2021-04-01
A Perugia è caccia alla talpa «sbagliata» del Palamara-gate
Chiesto il giudizio per Stefano Fava, Riccardo Fuzio e l'ex presidente dell'Anm per le notizie (pubblicate pure dalla «Verità») su Giuseppe Pignatone.Continua la guerra della Procura di Perugia alla micro fuga di notizie (se di fuga di notizie si può parlare) sull'esposto che l'allora pubblico ministero di Roma Stefano Fava aveva inviato nel marzo del 2019 al Csm per segnalare il presunto conflitto di interessi del suo capo Giuseppe Pignatone. Per Fava i pm umbri hanno chiesto il processo per rivelazione di segreto e accesso abusivo alla banca dati del Tribunale. Gli inquirenti hanno fatto istanza di rinvio a giudizio anche per l'ex presidente dell'Anm Luca Palamara, accusato di aver istigato e aiutato Fava. Stesso destino per l'ex procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio sospettato di aver dato notizie riservate a Palamara sul solito esposto.Ma tutte queste accuse (che come vedremo si basano su indizi discutibili) riguardano una notizia di reato che è un topolino se confrontata con l'incredibile soffiata che ha permesso a Repubblica, Corriere della sera e Messaggero di far saltare per aria l'inchiesta per corruzione contro lo stesso Palamara. Questa rivelazione infatti ha vanificato l'utilizzo del trojan inoculato nel cellulare della toga espulsa dalla magistratura a ottobre. È vero che nel maggio del 2019 girava voce che Palamara fosse finito sotto intercettazione, ma l'indagato aveva continuato a parlare liberamente con i suoi interlocutori, come se nulla fosse. Però il 29 maggio, quando i cosiddetti giornaloni hanno pubblicato la notizia dell'inchiesta perugina, per i sostituti procuratori umbri è successo qualcosa di più grave: gli indagati hanno portato a compimento «una campagna mediatica ai danni» dei vertici della Procura di Roma. Quel giorno La Verità e il Fatto quotidiano hanno raccontato ai loro lettori la vicenda della segnalazione di Fava al Csm sull'operato di Pignatone (andato in pensione l'8 maggio 2019). Segnalazione che, negli allegati, chiamava in causa anche l'aggiunto Paolo Ielo.La sera del 28 maggio il magistrato e parlamentare del Pd Cosimo Ferri, il collega Luca Lotti e Palamara sembrano informati sulla pubblicazione degli articoli, anche se in modo impreciso: «Ma domani […] dovrebbero uscire su due…» dice Ferri. «Ma a Stefano glielo dico? […] Lo chiamo a Stefano se lo sa? Meglio di no?» replica Palamara. Di come la notizia sia arrivata al Fatto e alla Verità non vi è nessuna certezza, tanto che Ferri risponde: «Sì… però deve essere lui ad aver dato… lui e Ardita… certo non noi…». A leggerla così sembra una supposizione, ma Lotti a verbale ha dato una diversa lettura di quella frase: «Posso dire che a un certo punto Ferri disse che la responsabilità degli articoli doveva cadere su Fava e Ardita». Sia Lotti che Ferri con i magistrati di Perugia hanno riferito che la loro fonte era stato Palamara. Il primo è stato sentito due volte. La prima non ha specificato come fosse venuto a conoscenza della notizia degli scoop della Verità e del Fatto. Il 5 ottobre 2020 ha puntualizzato: «Confermo che io non ero affatto informato che l'indomani sarebbero usciti due articoli di stampa […]. È stato Palamara a riferirci tale circostanza». Ferri, davanti ai pm, si è invece affidato all'intuito per corroborare la tesi degli inquirenti: «Ritengo, per logica, che la notizia dell'uscita sulla stampa può avermela data solo Luca Palamara». Eppure dalle intercettazioni, come detto, l'ex pm romano non dà l'impressione di avere tutte queste sicurezze: «Ma davvero esce domani?» domanda, ricevendo di rimando da Ferri un sibillino: «Eh…».In un altro passaggio Palamara non appare così convinto: «Se domani esce questa cosa non ci fa bella figura». Forse il riferimento è a Pignatone. Lotti si preoccupa solo di specificare che il merito o la colpa dell'uscita degli articoli non è loro, che sono «leggeri» e non hanno tutto questo potere: «Ma domani mica siamo stati noi eh? Cioè per essere chiari […]. Io non me ne prendo i meriti eh…». Sentiti nel luglio dell'anno scorso gli autori degli articoli (Marco Lillo e chi scrive) hanno negato di aver appreso la notizia da Fava e da Palamara, ma di averla avuta da fonti diverse. Evidentemente i magistrati non hanno creduto ai giornalisti e hanno chiesto il rinvio a giudizio degli indagati, in particolare per alcune informazioni contenute nell'articolo della Verità. Ma quando le elencano, nella richiesta di rinvio a giudizio, i pubblici ministeri perugini si confondono e sostengono che avremmo scritto che l'avvocato Piero Amara era indagato per bancarotta e frode fiscale, mentre in quel momento era iscritto per riciclaggio e autoriciclaggio. Uno sbaglio che solleva l'ennesimo dubbio sull'accuratezza dell'indagine.Inoltre l'errore si somma a quello eclatante relativo a una chat di Palamara, in cui quest'ultimo scrive al collega Cesare Sirignano che «uscirà la verità», facendo riferimento a quella storica, mentre per i sostituti procuratori era una citazione del nostro giornale. Peccato che a quella data il cronista fosse del tutto all'oscuro della vicenda dell'esposto.La sensazione è che la Procura di Perugia, come nella parabola, si sia concentrata sulla pagliuzza anziché sulla trave. Infatti Corriere, Repubblica e Messaggero, bucando in maniera clamorosa la segretezza delle indagini, per giorni hanno cavalcato la presunta corruzione di Palamara da parte dell'ex pm Giancarlo Longo, un'accusa caduta durante le investigazioni. In questo caso gli inquirenti umbri non sembrano essere riusciti a individuare i pubblici ufficiali che hanno rivelato aspetti sensibilissimi di un'inchiesta in corso a un pool di giornalisti con ottimi agganci nelle procure. Un filone che, se sviluppato, potrebbe fare luce sul presunto rapporto simbiotico e malsano tra uffici inquirenti, polizia giudiziaria, e stampa denunciato da Palamara nel suo libro Il Sistema e, con un esposto, alla Procura di Firenze.
Andrea Sempio. Nel riquadro, l'avvocato Massimo Lovati (Ansa)
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