare certi criteri.Lo speciale contiene due articoli.Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è in ritardo. La notizia, rafforzata l’altro ieri dalla consueta relazione della Corte dei conti, ha fatto il giro delle sette chiese. L’opposizione si è stracciata le vesti, la maggioranza ha tenuto a precisare che ora sarà possibile andare a Bruxelles per trovare soluzioni più vicine alla realtà o adeguate alle esigenze del nostro Paese. I competenti eurofili e spesso terzopolisti che approcciano le decisioni della Ue come si maneggia un dogma - inutile dirlo - puntano il dito sul governo e sull’incapacità della destra di mettere a terra i progetti. Idea che fa sorridere visto che questo nucleo di liberali per l’Europa da anni ormai si nutre solo di consulenze spesso pubbliche.Non è questo il punto. La realtà è che non poteva andare diversamente. Da parte nostra nessuno stupore. E basta andare indietro con i mesi e con gli anni e leggere gli articoli della Verità. I piani quinquennali di stampo sovietico non possono funzionare e il Pnrr rappresenta esattamente la presunzione di Bruxelles di pianificare la società con anni di anticipo e al tempo stesso di creare vincoli fiscali interni in modo da spogliare i singoli governi di quella che si chiama responsabilità politica e strategica. Riprendendo i freddi numeri della relazione dei togati contabili, si vede che a fronte del raggiungimento dei 55 obiettivi previsti nel secondo semestre del 2022, di cui 24 riguardavano la missione «Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo», nasce un allarme sulla capacità di assorbimento delle risorse da parte degli istituti centrali, «con particolare attenzione per i Comuni», si legge sempre nel testo. Cosa è successo in poche parole? Al momento i cantieri sono avviati sulla carta ma nel complesso è stato speso solo il 6% delle cifre stanziate. Con un effetto trascinamento che ereditiamo dal precedente governo. «La traslazione in avanti delle spese originariamente assegnate al triennio 2020-2022 andrà a pesare sulla capacità di erogazione degli istituti pubblici per tutto il 2023», prosegue la relazione. «Con una spesa cumulata di quasi 15 miliardi, il picco di investimenti sarà raggiunto nel biennio 2024-2025 con valori annuali che supereranno i 45 miliardi». In pratica, la situazione non può che farsi critica, salvo non si proceda a un importante cambio di passo e a una complessiva revisione degli obiettivi da raggiungere. Le motivazioni sono molto semplici. La prima si chiama inflazione. L’allora ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a gennaio del 2021 ebbe a rassicurare gli italiani: «Il Pnrr non è a rischio», disse, aggiungendo a bassa voce: «Se l’inflazione rimane al 2%». Sappiamo come è andata e sappiamo quanto la gestione della Bce da parte di Christine Lagarde sia tossica, e quindi mantenere gli stessi parametri significa ritardare i lavori o, ancora peggio, obbligare le aziende a partecipare a contratti in perdita. Sarebbe veramente un paradosso: il Pnrr servirebbe a rilanciare il Pil e finirebbe con il deprimerlo. Ovviamente il Pnrr di per sé - e questo è l’altro problema che dovrebbe spingerci a trattare nuovi progetti in tempi più lunghi - è un produttore di inflazione. Apporta liquidità e debito e alza la stanghetta del costo del denaro. Se non si lascia almeno una via di fuga si crea l’effetto cappio al collo. Chi si sveglia oggi ignora che i dati dei ritardi sono gli stessi di quelli contenuti della Nadef sottoscritta dal governo Draghi. Dunque, non solo tutto era già previsto, ma in questo Paese si continuano a confondere le cause con gli effetti. Il fatto è che il Recovery è una forma di indebitamento progressivo basato su vincoli interni che difficilmente si possono cambiare in corsa. Lo scrivevamo già a partire dal 2020 ed è esattamente ciò che si sta verificando in queste settimane. E si verificherà a ogni tappa di controllo sullo stato dell’arte del Pnrr. Altro problema è la qualità dei progetti. Il capitolo della mobilità sostenibile contiene importanti misure per le nostre ferrovie, ma anche 300 milioni per sviluppare il cicloturismo. È una priorità? Il Pnrr stanzia ben 135 milioni con l’obiettivo di ristrutturare 30 Comuni montani e «sostenere lo sviluppo resiliente dei territori rurali e di montagna, favorendo la nascita e la crescita di comunità locali, anche tra loro coordinate e associate, attraverso il supporto all’elaborazione, il finanziamento e la realizzazione di piani di sviluppo sostenibili dal punto di vista energetico, ambientale, economico e sociale». Altro esempio. Circa 300 milioni sono destinati a Cinecittà, il pallino di Dario Franceschini. Ecco, anche su tale capitolo di spesa ci sono margini di revisione. Si tratta di decine di progetti da rivedere. Ciascuno ruba milioni che messi assieme fanno miliardi. E si sovrappone con progetti già avviati dai vari ministeri. Il governo Draghi ha creato per giunta un meccanismo ancor più rigido, ma ha lasciato scoperto il fianco a un elemento non da poco. Quando a metà del 2022 le critiche dei costruttori erano molto feroci ha inserito un decreto per coprire gli extra costi. Poi con il favore della stampa amica nessuno ha più seguito l’iter. Solo 1 miliardo scarso di cui è stato erogato il 10%. Draghi sapeva di essere in difetto sul Pnrr, ma i suoi sostenitori non lo vogliono ammettere. A questo punto non è più un tema di altri miliardi ma di rallentare i tempi. Più soldi e pochi anni significa tenere l’inflazione alta e impiccarsi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pnrr-ricorda-piani-quinquennali-sovietici-2659686966.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-quote-obbligate-di-donne-e-giovani-finiscono-per-bloccare-i-cantieri" data-post-id="2659686966" data-published-at="1680164232" data-use-pagination="False"> Le quote obbligate di donne e giovani finiscono per bloccare i cantieri I diktat europei sulle quote rosa si scontrano con la realtà. Spesso infatti gli imprenditori non assumono donne non per pregiudizio, ma per la mancanza strutturale di personale femminile nel loro settore. Un caso emblematico è quello dell’edilizia dove, secondo i dati del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, il tasso di disparità di genere è pari all’80,6%, considerando che la forza lavoro è composta al 90,3% da uomini. Lo stesso vale per le professioni legate alle materie scientifiche: se in media il 24,5 degli universitari italiani si laurea in materie Stem (Scienza, tecnologia, ingegneria e matematica), la percentuale scende al 15% se si prendono in considerazione soltanto le donne. Un divario a cui Bruxelles ha pensato di poter porre rimedio a colpi di diktat, ovvero imponendo alle aziende che partecipano ai bandi per il Pnrr e il Pnc almeno il 30% di quote rosa e giovani. Peccato che, come denunciato da ItaliaOggi, questa decisione si sia trasformata in un boomerang: molte imprese hanno preferito non partecipare ai bandi, che sono andati deserti, vista l’impossibilità oggettiva di soddisfare i vincoli imposti dall’Europa. Come ha spiegato ItaliaOggi, l’articolo 47 del dl 77/21 prevede «l’obbligo di riservare, in caso di aggiudicazione del contratto, una quota pari almeno al 30% delle assunzioni necessarie per l’esecuzione del contratto o per la realizzazione delle attività ad esso connesse o strumentali, sia all’occupazione giovanile sia all’occupazione femminile». Così molte imprese, già in difficoltà nel reperire manodopera operaia specializzata, sono state costrette a rinunciare a gare finanziate del tutto o in parte con i fondi del Pnrr e del Pnc proprio perché consapevoli di non poter rispettare la quota di genere in fase esecutiva, viste le pesanti penali («Tra lo 0,6 per mille e l’1 per mille dell’ammontare netto contrattuale» in base alla gravità del fatto) e il rischio di esclusione dalle gare future per un ipotetico grave illecito professionale. Anche il nuovo Codice degli appalti dovrebbe mantenere gli impegni presi dal precedente governo sulla parità di genere. È stata prevista una deroga, che però spesso non basta per rassicurare gli imprenditori. Il comma 7, infatti, prendendo atto della difficoltà di applicazione in alcuni settori, consente di derogare, con motivazione rafforzata, all’obbligo, in toto o solo in parte, in base ai criteri dettati dalle linee guida. In particolare, per la quota di genere nelle nuove assunzioni, la stazione appaltante può tenere conto, ai fini della deroga, del livello dei tassi di occupazione femminile, che «presentano significative differenziazioni tra settori economici e tipologie di committenza pubblica, per cui il raggiungimento della percentuale del 30% delle nuove assunzioni potrebbe incontrare difficoltà in particolari contesti di attività in ragione delle caratteristiche strutturali delle mansioni da svolgere o del contesto di applicazione per gli appalti relativi al Pnrr o al Pnc. Una rigida applicazione della regola potrebbe determinare nel breve periodo un onere troppo gravoso per i settori in cui i tassi di occupazione femminile sono lontani da quelli prevalenti nel sistema economico a livello nazionale». Ma le stazioni appaltanti non sempre decidono di sfruttare questa possibilità. E i lavori restano al palo.
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
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Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
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