
La pitina nasce nell’Ottocento in alcune vallate del Friuli dove le carni di capre, pecore e vacche venivano unite a quelle di caprioli, cervi e camosci. Ma non c’erano maiali da cui ricavare il budello per la conservazione. Quindi, ci si arrangiava con la farina di mais.Ci sono piccole Cenerentole che possono diventare regine anche al palato, basta avere un principe azzurro che le sappia riscoprire, dalla memoria lontana di un passato fatto di pudica cucina familiare, sapendole valorizzare in un presente in cui la ricerca dell’identità territoriale diventa materia prima, non solo golosa.È così che si può introdurre la storia della pitina, un salume non insaccato, cugino della polpetta, che ha trovato negli anni Ottanta del secolo scorso il suo vate in Mattia Trivelli, un giovane macellaio mancato anzitempo, a soli 43 anni, che, recuperata la ricetta dalla tradizione orale dei suoi compaesani della Val Tramontina, nelle Dolomiti pordenonesi, non solo la propose al dettaglio quotidiano con pari dignità rispetto a filetti e luganeghe (salsicce friulane), ma se la portò appresso per farla conoscere in società ai vari mercatini e fiere paesane che stavano prendendo sempre più piede in quell’epoca. Tanto che, nell’aprile del 1989, fece domanda di registrazione del marchio pitina presso l’Ufficio italiano brevetti con una sua ricetta tramandata in famiglia: carne di montone affumicata e rare erbe aromatiche. Un pioniere di successo che, con impegno e professionalità, ha creato le basi poi per l’inserimento della pitina nel novero dei prodotti a Indicazione geografica protetta (Igp).Pitina che, fino ad allora poco era uscita dalle sue valli (Tramontina, Cellina e Colvera) se non per varcare oceani lontani nelle valigie di cartone degli emigranti in cerca di fortuna americana. Parte della storia, infatti, è stata ricostruita in una tesi di laurea proprio consultando gli eredi di questi friulani d’antan, svolta da Renata Vettorelli. Essendo oggetto di consumo domestico e non di commercio, non esistevano tracce di sue transazioni economiche. Era cibo di sussistenza e non certo ambito retaggio dei menù signorili delle famiglie del tempo. Una preparazione che ha preso piede agli inizi dell’Ottocento. Tradizione orale vuole che abbia le sue radici primigenie nella borgata Frassainet, nel Comune di Tramonti di Sopra. Nelle terre di mezzo tra pianura e montagna l’allevamento del maiale era privilegio di pochi.Restavano capre, pecore, qualche vacca. Utili per il loro latte e, quindi, per i formaggi. Le carni immolate poi, per quanto, esauste, avevano dato in vita. C’erano altre carni, quelle degli ungulati: caprioli, cervi, camosci. Spesso oggetto mirato di cacce di frodo e, quindi, non dichiarabili. Cosa fare con queste? Si tenevano di riserva nella dispensa, anzi, nel «camarin», un ambiente fresco e ventilato per la relativa stagionatura. La lavorazione avveniva generalmente in autunno, di ritorno dall’alpeggio. Una liturgia ben codificata. Si provvedeva prima alla mondatura, le carni disossate, sgrassate e private dei tendini. Poi venivano sminuzzate nella pestadora (un ceppo di legno incavato) grazie al sapiente governo del manarin (un coltellaccio ben affilato uso alla bisogna). Il tutto sarà sostituito da un più rassicurante macinino.Una volta ottimizzato l’impasto, adeguatamente salato e speziato in particolare con rosmarino selvatico, bisognava trovare lo stratagemma per la sua conservazione. Nelle casere valligiane non era facile disporre del budello di maiale per l’insacco e, quindi, ci si arrangiava con la farina di mais. Sorta di polpette, sapientemente modellate a mano, dalla pezzatura compresa tra cento e trecento grammi messe ad affumicare, mediamente per tre giorni, sopra il fogher, il camino domestico con pino mugo, faggio, carpini, noccioli, comunque piante non resinose. Anche perché, in quel tempo e tra quelle valli, l’affumicatura era una pratica più vantaggiosa (ed economica) rispetto alla salatura. Da qui il passaggio all’affinamento nel camarin.Dopo circa quindici giorni una muffa bianca iniziava a ricoprirne le superfici, processo che richiedeva, mediamente, un mese. Da lì in poi la pitina era pronta a immolarsi per sfamare le famiglie che, con tanta cura, l’avevano creata. Questo avveniva al tempo della civiltà contadina, durata sino a circa la metà del Novecento. Lo sviluppo industriale, la curiosità della modernità, anche alimentare, rischiò di fare cadere in un oblio senza ritorno questa umile creatura della cultura materiale.Ma ecco scendere in campo Mattia Trivelli anche se, fin dal 1969, la Pro loco di Tramonti di sopra aveva inaugurato l’annuale festa della pitina, a fine luglio. Si accendono i riflettori e la pitina torna a nuova vita, come merita. Si cerca di codificarne una sorta di disciplinare, rispettoso della sua storia. Si scoprono cugine vicine.Ad esempio la peta, la maggiorata del gruppo, dalla pezzatura che può arrivare anche a un chilo; o la petuccia nella quale, durante la preparazione, in omaggio alla modernità, vi è l’inserimento anche di carni bovine e suine mentre nella pitina originale le carni di maiale sono ammesse (di spalla o pancetta) in una percentuale che non deve essere superiore al 30%, anche per «ingentilire» sentori selvaggi che, nel tempo che fu, caratterizzavano assemblaggi a volte fin troppo amatoriali di carni selvatiche (caprioli, daini) come di ovini o caprini passati a miglior vita per malattia o per cadute accidentali nei dirupi lungo i sentieri di montagna.Giunge il momento di passare dalla manualità pratica a quella culinaria. Ricoperte di una muffa uniforme, le pitine vanno spazzolate con mano lieve (qualcuno prima le immerge in un bagnetto di vino rosso, per una aromatizzazione della staffa). Poi lavate con acqua e aceto per sgrassare il tutto e, infine, tagliate a fette, non troppo sottili. Qui il palato si può scatenare, curioso, fra tradizione e fantasia creativa. Nei canoni classici la pitina la troviamo in brodo di polenta. Tradotto. Ripescata dal camarin e affettata, generalmente risultava un po’ rinsecchita. Ecco che, allora, veniva spadellata, con un po’ di burro e a questo si aggiungeva una polenta ancora molto fluida, che si rassodava poi alla cottura finale.Altro grande classico è la pitina al cao, ovvero cotta nel latte appena munto anche se, nei tempi odierni, la mungitura in vivo è privilegio di pochi e, quindi, si ricorre alla panna acida. In memoria di Mattia Trivelli si è istituito, dal 2012 un omonimo premio destinato ai migliori interpreti della pitina ai fornelli, seguito poi da uno riservato ai produttori, rinforzato dal riconoscimento Igp, di marchio europeo, arrivato nel 2018, a riconoscimento della filiera di produttori che, nel tempo, si sono riconosciuti in questo progetto che rende onore a un patrimonio locale. Pitina a tutto menù, con relative sorprese.Troviamo dei ciccioli di pitina come un carpaccio, ottimo sparring partner goloso con trota salmonata e salsa di castagne. Rilancia Sergio Babbo, a Piancavallo, con la pitina in savor. Marco Talamini, di Spilimbergo, si è inventato l’orzotto mantecato con zucca, pitina e polvere di caffè. Non sono da meno Angelina Zecchini e Daniele Corte che, nel loro storico locale a Cavasso nuovo, rilanciano con la Pitinoca, rigorosamente in carta solo dopo l’undici novembre, giorno di San Martino in cui si propone un curioso gemellaggio di carni diverse.Pitina inserita nella farcia della faraona in crosta, assieme alla brovada, i crauti friulani, a fare contorno. Pitina anche in chiave più moderna, in hamburgher, con montasio e la cipolla rossa di Cavasso. Chi l’avrebbe mai detto che la pitina ci stava pure al dessert? Et voilà il gelato di pitina così come il sorbetto alla pitina di camoscio con aceto balsamico e cioccolato fondente. Un ricettario goloso senza confini, quindi, alla creatività, nel rispetto della tradizione, da trasmettere alle future generazioni, dalle memorie dei nonni cui contribuisce, da sempre, la delegazione di Pordenone nell’Accademia italiana della cucina, storico partner del premio Trivelli.
Mattia Furlani (Ansa)
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