
Investimenti a basso costo e buoni ritorni. Ma oramai di tante razze originali si è persa quasi ogni traccia. Qualche volenteroso ha però iniziato una paziente opera di ricostruzione del patrimonio genetico di antichi suini che hanno tradizioni d'eccellenza.Dagli Appennini alle Alpi il passo può essere breve (e goloso) sulle orme del divin porcello. Lasciate le prelibatezze della cinta senese e della macchiaiola maremmana, eccoci arrivare in terra langarola al cospetto del nero piemontese. Una storia nata da poche settimane, con radici secolari. In Piemonte erano storicamente radicate il nero di Cavour, in area Langhe Roero, e quello di Garlasco, più a settentrione, con diffusione anche lombarda. Due razze che, nell'economia rurale del tempo, erano in continuo meticciamento, come ben documentato da indagine svolta nel 1927 dal veterinario Ettore Mascheroni. Tuttavia, già da fine Ottocento, anche nelle terre di Barolo e Barbaresco era arrivato il rinforzo suino d'oltremanica, ovvero quelle large white che erano più competitive sui mercati del tempo. Figliolavano prima e in maniera più numerosa delle grufolanti autoctone, oltre ad avere un peso forma al momento di passare all'insacco che consentiva un maggior ritorno economico. Anche perché, un tempo, i maiali erano una sorta di piccola banca alimentare. Si investiva a basso costo (con gli scarti della cucina domestica) e si passava all'incasso dopo due agosti (il tempo ritenuto indispensabile per una loro corretta maturazione) con prodotti di pregio di cui non si buttava via niente e ci si sfamava tutto l'anno. Oramai degli originali Cavour e Garlasco si era persa quasi ogni traccia. Tuttavia ogni tempo ha i suoi eroi. Ed ecco che, alcuni anni fa, un viticoltore del Roero, Roberto Costa, decise di andare oltre le barbatelle che coltivava nelle sue colline. Aveva un sogno. Che se è vero che in famiglia aveva sempre sentito parlare dei maiali che pascolavano liberi in collina, a caccia di ghiande e castagne, lui se li immaginava tra le viti, con un sogno «piccoli maialini che pascolano nel vigneto! Si tratterebbe di un diserbante naturale, una filiera che porterebbe a una produzione naturale di vino a tutti gli effetti». Mai mettere un limite ai sogni. Intanto Costa ha iniziato dal bosco attorno ai suoi poderi. Qui, in collaborazione con la facoltà di Agraria dell'Università di Torino, c'è stata una paziente opera di ricostruzione del patrimonio genetico delle due antiche razze. Approvata a fine gennaio dal Ministero, per cui si può parlare di razza nera piemontese, dai tratti che rinviano all'antica Cavour, dal vello nero e il muso bianco. Costa ha saputo coinvolgere nel progetto anche altri allevatori. Presso il centro universitario di Grugliasco è oramai attivo un libro genealogico. In questo progetto, sostenuto anche dalla regione Piemonte, verranno selezionati i migliori ibridi per diventare, a loro volta, riproduttori. Sono già alcune centinaia le unità suine allevate con questo disciplinare, a cui vanno i migliori auguri, anche perché la tradizione suinicola piemontese ha delle eccellenze, di nicchia, che vanno ricordate. Come ad esempio la batsoà, ovvero il piedino del maiale fritto, chiamato così perché si rinviava, con ironia, alle calze femminili di seta di un tempo. Oppure la ola al forno, niente a che fare con i riti degli ultras del toro pedatante. Una zuppa di maiale in cui madri e nonne riciclavano tutto il meglio della dispensa, tanto è vero che un'antica usanza diceva «valle che vai, ola che trovi», per non parlare del salam de 'la duja, attorno al lago d'Orta. Tagli di alta qualità (a iniziare da culatello, spalla, coscia), sale e vino rosso nella concia, poi conservati in vasi di coccio ripieni di grasso così da tenere lontana ogni possibile ossidazione a contatto con l'aria. Come le mortadelle di fegato, presenti in diverse varianti. Libidine pura. In terra lombarda troviamo la cassoeula, un piatto identitario non solo all'ombra della Madonnina, ma anche nelle terre vicine, la bergamasca su tutte, con una intrigante variante nel Varesotto dove, tra gli ingredienti, troviamo le orecchie del maiale, mentre invece la coda è presente nel mantovano, decoro finale e goloso del risotto della nonna. E che dire del pistà ad grass, il pesto di lardo aromatizzato, regale ingrediente dei pisarei e fasò, la pasta e fagioli piacentina. In terra emiliana il maiale è identitario come non mai, conforto alle nebbie e alle brine invernali così ben descritte da Giovannino Guareschi e Cesare Zavattini. Su Parma e i suoi tesori, a partire da culatello e strolghino, si tornerà in un'altra occasione così, volando sulle terre modenesi, oltre al rombo della Ferrari, come rimanere indifferenti agli umori di zampone e cotechino. Le star locali. Il cotechino pare sia il capostipite, al nord, di tutti gli altri insaccati, composto da un mix di carni magre, grasso e cotenna, con spezie varie, vino come optional, in un declinarsi di diverse varianti sparse lungo l'asse padano, tra queste il cotechino in galera. Avvolto da un vello di manzo e prosciutto, rosolato poi su di un letto di brodo e lambrusco. Cotechino con Modena riconosciuta capitale a denominazione IGP, a differenza dello zampone che si narra nato nel 1511 a Mirandola, posta sotto assedio dalle truppe di papa Giulio II, dove, a contenere il tutto, c'è la zampa al posto del budello del cotechino. Un modo per mettere da parte le carni per tempi migliori… anche se poi gli assedianti la ebbero ugualmente vinta. Qualcuno, per dare spessore al tutto, sostiene che l'ideaccia venne a uno dei cuochi del locale Pico, poi passato alla storia, ma per altri meriti. È Vincenzo Agnoletti, cuoco al servizio di Maria Luigia, granduchessa di Parma, a darne una prima descrizione scritta. A Castelnuovo Rangone fa ogni anno la sua comparsa lo zampone gigante, una creatura che, nel 2014, è entrata nel Guinnes dei primati con una stazza di 1038 Kg. Tutto nato per uno scherzo di carnevale di alcuni bontemponi che misero in piazza uno zampone di cartapesta lungo due metri. La sfida fu presa sul serio da Sante Bortolomasi, il re dello zampone (cui il comune ha voluto dedicare una piccola strada del centro, con tanto di targa) e adesso è diventata tradizione di sostanza e festa condivisa da tutti i cittadini golosi (e anche molti foresti). Sue tracce risalgono alla metà del '500, anche se la prima ricetta documentata è del 1746, per avere poi piena nobiltà culinaria nel 1910 con Pellegrino Artusi. Di Bologna e la sua mortadella se ne è già parlato per cui il viaggio prosegue nelle terre di Romagna. Anche qui una combattiva razza autoctona è stata recuperata, anni fa, le sue carni di estremo pregio. La mora romagnola è molto autonoma. Ottima pascolatrice, si procura facilmente il cibo nel sottobosco, con i suoi caratteristici occhi a mandorla, e le femmine scelgono dove partorire senza tanti problemi. Tra l'altro sono più alte al garrese dei verri, i quali hanno delle zanne che fanno intravedere lontana parentela con il cinghiale. Arrivata assieme alle invasioni barbariche, il suo nome è recente, del 1942, fusione delle originarie tre varianti locali: forlivese, riminese e faentina. Il loro angelo salvatore proprio un faentino, Mario Lazzari, che iniziò a curarsi di loro nel 1982. In pochi decenni si era passati dai 330.000 esemplari di inizio secolo a poco meno di una ventina. Lazzari seppe coinvolgere i suoi colleghi che, con ostinazione tipicamente romagnola, non volevano recidere questa testimonianza storica e ora la carne della mora romagnola è tra le più ricercate ed apprezzate per le sue indubbie qualità organolettiche. Una carne più scura e marezzata delle altre, dal gusto pieno, tanto che Stefano Jacini, potente esponente del governo sabaudo, nel 1877 ebbe così a descriverla: «questo è un grasso che si scioglie in bocca». Ideale per una serie di preparazioni che vanno dai tradizionali guanciale, pancetta, ciccioli, alla rara salsiccia passita, lavorata con sale di Cervia e dalla caratteristica forma a U. Se poi uno riesce a procurarsela in versione salama da sugo… anche il paradiso può attendere.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.