2022-07-10
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: come mangiare la pizza
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Prosegue il processo diplomatico ucraino. Kiev ha infatti inoltrato agli Stati Uniti le proprie correzioni al piano di pace. «Non si tratta di una nuova versione, si tratta degli stessi 20 punti, solo che alcuni sono stati leggermente ripensati», ha riferito ieri un funzionario ucraino ad Abc News, sottolineando che la bozza contiene «alcune nuove idee» sul destino dei territori e della centrale nucleare di Zaporizhia.
«Al momento, ci sono tre documenti: i 20 punti fondamentali, le garanzie di sicurezza e il documento sull’economia e la ricostruzione», ha proseguito il funzionario. Sempre ieri, Volodymyr Zelensky ha avuto un colloquio, da lui stesso definito «costruttivo e approfondito», sulle garanzie di sicurezza con alcuni alti funzionari americani: il segretario di Stato, Marco Rubio, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, e l’inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff.
Nel frattempo, le relazioni transatlantiche si stanno facendo sempre più tese. Mercoledì sera, Donald Trump ha commentato aspramente la telefonata che, alcune ore prima, aveva avuto con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron.
«Abbiamo parlato con i leader di Francia, Germania e Regno Unito, tutti ottimi leader, miei cari amici. E abbiamo discusso dell’Ucraina con parole piuttosto forti. E vedremo cosa succede. Voglio dire, stiamo aspettando di sentire le risposte», ha dichiarato il presidente americano, che ha anche rivelato di essere stato invitato a un incontro in Europa, dedicato alla questione delle garanzie di sicurezza. «Prima di andare a un incontro, vogliamo sapere alcune cose», ha affermato, per poi aggiungere: «Vorrebbero che andassimo a un incontro nel fine settimana in Europa, e prenderemo una decisione, a seconda di cosa ci diranno. Non vogliamo perdere tempo». In tal senso, la Casa Bianca ha fatto sapere che Trump non ha ancora deciso se mandare o meno un rappresentante al vertice di Parigi in programma sabato.
È in questo quadro che, ieri, Merz ha chiesto agli Stati Uniti di partecipare a un meeting che dovrebbe tenersi all’inizio della prossima settimana a Berlino. Il cancelliere tedesco ha inoltre sottolineato che il principale nodo sul tavolo risiede in «quali concessioni territoriali l’Ucraina è disposta a fare». Lunedì scorso, Zelensky aveva escluso delle cessioni di territorio, ribadendo una linea in netto contrasto con quella della Casa Bianca che, ormai da tempo, sta cercando di convincere il presidente ucraino a rinunciare al Donbass. A tal proposito, ieri Zelensky ha confermato che le questioni territoriali (soprattutto quelle del Donetsk e di Zaporizhia) sono ancora «in discussione» e che, secondo lui, dovrebbero essere decise tramite «elezioni o referendum. Deve esserci una posizione del popolo ucraino». Ha inoltre aggiunto che gli Usa vorrebbero creare una «zona economica libera» nell’area di Donbass che Kiev, stando ai desiderata della Casa Bianca, dovrebbe eventualmente abbandonare. Infine, secondo il leader ucraino, Washington ritiene che un cessate il fuoco totale sia possibile solo a seguito della firma di un accordo quadro. Ricordiamo che, negli scorsi giorni, Trump si era detto «deluso» da Zelensky, accusando inoltre i leader europei di debolezza. A complicare ulteriormente le relazioni transatlantiche ci si è poi messo Macron che, la scorsa settimana, si è recato in Cina, tentando maldestramente di avviare un processo di pace alternativo a quello condotto da Washington.
Mosca, dal canto suo, ha invece espresso sintonia con la Casa Bianca. «Di recente, quando il rappresentante speciale del presidente Trump, Stephen Witkoff, è stato qui, dopo il suo incontro con Vladimir Putin, entrambe le parti, russa e americana, hanno confermato le intese reciproche raggiunte in Alaska», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «L’essenza di queste intese è che l’Ucraina deve tornare ai fondamenti non allineati, neutrali e non nucleari del suo Stato», ha aggiunto. «Dobbiamo dare il giusto riconoscimento al leader americano: dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, ha affrontato seriamente la questione. A nostro avviso, si sta impegnando sinceramente per contribuire a risolvere il conflitto attraverso mezzi politici e diplomatici», ha proseguito. Non solo. Sempre ieri, Mosca ha mostrato apprezzamento verso l’eventualità, rivelata dal Wall Street Journal, che, nel quadro di un potenziale accordo di pace, Washington possa effettuare investimenti in energia russa. «Siamo interessati a un afflusso di investimenti esteri», ha dichiarato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Ciò detto, ieri la Casa Bianca ha detto che il presidente americano è «estremamente frustrato» tanto da Kiev quanto da Mosca.
Trump punta a chiudere la crisi ucraina per sganciare Mosca da Pechino, facendo leva su economia e commercio. Vladimir Putin, dal canto suo, ha bisogno della Casa Bianca per cercare di riacquisire influenza in Medio Oriente: lo zar vuole infatti recuperare terreno in Siria e ritagliarsi il ruolo di mediatore tra Washington e Teheran sul nucleare. Ebbene, davanti ai significativi interessi che stanno alla base del riavvicinamento tra Usa e Russia, gli europei fanno fatica a ritagliarsi un ruolo diplomatico, oltreché geopolitico, di peso.
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Rombano i trattori e marciano di nuovo su Bruxelles dove l’Italia già ieri si è fatta sentire ieri con il ministro per le risorse agricole e la sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. Il ministro nel corso di Agrifish – è la riunione dei responsabili politici del settore agricoltura dei 27 – insieme con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e l’amministratore delegato di Filiera Italia Luigi Scordamaglia ha presentato alla Commissione la candidatura ufficiale dell’Italia per ospitare l’autorità doganale e di controllo dell’Ue, che dovrà essere basata a Roma.
La ragione? Molto semplice. L’ha spiegata Vincenzo Gesmundo, segretario generale della Coldiretti che dall’assemblea d’autunno della prima organizzazione agricola italiana (oltre 1,6 milioni di imprese associate) ha lanciato due messaggi; basta con le politiche di Bruxelles che penalizzano l’agricoltura, basta con le frontiere colabrodo. «Occorre arrivare a un sistema di controllo che copra il 100% dei prodotti, concentrandosi in particolare sulle filiere che risultano già compromesse all’origine. Non è accettabile che l’agricoltura con il maggior tasso di distintività e potenziale venga continuamente esposta ad attacchi che ne mettono a rischio il valore» ha messo in rilievo Gesmundo, ricordando che solo il 3% delle merci che passano la dogana a Rotterdam, principale porto di sbarco delle importazioni agroalimentari d’Europa, subisce controlli.
Gesmundo ha lanciato anche un altro ammonimento che poggia su un sondaggio che mette sul banco degli accusati Ursula von der Leyen e l’Ue: «Serve», ha scandito, «un disordine virtuoso per trarne un nuovo ordine a partire dalla mobilitazione del 18 dicembre a Bruxelles, che vedrà la partecipazione di migliaia di agricoltori Coldiretti insieme a quelli da tutta Europa. Sarà solo l’inizio, saremo rumorosi». Ettore Prandini, che di Coldiretti è il presidente, ha aggiunto. «Non si possono imporre regole stringenti ai nostri produttori e poi spalancare le frontiere a chi produce senza rispettarle. È inaccettabile, se si confronta la mole di verifiche cui sono sottoposte le nostre aziende con la leggerezza riservata alle merci provenienti dall’estero. La mancanza di reciprocità delle regole finisce per mettere in ginocchio il made in Italy a tavola, con effetti rischiosi anche per la salute dei cittadini». Nel mirino ci sono le politiche con cui la leadership europea affronta oggi temi come innovazione, sicurezza alimentare, agricoltura e democrazia e una forte opposizione alle idee di Mario Draghi e associati che vogliono togliere il voto all’unanimità in Europa facendo venire meno il «principio di precauzione indispensabile».
A provarlo ci sono le cifre. La Coldiretti ha chiesto al Censis un sondaggio sul rapporto degli italiani con l’Ue. Per il 70% degli intervistati «le politiche della Commissione Von der Leyen sono lontane dagli interessi dei cittadini e delle imprese». Due su tre ritengono che «le élite decisionali sono poco trasparenti e lontane dal confronto democratico» e con la stessa percentuale sono convinti che «la tecnocrazia prevalga sul Parlamento europeo». Ancora più ampia la bocciatura dei tagli alla Pac visto che il 76% degli intervistati si dichiara «contrario ai tagli ai fondi agricoli e di welfare per destinarli al rafforzamento militare».
Un via libera alla manifestazione del 18 dicembre che coinciderà - lo ha annunciato il ministro per gli affari europei Tommaso Foti - «con la discussione del Mercosur nel Consiglio europeo. Su questo», ha spiegato il ministro, «manteniamo la nostra riserva rispetto alla reciprocità delle norme, come abbiamo già ribadito il no ai tagli della Pac; è una posizione che ripeterò al Consiglio Affari Generali a Bruxelles, dove sarà ancora in esame la bozza del quadro finanziario pluriennale».
Ce n’è abbastanza per riaccendere i trattori. Lo ha fatto capire Francesco Lollobrigida che, incassato il successo della dichiarazione Unesco della cucina italiana quale patrimonio immateriale dell’umanità, ora insiste per una maggiore tutela dei prodotti del made in Italy. Lollobrigida ha specificato che i dazi Usa non fanno bene, ma non hanno creato - almeno nell’agroalimentare - i disastri che si paventavano. E poi ha aggiunto che oggi semmai la sfida è far cambiare idea a una Commissione che sull’agricoltura e sulla necessità di assicurare la sovranità alimentare all’Europa non fa scelte corrette. «Non si può farsi invadere, in nome della solidarietà, da riso proveniente da Cambogia e Birmania, applicando dazi zero per aiutare la loro agricoltura. E del pari», sostiene sempre Lollobrigida, «devono esser contrastati i cattivi maestri che cominciano a dire che la Cina è un esempio di efficienza; bisogna rispondere: vai tu a vivere in un luogo dove le persone non godono delle libertà e della democrazia di cui godiamo noi». Da qui la richiesta sì di ricontrattare i dazi con gli Usa, ma di non sbagliare obbiettivo. Perciò il ministro dice degli agricoltori: «Fanno bene a manifestare, manifestano per l’Europa, non contro l’Europa».
Includere escludendo, il club degli intelligenti per decreto è sempre un giro avanti anche sul Natale. Dopo avere trasformato i pastori in migranti, i re Magi in attivisti pro Pal, la Madonna in una peripatetica, San Giuseppe in una drag queen e la stella cometa in un razzo su Gaza, non restava che cancellare Gesù Bambino. In attesa di farlo dal presepe, a Reggio Emilia lo hanno espulso dal canto più amato dai bimbi, Jingle Bells. Una deportazione canora in piena regola, messa a punto dai parolieri della scuola primaria San Giovanni Bosco (istituto comprensivo Ligabue) che hanno deciso l’epurazione religiosa dalla versione italiana per il consueto motivo peloso: non urtare la suscettibilità dei musulmani. I quali, peraltro, da anni vedono in questa gratuita sottomissione culturale uno dei segnali più evidenti della degenerazione dei valori occidentali.
Il laicismo intrinseco della canzone americana - nata nel New England per celebrare la festa del ringraziamento fra cavalli, slitte e campanelli - non bastava a soddisfare il fanatismo anticlericale progressista. Nel testo italiano c’è quel nome, Gesù, che in vista della recita di Natale infastidiva a pelle gli ayatollah del woke. Nessun problema, i Mogol da scuola elementare hanno cambiato due strofe. Invece di «Aspettando quei doni che regala il buon Gesù» ecco «Aspettano la pace e la chiedono di più». E ancora «Oggi è nato il buon Gesù» diventa «Oggi è festa ancor di più». Il Dio cristiano è sparito dai radar e le nuove rime somigliano a un’omelia del cardinal Matteo Zuppi.
Tutti contenti in collegio docenti, soprattutto la preside Francesca Spadoni che ai genitori perplessi si è limitata a dire: «Jingle Bells, canto laico e folcloristico, esiste in molteplici versioni. Il team docente, nell’esercizio della propria libertà d’insegnamento, ha semplicemente scelto una versione in linea con i suoi obiettivi pedagogici e didattici». Se valesse il principio, sarebbe interessante leggere la sua versione onirica della Divina Commedia o del 5 Maggio del Manzoni. Del resto, se Dio è morto (Friedrich Nietzsche) non si capisce perché debba resistere quel neonato nella mangiatoia. Poiché siamo a Reggio Emilia, farebbero prima a metterci la benemerita Francesca Albanese con il pugno chiuso, e come nenia utilizzare gli sfottò della medesima al sindaco Marco Massari.
Il Pd locale gongola. Non gli restava che cancellare Gesù Bambino dai canti di Natale, terremotare i simboli della cristianità. Il consigliere comunale dem Federico Macchi ha parlato per tutti con prosopopea da Luciano Canfora: «La scuola, che peraltro è laica, deve educare e nel testo proposto ai bambini (in particolare dove al posto dell’attesa dei doni si è sostituita l’attesa di pace) colgo proprio un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace, temi che sempre dovrebbero caratterizzare la missione educativa dei nostri istituti». Già, perché Jingle Bells (titolo italiano Din don dan) è una pericolosa canzone bellicista.
L’annullamento culturale in nome di un’inclusione superficiale e sgangherata non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio di uno Stato, ma fa parte dello sciocchezzaio progressista al quale si accodano timidi cattodem avvolti nei sensi di colpa. In questo caso il partito di maggioranza si sentiva in dovere di assecondare le richieste dell’assessora alle Politiche educative con delega alla Scuola dell’obbligo, Marwa Mahmoud (musulmana di origine egiziana), che un mese fa aveva catechizzato gli insegnanti invitandoli a «decolonizzare lo sguardo» e a promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Detto fatto. Sbianchettare Gesù Bambino da Jingle Bells in italiano è il nobile risultato, ottenuto applicando il vecchio principio comunista «eliminarne uno per educarne cento».
L’iniziativa sta provocando inevitabili polemiche. Il capogruppo della Lega di Reggio Emilia, Alessandro Rinaldi, ha alzato il volume della radio: «Censurare Gesù dalle canzoni di Natale nelle scuole in nome dell’inclusione è una deriva inaccettabile. Una scelta sbagliata, ideologica e profondamente diseducativa. Il Natale ha un’identità chiara: è una festa cristiana». Il segretario provinciale di Fdi, Alessandro Aragona, definisce l’episodio «atto di autolesionismo culturale, la prova di una deriva ideologica della sinistra che mira a cancellare le radici storiche e della civiltà europea».
Il dossier è sulla scrivania del ministro Giuseppe Valditara, che potrebbe decidere di inviare gli ispettori per chiarire le responsabilità. Ma la reazione ministeriale sarebbe sproporzionata, addirittura superflua. In questi casi dovrebbero essere i genitori a prendere le distanze dal ridicolo. Anche perché la sacra famiglia, pur strapazzata dalla superficialità di chi pretende di includere escludendo 2.000 anni di cristianesimo, continua a parlarci. E giudica chi la sta violentando.
