2025-10-14
Confindustria insiste: vuole fondi per i suoi soci e non per i dipendenti
Dopo aver criticato il taglio all’Irpef, l’associazione si lamenta: «Da gennaio stop agli incentivi, l’industria è nuda». Per le banche l’ipotesi di un contributo da 3-4 miliardi.Il presidente di Confindustria Emanuele Orsini dice che l’industria italiana è nuda. Spogliata. Indifesa. In mutande. E non per colpa di qualche moda parigina. No: la colpa è del governo, che si ostina a non volerla vestire con 8 miliardi l’anno di incentivi, bonus e carezze fiscali.Quella che dovrebbe essere la spina dorsale del Paese, a sentire lui, è diventata improvvisamente un pupo siciliano che senza lustrini e tiranti non sa più stare in scena. E l’effetto è comico, se non fosse tragico. Il giorno prima del varo della legge di Bilancio, Orsini ha preso la parola in Assolombarda — la corazzata dell’associazione degli industriali — e ha sparato la sua salva: «Nella manovra manca la parola crescita». Un grido d’allarme, certo. Ma anche un messaggio subliminale: «La crescita siamo noi».Perché, va detto, il presidente di Confindustria è molto chiaro nel definire le priorità. Gli aiuti? Sì, ma per «gli investimenti». Le imprese? Da «mettere al centro». I dipendenti? Se ne parla un’altra volta. Possono aspettare rinunciando al taglio fiscale cui sta lavorando il governo. Gli 8 miliardi l’anno che servirebbero, secondo il capo degli industriali, a non lasciare «l’industria italiana nuda», mica servono per il rinnovo dei contratti o per il taglio del cuneo fiscale. No. Vanno a rifare il guardaroba alle imprese: incentivi nuovi, detassazioni vecchie, Superbonus in saldo.A fare da coro ad Orsini, durante l’assemblea di Assolombarda, si è aggiunto il neopresidente Alvise Biffi: «Ci vuole più coraggio nella legge di bilancio». Tradotto: più soldi, meno vincoli. E guai a toccare Industria 4.0, perché «con quella le aziende hanno investito e sono cresciute». Invece Transizione 5.0 non funziona, «vanificata dalla complessità delle procedure». In pratica: noi saremmo pronti a cambiare il Paese, ma se per avere un incentivo dobbiamo pure compilare un modulo, allora lasciamo perdere.Dal ministro Adolfo Urso, è arrivata una disponibilità: «Transizione 5.0 è stata rallentata dai vincoli europei, ma ci stiamo lavorando». Che poi, detta così, sembra quasi che Bruxelles abbia messo le ganasce agli investimenti italiani, quando in realtà l’unica cosa che rallenta è la voglia di cambiare davvero modello. Perché se l’innovazione dev’essere finanziata ma mai verificata, stiamo parlando di mance, non di politica industriale.Marco Gay, presidente degli industriali torinesi, ha alzato la voce: «Rimettiamo l’industria al centro, come attrattore di opportunità». Affermazione nobile, se non fosse che in Italia l’industria è già al centro di tutto: delle agevolazioni, dei condoni, dei fondi Pnrr. Il problema non è il posizionamento: è che le opportunità finiscono sempre nelle stesse tasche.A rincarare la dose Emma Marcegaglia: «Il supporto agli investimenti dovrebbe essere centrale nella manovra». Certo. Investimenti? Sì. Salari? Non pervenuti. Redistribuzione? Tabù. Lavoratori? Una variabile dipendente.Mentre gli industriali battono cassa, il governo si guarda attorno in cerca di nuove entrate per finanziare il taglio delle tasse. E così è tornata l’idea del prelievo sulle banche: un contributo una tantum da 3 a 4 miliardi giocando ancora una volta sul rinvio dei risparmi fiscali. E che, naturalmente, ha già fatto scattare il silenzio tombale degli interessati: le banche aspettano in silenzio, come i gatti prima del balzo.Giorgetti aspetta «Più risorse solo se cambia il contesto». Come dire: se piove oro, mettiamo l’ombrello al contrario. Ma per ora sulla manovra ci sono poche certezze e molte speranze. Tipo l’aumento dei salari. In pubblico, nessuno vuole parlarne troppo. Gli industriali lo escludono a priori.Anche a sinistra, però ci si divide. Landini — che sembra ormai in perenne modalità di propaganda — non chiede interventi sul fisco, come se bastasse evocare l’inflazione per far alzare le buste paga per decreto divino. Dall’altra parte, Legacoop che pur essendo un’organizzazione di sinistra non condivide l’impostazione della Cgil. Gran confusione su quel fronte: «Defiscalizzare gli aumenti contrattuali è una possibilità reale», dice il presidente Simone Gamberini, che pare l’unico ad aver capito che senza un aumento vero degli stipendi il Paese scivola lentamente nella stagnazione sociale prima ancora che economica.Nel frattempo, Confindustria continua a fare pressing. Il messaggio è chiarissimo: vogliamo fondi. Per le imprese, non per i dipendenti. Per gli investimenti, purché non finiscano nei contratti collettivi. Per la crescita, ma senza redistribuzione. È il capitalismo à la carte: scegli quello che vuoi, ma paga qualcun altro.E così il Paese si ritrova a inseguire una legge di bilancio che dovrebbe risolvere tutto, ma in realtà non accontenta nessuno. Gli industriali la giudicano troppo povera. I sindacati la vedono troppo timida. Le banche la temono. I lavoratori, come sempre, non la capiscono. Ma non c’è problema: tanto l’industria è nuda. E in Italia, si sa, il re è sempre vestito. Anche se non lo è.
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