Gabriele Bonci è l’indiscusso maestro della pizza al taglio romana contemporanea. Prima di lui, solo i romani conoscevano la pizza al taglio romana. Dopo di lui, la conoscono tutti e tutti adorano la sua pizza, il livello più alto di romana gourmet. Abbiamo parlato con lui del suo ultimo libro, Madre pizza. Le ricette di stagione del re degli impasti per conservare la natura e ritrovare il gusto, De Agostini.
Il titolo del libro è Madre pizza. La parola madre, hai detto durante la presentazione milanese del libro, contiene anche le parole merda e dream. Ci spieghi?
«La creazione del cibo è un cerchio. Dare il titolo “madre” alla pizza vuol dire attribuirle il significato del cerchio del progresso. La pizza è il cibo più mangiato al mondo, è un vassoio, sopra ci puoi mettere 2500 ingredienti. La parte delle forme non mi interessa, ci sono colleghi che fanno libri con 250 forme di pizza diverse, ma non celebrano tutti i giorni quelle forme, che così diventano business e marketing. Non si celebra né la pizza, né il pensiero. Madre pizza nasce da una persona che ha capito che la pizza è fatta di un solo impasto e 2500 ingredienti che sono etica, agricoltura e progresso. La pizza è il cibo più mangiato al mondo, il secondo è l’hummus: è la rotazione sui campi, grano e poi leguminacee. Questo giro è il pensiero che vorrei che tutti conoscessero. Infatti in Madre pizza non parlo soltanto di ricette e tecniche alla “Facciamo i fighi”, ma di stagioni e conservazione».
Madre come la natura e come la terra. La pizza è come la natura e la terra?
«Certo, è generatrice. Genera stile, pensiero, voglia».
L’aspetto merdoso è concentrarsi troppo sulla materia e poco sul pensiero intorno alla pizza?
«La pizza ha due posizioni dal punto di vista mediatico, una è lavoro, bottega, l’altro è il mondo pizza con movimenti che si appropriano di un pensiero e rendono stupido quello che è il vero fulcro della pizza, che è il consumare. Quando scegliamo la pizza non la scegliamo per impasto, ma per ingrediente: “Mi fai una capricciosa? Mi fai una margherita?”. Il rapporto del pizzaiolo con le aziende produttrici di tutto quello che è sopra la pizza si sta distruggendo. Quando facevo La prova del cuoco su Rai1 ho portato almeno 50 produttori: pomodori, salame, olio, formaggio. La responsabilità di chi promuove il mondo è questa, esercitare la parola progresso».
Tu ami le produzioni artigianali, progresso allora per te vuol dire tornare alle origini?
«Progresso vuol dire salvare il pensiero giusto e il rapporto che l’economia ha con lo sviluppo: consumare, anche conoscenza. Io ho fatto per anni il panificatore e lo faccio ancora. Oggi il mestiere non è più così, si fa show, varietà. Gli altri panificatori scelgono di essere merce e come tutte le merci scadono».
E come si torna a fare pizza che sia materia che deriva dal pensiero e non dal business?
«Ci vuole consapevolezza politica, non partitica ma politica, per questo obiettivo. L’obiettivo non deve essere il successo o il denaro. In un’intervista per una grande testata americana mi chiesero perché non ci sono allievi di altri pizzaioli famosi come Franco Pepe, mio grande amico, di Martucci, altro mio grande amico, di Padoan “e tu hai fatto 45 imprenditori?”. E io ho detto: “Gli ho insegnato a non avere padroni”. Mi hanno detto “No, perché sono tutti tuoi discepoli”. Ma il discepolo non è nient'altro che un messia castrato. E gli ho detto: “No, perché gli ho detto che non erano miei discepoli”. Siamo tutti messia, tra virgolette, davanti ai clienti, tutti liberi di pronunciare la parola del nostro pensiero. Da me sono stati operai che hanno praticato in maniera materica il mio pensiero. Io penso e tu fai materia».
D’altronde, non tutti sono capaci di pensare allo stesso modo, bisogna pur dirlo...
«Certamente, ma chi valuta la materia valuta la differenza. L’arte è finita da quando gli hanno dato un prezzo».
Dietro la tua pizza non c’è solo arte bianca, c’è proprio arte.
«E c’è etica. Ci sono ragazzi che timbrano il cartellino e anche cinque minuti più vengono messi in banca ore. Con tanti sbagli, da parte dell’azienda, ma c’è la voglia di sistemare le persone, di dare un prezzo esatto».
Anche in Chef's table, dove non a caso gli unici due pizzaioli siete tu, per la teglia, e Franco Pepe per la tonda, tu parli di responsabilità di comunicare attraverso la pizza.
«La comunicazione è una delle responsabilità più grandi che ha chi riesce a mettersi in vista, se no facciamo tutti la fine di King Kong, bel bestione talmente vip, talmente potente che alla fine non gli andava di farlo, io mi sento un po’ come lui, anche perché sono stato tradito tantissime volte. Essere trasparenti è importante, non si devono dire bugie».
Sempre in Chef's table hai detto «La tv è meravigliosa, si accendono i riflettori e la tua vita cambia», poi però hai spiegato come sia difficile portare avanti quel personaggio.
«L’ho ucciso».
Dici: «Devi scegliere. O sei un attore o sei un panettiere». Invece il sogno di tanti è diventare ricchi e famosi ed esserlo per sempre.
«Le persone esistono, i personaggi si creano. I personaggi fanno schifo. La vendetta più grande è toglierli di mezzo. Una vendetta con amore. Io amo la televisione, è la possibilità di comunicare con tutti, ma ho allontanato sponsor, diversamente dagli altri, non li voglio».
Tanti hanno scoperto che potevano impastare una pizza a casa grazie a te alla Prova del cuoco, col cucchiaio e la boule...
«Adesso in tv stanno tutti col cucchiaio...».
Ma tu sei stato il primo!
«Io sono stato il primo, poi se ne appropriano tutti, non so se è giusta una cosa del genere. Io sono diventato un personaggio, lo sono ancora e sono contento di esserlo, ma il personaggio corrisponde alla mia persona. Sono così ai corsi, in pizzeria, in tv. Se noi diamo spazio a chi pensa veramente, succedono queste cose (Gabriele mi mostra un vassoio marroncino e lo spezza in due parti, ndr). Questo è un vassoio di crusca, fatto con la crusca che rimane dal grano che io compro per fare la mia farina e poi diventerà biogas».
Spiegaci meglio
«È 100% crusca, io faccio molare il grano, della molitura prendo la crusca e ci faccio un vassoio fatto di crusca sul quale metto la mia pizza, il cliente mangia e lo butta in un contenitore che verrà ritirato direttamente da noi e diventerà biogas per le aziende agricole che già ci danno il grano. Il cerchio è chiuso. Questo è esattamente il sogno, dream, che nasce dalla merda e dalla madre di Madre pizza. Questo è un esempio del fatto che sia il pensiero a fare la materia e non la materia a fare il pensiero».
Tu usi tanto la parola etica anche nel libro e dici che si può diventare etici consumando. Anche gli altri tuoi libri erano coraggiosi, ma questo lo è ancora di più.
«Il coraggio è l’antagonista della paura».
Infatti tu sei stato definito il Michelangelo della pizza, ma secondo me sei anche il gladiatore della pizza.
«Può essere».
Altra cosa molto coraggiosa è stato «supplizzare» i primi e i secondi romani, così il turista al Pizzarium in un’unica pietanza scopre sia la forma del supplì, sia la cucina romana...
«La mia pizza al Pizzarium è piena, carica, diversa, tarata sul palato internazionale. Ma al Panificio no, è scarica, romana-romana-romana. Al Pizzarium l’ho messa sul mondo, sono bocconi di Roma, d’Italia e anche dei miei ragazzi. Io amo l’internazionale, amo l’indiana, l’africana è supersonica, la njeera è uno dei pani più buoni del mondo, perciò cerco sempre di stimolare legami, ma senza esagerare. Sono d’accordo che la tradizione non vada toccata, ma la pizzeria in teglia romana è giovane, nasce nel 1960. Se noi mettiamo la storia della mia pizza nella storia della pizza napoletana, sono un microbo. Tanto che posso dire che i supplì sono stati inventati dai romani, ma c’era l’arancino. Il supplì sta all’arancino come il supplì di pasta sta alla frittatella napoletana. Questo è reinventare la tradizione, imitare, ma non copiare».
Però tu non hai fatto soltanto per dire la carbonara in forma di supplì, tu hai supplizzato perfino le stelline in brodo: questo è il coraggio.
«Il Fritto di stelline in brodo ha una storia bellissima. Se sotto Natale e Befana trovi quello col tortellino, vinci una cena da Pascucci Al porticciolo. Ogni 150 c’è quello col tortellino».
Quali sono i grandi chef che ci hanno portato oltre «italiani spaghetti e mandolino»?
«La cucina italiana è fatta di frazioni. Ed evoluzione. Uliassi è l’evoluzione dello stabilimento. Poi c’è l’evoluzione internazionale, i ragazzi giovani, ce ne sono pochi, ne cito solo due, Damiano Donati e Tommaso Tonioni, che escono un po’ fuori dal concetto stellato, con pensieri sostanziosi. L’evoluzione della grande ristorazione, che io amo, deve mantenere l’italianità. E si mantiene con l’agricoltura, oggetto di curiosità per non mettere mai sul piatto un pollo senza sapere la razza o senza ascoltare chi lo produce. Lo stellato che va salvato è Enrico Crippa, Niko Romito, sono stellati in evoluzione e un nostro patrimonio. E non dimentichiamoci Fulvio Pierangelini, il papà di tutti i pensieri. La sua passatina di ceci e gamberi banalmente si può chiamare frullato di ceci, ma non era un frullato di ceci, era una scuola di pensiero. Ha fatto la storia. E non dimentichiamo Gualtiero Marchesi. L’ultima cosa che ha fatto era un progetto per chef in pensione. Noi siamo coglioni. A Paul Bocuse fanno giustamente le statue, mentre Marchesi è stato trattato in quella maniera: andiamo a leggere le ultime recensioni, gli tolsero punti e dissero che era vecchio. Stiamo scherzando?».
La tua pizza tonda romana preferita?
«Capricciosa».
E al taglio?
«Rossa».