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2019-01-01
In Macedonia ha vinto l'accoppiata Ue-Soros e imposto il credo socialista
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Pudelek [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons
Tra poche settimane, per l'ennesima volta nella storia, la geografia dei Balcani subirà dei cambiamenti. La Macedonia sta per cambiare nome. Dopo che la Grecia si è opposta fin dallo smembramento della Jugoslavia al fatto che i macedoni potessero scegliere autonomamente il nome del proprio Paese e dopo che per quasi un trentennio i governi di Skopje si sono dovuti accontentare di rappresentare nei consessi internazionali uno Stato denominato ufficialmente Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia pare che la disputa stia giungendo al termine. Nel 2016 la quasi totalità delle grandi potenze, insieme all'Alta rappresentante per la Politica Internazionale dell'Unione europea Federica Mogherini, che ha guidato la pressione internazionale e la delegittimazione pubblica dell'allora governo conservatore, si è concentrata sulla destabilizzazione politica della Macedonia favorendo il cambio di maggioranza parlamentare. Grazie a lunghi mesi d'intercettazioni telefoniche coordinate dai servizi segreti tedeschi, operanti attraverso la società telefonica locale detenuta dalla Deutsche Telekom, e pressioni di piazza sostenute principalmente dal fondo Open Society di Soros il governo conservatore guidato all'epoca da Nikola Gruevski dovette rassegnare le dimissioni nonostante dieci anni di vittorie elettorali. Dietro pressioni internazionali, inchieste giudiziarie sulla base delle intercettazioni straniere e giochi di potere interni coordinati dalla minoranza albanese desiderosa di trasformare la Macedonia in federazione Gruevski lasciò il suo posto al leader del partito socialista Zoran Zaev, pupillo delle potenze straniere e da queste incaricato di concludere l'accordo capestro con la Grecia in modo da chiudere la disputa sul nome in cambio della promessa della futura ammissione di Skopje alla Nato e all'Unione europea. Liberandosi di Gruevski gran parte delle capitali del Vecchio continente contavano sul fatto di disfarsi di un primo ministro dai modi autocratici ma deciso a difendere il concetto di sovranità e al tempo stesso di regalare alla Grecia una contropartita politica per le sofferenze fattele patire durante la crisi finanziaria. Non a caso è stata proprio la Germania, le cui banche hanno guadagnato più di tutte le altre dal salvataggio del sistema greco, a coordinare il cambio di regime in Macedonia e a non condizionare mai in passato gli aiuti finanziari ad Atene con un previo riconoscimento del confinante settentrionale.
La questione macedone è stata ad arte mantenuta aperta fin dagli anni Novanta, da parte dell'Europa e degli Stati Uniti di Barack Obama, in modo da controllare la stabilità dei Balcani a proprio piacimento e ora pare essere destinata a chiudersi, momentaneamente, in un modo che quasi certamente sarà solo l'anticipo di un nuovo, ben più grave, problema per la sicurezza del nostro continente. In contrasto con la stessa Costituzione, che destina tale facoltà solamente al Presidente della Repubblica, Zaev ha concluso un accordo con il governo del premier socialista greco Aleksis Cipras in base al quale la Repubblica ellenica garantisce alla controparte il riconoscimento internazionale qualora si rinomini in Macedonia Settentrionale, cambi più della metà della sua carta fondamentale e garantisca ad Atene la possibilità di influire sull'interpretazione della Storia attraverso apposite commissioni bilaterali. L'accordo ora sottoposto all'approvazione del Parlamento macedone è un precedente d'imposizione esterna del concetto di sovranità limitata che avrà ripercussioni pericolosissime nelle relazioni internazionali ma della cui portata al momento non pare importare a nessuno. Nel Parlamento, il governo di Skopje, può contare sulla maggioranza dei due terzi dei membri prescritta dalla Legge. Essa è stata ottenuta nei mesi passati grazie all'opera di convincimento portata innanzi dall'ex capo dei servizi segreti Sašo Mijalkov, ex fedele del partito conservatore, nei confronti dei deputati facilmente ricattabili e preventivamente sottoposti a processi penali convenientemente iniziati al cambio di maggioranza politica del Paese. Agendo in tal modo Mijalkov, che detiene anche la cittadinanza ceca, si è comprato l'immunità e ha garantito a suo genero Nikola Gruevski la fuga in esilio a Budapest, avvenuta il 13 novembre scorso nonostante la rigida sorveglianza a cui da mesi era sottoposto da parte della polizia. Il nuovo leader del partito conservatore VMRO, Hristijan Mickoski, si trova pertanto alla guida di un partito ripulito, ma al momento impossibilitato dai numeri a fermare la capitolazione del proprio Paese, un Paese esternamente manipolato in modo da rimanere opportunamente dilaniato dalle lotte di potere interne, dalla corruzione e dall'uso politico della magistratura. Secondo le dichiarazioni di Antonio Milošoski, astro nascente del partito VMRO e all'epoca dello scandalo delle intercettazioni presidente della Commissione per il controllo dei Servizi Segreti, la nostra ambasciata avrebbe avuto un ruolo di primo piano durante il governo Renzi nella destabilizzazione della Macedonia.
Ora i rapporti diplomatici sono rientrati nella normalità ed il nuovo rappresentante della Farnesina gode della stima di tutte le opzioni politiche macedoni, tuttavia per Milošoski il danno più grave sarebbe stato causato dall'atteggiamento della Mogherini che incapace d'ottenere successi internazionali degni di nota si sarebbe accanita sulla Macedonia pur di fregiarsi di un risultato prima della fine del suo mandato. Una volta approvata a Skopje la riforma della Costituzione toccherà ad Atene ratificare il tutto aprendo così ai membri della Nato la possibilità d'allargare l'alleanza. L'entrata della Macedonia Settentrionale potrebbe avvenire, su pressioni d'una Washington desiderosa di cementare il bastione balcanico in chiave anti russa, entro due anni. Tuttavia i futuri macedoni settentrionali sanno bene che la Nato non garantirà loro alcun automatismo in direzione dell'Unione europea. Per Bruxelles la strada sarà ancora lunga e irta di opposizioni per un Paese storicamente conteso da Grecia, Bulgaria e Turchia le cui capitali non hanno alcuna intenzione di rendergli la vita facile.
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La questione macedone è stata ad arte mantenuta aperta fin dagli anni Novanta, da parte dell'Europa e degli Stati Uniti di Barak Obama, in modo da controllare la stabilità dei Balcani a proprio piacimento e ora pare essere destinata a chiudersi, momentaneamente, in un modo che quasi certamente sarà solo l'anticipo di un nuovo, ben più grave, problema per la sicurezza del nostro continente. L'area è destinata a diventare sempre più instabile.Tra poche settimane, per l'ennesima volta nella storia, la geografia dei Balcani subirà dei cambiamenti. La Macedonia sta per cambiare nome. Dopo che la Grecia si è opposta fin dallo smembramento della Jugoslavia al fatto che i macedoni potessero scegliere autonomamente il nome del proprio Paese e dopo che per quasi un trentennio i governi di Skopje si sono dovuti accontentare di rappresentare nei consessi internazionali uno Stato denominato ufficialmente Ex Repubblica Jugoslava di Macedonia pare che la disputa stia giungendo al termine. Nel 2016 la quasi totalità delle grandi potenze, insieme all'Alta rappresentante per la Politica Internazionale dell'Unione europea Federica Mogherini, che ha guidato la pressione internazionale e la delegittimazione pubblica dell'allora governo conservatore, si è concentrata sulla destabilizzazione politica della Macedonia favorendo il cambio di maggioranza parlamentare. Grazie a lunghi mesi d'intercettazioni telefoniche coordinate dai servizi segreti tedeschi, operanti attraverso la società telefonica locale detenuta dalla Deutsche Telekom, e pressioni di piazza sostenute principalmente dal fondo Open Society di Soros il governo conservatore guidato all'epoca da Nikola Gruevski dovette rassegnare le dimissioni nonostante dieci anni di vittorie elettorali. Dietro pressioni internazionali, inchieste giudiziarie sulla base delle intercettazioni straniere e giochi di potere interni coordinati dalla minoranza albanese desiderosa di trasformare la Macedonia in federazione Gruevski lasciò il suo posto al leader del partito socialista Zoran Zaev, pupillo delle potenze straniere e da queste incaricato di concludere l'accordo capestro con la Grecia in modo da chiudere la disputa sul nome in cambio della promessa della futura ammissione di Skopje alla Nato e all'Unione europea. Liberandosi di Gruevski gran parte delle capitali del Vecchio continente contavano sul fatto di disfarsi di un primo ministro dai modi autocratici ma deciso a difendere il concetto di sovranità e al tempo stesso di regalare alla Grecia una contropartita politica per le sofferenze fattele patire durante la crisi finanziaria. Non a caso è stata proprio la Germania, le cui banche hanno guadagnato più di tutte le altre dal salvataggio del sistema greco, a coordinare il cambio di regime in Macedonia e a non condizionare mai in passato gli aiuti finanziari ad Atene con un previo riconoscimento del confinante settentrionale.La questione macedone è stata ad arte mantenuta aperta fin dagli anni Novanta, da parte dell'Europa e degli Stati Uniti di Barack Obama, in modo da controllare la stabilità dei Balcani a proprio piacimento e ora pare essere destinata a chiudersi, momentaneamente, in un modo che quasi certamente sarà solo l'anticipo di un nuovo, ben più grave, problema per la sicurezza del nostro continente. In contrasto con la stessa Costituzione, che destina tale facoltà solamente al Presidente della Repubblica, Zaev ha concluso un accordo con il governo del premier socialista greco Aleksis Cipras in base al quale la Repubblica ellenica garantisce alla controparte il riconoscimento internazionale qualora si rinomini in Macedonia Settentrionale, cambi più della metà della sua carta fondamentale e garantisca ad Atene la possibilità di influire sull'interpretazione della Storia attraverso apposite commissioni bilaterali. L'accordo ora sottoposto all'approvazione del Parlamento macedone è un precedente d'imposizione esterna del concetto di sovranità limitata che avrà ripercussioni pericolosissime nelle relazioni internazionali ma della cui portata al momento non pare importare a nessuno. Nel Parlamento, il governo di Skopje, può contare sulla maggioranza dei due terzi dei membri prescritta dalla Legge. Essa è stata ottenuta nei mesi passati grazie all'opera di convincimento portata innanzi dall'ex capo dei servizi segreti Sašo Mijalkov, ex fedele del partito conservatore, nei confronti dei deputati facilmente ricattabili e preventivamente sottoposti a processi penali convenientemente iniziati al cambio di maggioranza politica del Paese. Agendo in tal modo Mijalkov, che detiene anche la cittadinanza ceca, si è comprato l'immunità e ha garantito a suo genero Nikola Gruevski la fuga in esilio a Budapest, avvenuta il 13 novembre scorso nonostante la rigida sorveglianza a cui da mesi era sottoposto da parte della polizia. Il nuovo leader del partito conservatore VMRO, Hristijan Mickoski, si trova pertanto alla guida di un partito ripulito, ma al momento impossibilitato dai numeri a fermare la capitolazione del proprio Paese, un Paese esternamente manipolato in modo da rimanere opportunamente dilaniato dalle lotte di potere interne, dalla corruzione e dall'uso politico della magistratura. Secondo le dichiarazioni di Antonio Milošoski, astro nascente del partito VMRO e all'epoca dello scandalo delle intercettazioni presidente della Commissione per il controllo dei Servizi Segreti, la nostra ambasciata avrebbe avuto un ruolo di primo piano durante il governo Renzi nella destabilizzazione della Macedonia.Ora i rapporti diplomatici sono rientrati nella normalità ed il nuovo rappresentante della Farnesina gode della stima di tutte le opzioni politiche macedoni, tuttavia per Milošoski il danno più grave sarebbe stato causato dall'atteggiamento della Mogherini che incapace d'ottenere successi internazionali degni di nota si sarebbe accanita sulla Macedonia pur di fregiarsi di un risultato prima della fine del suo mandato. Una volta approvata a Skopje la riforma della Costituzione toccherà ad Atene ratificare il tutto aprendo così ai membri della Nato la possibilità d'allargare l'alleanza. L'entrata della Macedonia Settentrionale potrebbe avvenire, su pressioni d'una Washington desiderosa di cementare il bastione balcanico in chiave anti russa, entro due anni. Tuttavia i futuri macedoni settentrionali sanno bene che la Nato non garantirà loro alcun automatismo in direzione dell'Unione europea. Per Bruxelles la strada sarà ancora lunga e irta di opposizioni per un Paese storicamente conteso da Grecia, Bulgaria e Turchia le cui capitali non hanno alcuna intenzione di rendergli la vita facile. media2.giphy.com
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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