
La pizza si diffuse in Italia dopo che la sovrana dei Savoia assaggiò a Napoli l'impasto tricolore con mozzarella, pomodoro e basilico. Matteo Salvini la prepara in casa, Luigi Di Maio preferisce quella tradizionale, Silvio Berlusconi non la disdegna al taglio.La pizza è di destra o di sinistra? Toccasse a lei fare il governo metterebbe subito tutti d'accordo. La pizza è trasversale ai partiti. Matteo Salvini è orgogliosissimo della pizza che si fa in casa. Ne va talmente fiero da fotografarne un esemplare postandolo su Facebook: «Stasera a casa Salvini PIZZA fatta in casa». Ingredienti giusti - pomodoro, mozzarella, origano - ma forma «abominevole». Così è stata bollata da un facebookista disgustato: bordi irregolari da sembrare fatti con il seghetto del piccolo falegname, frastagliati come la costa norvegese, bassi come quella olandese. Al povero Matteo ne hanno dette di tutti i colori, perfino di aver voluto offendere la regina della cucina partenopea trasformando la napoletana in «napolegana».Luigi Di Maio, avellinese di nascita ma con studi (interrotti) napoletani, ama la pizza tonda e con i bordi alti, come tradizione comanda. Durante una campagna elettorale ne ha servite a decine in diverse pizzerie d'Italia con i sodali Roberto Fico e Alessandro Di Battista. E quando McDonald's osò fare una pubblicità con un bambino che - in una pizzeria! - chiedeva un happy meal, il pentastellato gridò al sacrilegio e chiese di oscurare lo spot vergognoso e diseducativo. Anche a Silvio Berlusconi la pizza con le rotondità al posto giusto solletica i sensi. Francesca Pascale, la sua giovane compagna, la sa fare bene come ha dimostrato tempo fa ad Alvignano, nella pizzeria di Pasqualino Rossi. Sulla bontà della pizza, e sul risultato delle elezioni, Silvio è arrivato pure a scommettere in tv con il conduttore Luca Telese. Il Cavaliere non disdegna neppure quella al taglio. L'unica pizza di cui non va fiero è quella che porta il suo nome in Finlandia: «Berlusconi». Realizzata con cipolla rossa, funghi e fette di renna affumicata, è la risposta finnica all'opinione poco benevola che l'ex presidente del Consiglio aveva espresso nei confronti della cucina finlandese.A Matteo Renzi piace la pizza con la mozzarella di bufala ma, come ha rivelato Maurizio Mandola, pizzaiolo di Pontassieve e suo amico, va matto anche per la margherita, la prosciutto e wurstel e, da buon narcisista, per la «pizza Renzi» che Mandola ha creato per lui: «È una pizza bianca con lo stracchino, la rucola e il salmone affumicato». Maria Elena Boschi, ex ministra renziana, ha ringraziato su Instagram i compagni della festa dell'Unità di Pesaro per averle fatto scoprire la «pizza alla Rossini», una margherita con uova sode e tanta maionese.Luca Zaia, governatore leghista del Veneto, al Vinitaly ha impastato e infornato margherite con Stefano Miozzo, pizzaiolo veronese campione del mondo di pizza classica. Distribuendo fette al pubblico festante e goloso che si era assiepato davanti allo stand della Regione Veneto, Zaia ha rivelato: «Da giovane ho fatto anche il pizzaiolo. Sono proprio contento che un veneto sia campione del mondo di pizza. Il che dimostra che siamo superiori anche in quest'arte».Umberto Bossi in pizzeria faceva e disfaceva alleanze. Antonio Bassolino, da bravo tradizionalista, la piega in due e la mangia «a libretto». Perfino papa Francesco ha benedetto la pizza olio e San Marzano di Gino Sorbillo durante la sua visita a Napoli. Cambiano partiti e ideologie, ma il risultato è sempre lo stesso: la pizza piace a tutti. Destra, centro, sinistra. Proletari, borghesi, aristocratici. Operai, quadri e amministratori delegati. Repubblicani e monarchici.Una pizza porta il nome di una regina: Margherita. Accadde nel 1889: durante una visita della sovrana a Napoli, il pizzaiolo Raffaele Esposito, che aveva un localuccio nei Quartieri Spagnoli, le preparò tre pizze: una all'olio, una ai bianchetti (novellame di pesce), la terza con pomodoro, mozzarella e basilico. Quando Margherita tornò a Roma, da Casa Savoia partì una lettera di ringraziamento indirizzata a Esposito. Nella missiva si precisava che a sua maestà erano piaciute tutte e tre le pizze, ma che la preferita era la terza, quella con il rosso del pomodoro, il bianco della mozzarella e il verde del basilico. Una pizza-bandiera. Il furbo Esposito colse la palla al balzo e battezzò la pizza in onore della regina.Fatta l'Italia, come aveva commentato Massimo d'Azeglio dopo la proclamazione del Regno d'Italia nel 1861, bisognava fare gli italiani. La pizza contribuì parecchio al processo di unificazione anche se il marchese scrittore, cui faceva paura la fusione con i napoletani («È come mettersi a letto con un vaiuoloso», scrisse in una lettera), non fece in tempo a vederne i benefici effetti. La pizza napoletana conquistò il Nord proprio come Garibaldi aveva conquistato il Sud. Ma non altrettanto velocemente. La sua marcia non fu affatto trionfale. Nemmeno la regale degustazione di Margherita di Savoia l'accelerò. La resistenza nordista la bloccò sulla linea gotica del Volturno. I piemontesi conquistatori e tutti gli altri italiani storsero il naso per decenni davanti a quella schiacciata tonda, con i bordi carbonizzati e con la pasta imbrattata di sugo di pomodoro. Carlo Collodi, il papà di Pinocchio, avvezzo alla panzanella e alla zuppa di cavolo nero, non fu affatto tenero con la pizza. Usò la penna come una mannaia definendola «sudiciume». Forse fu colpa anche dell'epidemia di colera scoppiata nella città partenopea pochi anni prima della visita della regina Margherita. Ci vollero parecchi anni prima che l'impasto, maneggiato con troppa disinvoltura da pizzaioli di dubbia igiene, si rifacesse una reputazione.Matilde Serao, giornalista e scrittrice napoletana (1856-1927), respinse gli attacchi velenosi dei colleghi del Centronord difendendo il carattere partenopeo della pizza. E quando un industriale napoletano di lunghe vedute aprì la prima pizzeria fuori Napoli, a Roma, scrisse: «La pizza tolta al suo ambiente è una stonatura, una indigestione». Infatti quel locale fallì: «Il suo astro», fu il necrologio della Serao, «impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana».Ma la Serao era una vera cronista. Non si bendava gli occhi davanti alla miseria delle «strade luride» dei quartieri più degradati di Napoli. Nel libro Il ventre di Napoli, pur in polemica con il governo Depretis che aveva dato ordine di «sventrare» la sua città, raccontò il contributo offerto dalla pizza per la sopravvivenza dei poveri lazzaroni: «Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze, tagliate in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone che le va a vendere in qualche angolo di strada e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che s'ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche».Fatta l'Italia, la pizza contribuirà a fare gli italiani, ma quello non era ancora il momento. La parola «pizzeria» compare per la prima volta in un vocabolario italiano nel 1918. Dopo l'augusto morso della regina Margherita, fu il secondo importante passo verso la conquista d'Italia. Passarono ancora trent'anni prima che diventasse piatto nazionale e una cinquantina perché tutta l'Italia se ne innamorasse perdutamente. Il resto è storia dei nostri giorni. La pizza napoletana, elevata dall'Unesco patrimonio culturale immateriale dell'umanità, è partenopea per storia e anima, ma sempre più made in Italy.Coniugata in vari modi, impastata con farine diverse, con una ricerca estrema sulle lievitazioni, farcita di ingredienti vari, tutti di elevata qualità, è diventata al Nord un prodotto d'alta cucina. Una pizza gourmet. Tanto che, quando nel 2013 la Guida alle pizzerie d'Italia del Gambero Rosso assegnò il massimo dei voti (tre spicchi) ai Tigli di San Bonifacio, in provincia di Verona, incoronando, di fatto, Simone Padoan miglior pizzaiolo d'Italia, mancò poco che a Napoli scoppiasse un'insurrezione. Ma i napoletani, secondo Vittorio Sgarbi, si devono rassegnare: «La globalizzazione investe anche i prodotti di nicchia. La pizza è universale. Non è una stravaganza che il Nord possa aver conquistato il primato nel fare la pizza. Tutto è possibile. I pizzaioli napoletani non possono più dire: la pizza è nata qui e noi, quindi, siamo i migliori. La storicità non garantisce la specialità».
Mattia Furlani (Ansa)
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