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2018-06-22
«Perfino la Germania ha un progetto per abbandonare la moneta unica»
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Mentre Angela Merkel è alla prese con la pesante questione migranti, che rischia di farla cadere e di condizionare la traballante costruzione europea, La Verità ha incontrato a Roma l'avvocato Bepi Pezzuli, presidente di Select Milano (organizzazione che ha l'obiettivo di rappresentare gli interessi italiani Oltremanica e dialogare con i rappresentanti della City di Londra), che ha rivelato l'esistenza di un presunto «piano B della Germania per uscire dall'euro».
Si tratta di un piano conosciuto da quanti operano nei marcati dei capitali. L'Ifo - l'Institute for economic research, il think tank conservatore vicino alla Cdu - ne sta parlando apertamente, e il piano B tedesco per l'uscita dall'euro è legato al tema di Target 2, cioè il sistema di pagamento intraeuropeo che gestisce la liquidità degli scambi nell'area euro. In Target 2, mentre l'Italia ha un saldo negativo, con un debito di circa 400 miliardi, la Germania ha un saldo attivo di 900 miliardi, quindi, in caso di crisi nella periferia dell'Eurozona o di crisi sovrane dell'Italia, questo credito di 900 miliardi tedesco verrebbe messo a rischio. Di conseguenza una delle ipotesi studiate dall'Ifo è appunto quella dell'uscita dall'euro, con relativo pagamento del saldo attivo di crediti che altrimenti andrebbero persi.
Se però fosse l'Italia a uscire prima dall'euro, la Germania ci rimetterebbe?
«Beh, in quel caso avrebbe da richiedere il credito all'Italia, ma se fosse la Germania a uscire prima, i saldi diverrebbero immediatamente pagabili».
Allora è questo il nodo fondamentale della questione?
«Su questo c'è stato addirittura l'inizio di un incidente diplomatico, poiché Mario Draghi (presidente della Bce ndr) aveva dichiarato, salvo poi fare marcia indietro, che in caso di uscita dall'euro i saldi di Target 2 diverrebbero immediatamente esigibili e liquidabili cash. A quel punto parte della stampa anglosassone rilevò che così si dava un incentivo a uscire dall'euro a Germania e Olanda che sono i grandi creditori nel sistema di Target 2».
Mario Draghi ha fatto marcia indietro, ma la norma è restata e quindi l'uscita dall'euro non è più un tabù?
«No, non lo è, tanto che la Germania sta lavorando per il drafting, cioè per una norma che possa essere inserita in quelle europee e disciplinare con modalità molto precise l'uscita di un Paese dall'euro».
Da quanto la Germania sta lavorando sul piano B?
«In realtà la Germania non è mai stata un avvocato dell'euro, nel senso che è stato voluto fortemente dall'allora cancelliere Helmut Kohl, che per poterlo ottenere dovette addirittura licenziare due banchieri centrali della Deutsche Bundesbank. La Germania infatti aveva sempre premuto per una sorta di “serpente monetario" con delle bande di flessibilità diverse da quelle degli anni Ottanta».
E chi spinse per l'euro?
«La Francia, perché dopo la riunificazione tedesca non si fece la federazione tra le due Germanie come voleva Parigi, ma si fece la riunificazione in uno Stato unico. Per pagare gli alti costi della riunificazione tedesca ed evitare l'iperinflazione nei lander (gli Stati federali, ndr) dell'Est, la Bundesbank portò i tassi di interesse all'11% dalla sera alla mattina, e quindi espulse dal sistema monetario europeo le due economie meno integrate con l'Ue, che erano l'Italia con la lira e l'Inghilterra con la sterlina. Per evitare che la Germania manipolasse i tassi di interesse di nuovo e contagiasse tutta l'Europa, la Francia insistette per fare la moneta unica».
Nel 2008, dopo la crisi, le cose sono un po' cambiate per la Germania?
«Sì, perché fino al 2008 la Germania era il grande malato d'Europa, poi con il governo Schröder si fecero riforme strutturali profonde e da allora la Germania è impegnata in una politica economica ferocemente mercantilistica che ha generato un grande surplus di bilancio. Gli squilibri da esso determinati cominciano a mordere anche la Germania medesima, perché il Paese non ha una domanda interna, non ha inflazione, i salari sono bassi, non ci sono investimenti nelle infrastrutture, non ci sono gli upgrade di tecnologia e quindi questo stato di squilibrio danneggia anche la Germania».
Quali sono i motivi?
«Uno è che Mario Draghi mantiene una politica di tassi negativi e sta di fatto danneggiando il risparmio privato tedesco. La banche tedesche hanno in pancia tanto risparmio tedesco per via del surplus, quindi l'euro per la Germania è un problema».
Alla luce di tutto questo, cosa potrebbe accadere in Europa?
«Le due economie che in questo momento hanno un problema con l'euro sono l'Italia e la Germania per motivi opposti. La Germania ha un problema più grosso, poiché per ragioni geopolitiche la Merkel è andata allo strappo con Donald Trump e con gli Stati Uniti, ed è in corso una guerra commerciale. La Casa Bianca, soprattutto il consigliere per il commercio internazionale Peter Navarro, già da tempo si lamenta dello stato dei rapporti commerciali e anno su anno si aggiungono circa 60 miliardi di deficit alle partite commerciali tra Usa e Berlino».
Come se ne esce?
«Washington ha suggerito una ricetta per la Germania: aumentare i salari, produrre politiche inflattive, fare maggiori investimenti pubblici per le infrastrutture, ma la Germania sembra non voler sentire. Anzi, al G7 di Messina la Merkel ha dichiarato che “sono finiti i tempi in cui l'Europa poteva contare sull'alleato americano, adesso noi dobbiamo guardare al mondo con occhi diversi". Questo per dire che la cancelliera sta giocando altre partire, che non necessariamente comprendono gli Stati Uniti».
Quali partite?
«La prima riguarda Nord stream, il gasdotto con la Russia che renderebbe la Germania il terminale per la distribuzione energetica in Europa. Come è evidente, qualcosa sta cambiando, ma nel frattempo l'Europa, intesa come Unione europea, non sta reagendo».
E l'Italia?
«Facendo parte della periferia dell'Eurozona, non può, essendo ingabbiata com'è nell'euro, produrre quelle riforme strutturali che necessitano della leva della flessibilità per rendere il Paese di nuovo competitivo».
In occasione della presentazione in Senato del suo libro L'altra Brexit (edizioni Milano Finanza), il sottosegretario ai Trasporti e alle infrastrutture Armando Siri ha parlato di un «sentimento atlantico» che il nostro Paese condivide con Gran Bretagna e Stati Uniti e, commentando l'uscita inglese dall'Unione europea, ha detto con una battuta: «Dopo la Brexit non è morto nessuno»…
«Concordo con Siri e aggiungo che la posizione internazionale dell'Italia, in ogni caso, non è in discussione. L'alleato storico dell'Italia è e resta l'America, ed esiste una condivisione di interessi con Londra. Se esiste un progetto di Eurasia che in qualche misura cambia il ruolo della Russia nei rapporti internazionali, questo è un ruolo che va perseguito dalla comunità degli Stati internazionali e non da uno Stato in maniera individuale, strappando con gli alleati storici».
Bepi Pezzulli
«L’area euro salterà. L’Italia ha il diritto di difendere sé stessa con un piano B»
Nel maggio del 2018 le cancellerie di tutta Europa discutono di un saggio pubblicato da un (fino ad allora) minuscolo sito di analisi. Il sito si chiama Scenarieconomici.it, ed è stato fondato, cinque anni prima, da un gruppo di sei amici tutti professori o esperti di economia. In quel mese Scenari passa da un record di 50.000 a 500.000 visite. Arrivano utenti da tutti i continenti del pianeta. Accorrono tutti per legge un lungo saggio - passa alla storia come «il piano B» - in cui si spiega come l'Italia potrebbe uscire dall'euro in un fine settimana. Inutile dire che il saggio, a più mani, è stato curato dall'animatore del sito, Antonio Rinaldi, insieme con amici autori. Gli chiedo: «Chi finanzia Scenari?». Lui scoppia a ridere: «Come chi? Noi». Chi paga i costi dei convegni. E lui: «Noi». Gli dico: «Non ci credo». E lui: «Caro Luca, questo sito, che ha avuto 17.000 attacchi o intrusioni informatiche, è gestito da un nostro amico che chiede come unico rimborso per le spese sostenute 750 euro l'anno. Quando facciamo un convegno, invece, mano alla saccoccia (in romanesco è il portafoglio, ndr) e quello che c'è da pagare si divide in quote uguali».
Pare incredibile ma il gruppo di professori e studiosi eccentrici e marginali, in questi cinque anni, e con questi due unici strumenti di comunicazione, è diventato il pensatoio di uno dei principali partiti di governo, il luogo di un pensiero egemone. Se provochi Rinaldi, su questi temi, minimizza. Ti spiega che loro sostengono tesi perfettamente assennate e razionali. Ad esempio l'incompatibilità e l'illegittimità del fiscal compact. Oppure il chiodo fisso della sovranità: «La nostra idea è semplicemente quella che bisogna rafforzare l'Italia per darle un giusto ruolo. La costruzione europea non può resistere con un'Italia debole. I veri europeisti siamo noi».
I no euro nel giugno del 2018 hanno trovato il conforto di una firma importante come Milena Gabanelli che ha scatenato un putiferio nella rete, sposando le loro tesi sull'insostenibilità del regime dei cambi. Le istituzioni nazionali - dicono - devono essere messe in grado di difendere il Paese. Mentre, sul famoso piano B, Rinaldi dice: «Se ci fosse un attacco militare pensi che non serva un piano di difesa? Sul piano monetario è la stessa cosa. È un rischio eventuale che deve essere calcolato». Dicono che un piano programmato in tre giorni è sospetto e furtivo. Rinaldi sorride ancora: «Non ho mai visto un piano di difesa pensato per svilupparsi nel corso di mesi». A lanciare la necessità di dotarsi di un piano B, ovviamente, è Paolo Savona, che lo ha spiegato con questo esempio: «Nessuno rimprovererebbe un progettista di navi per aver previsto le scialuppe a bordo. Nessuno direbbe a questo progettista che si augura il naufragio perché immagina una via di salvezza dalla catastrofe». Oggi Rinaldi è ancora più pessimista: «Temo che nel 99% delle possibilità ci sarà una rottura dell'euro per via di una nuova crisi monetaria dell'area euro, non per decisione autonoma dell'Italia». Se lo accusi di essere anti tedesco il professore sorride. Al contrario di molti economisti filomerkeliani lui la lingua di Johann Wolfgang Goethe la parla a casa: sua moglie è tedesca e per metà lo sono i suoi figli, Rodolfo e Antonio. «Proprio perché conosco bene i tedeschi quando vado in Germania», ripete Rinaldi, «non voglio essere considerato un parente povero. La nostra storia ce lo impone».
Rinaldi teme che uno scossone arriverà dalla fine della politica economica inaugurata da Mario Draghi alla Bce: «Se esiste il Qe», spiega, «vuol dire che la costituzione monetaria è una struttura instabile, che non riesce a trovare un equilibrio».
Per Rinaldi l'Italia è un malato con la flebo che continua a credere nel medico che sbaglia le diagnosi e che non gli spiega l'origine del suo male. Il piano B serve - sostiene - «perché ci saranno momenti di tensione».
Il nodo a suo avviso è tutto qui: «Tassi diversi e meccanismi di redistribuzione diseguali fanno sì che le disuguaglianze si allarghino. Le due velocità dell'Europa producono aree sempre più ricche e aree sempre più povere. Se non si corregge questo congegno siamo nei guai».
Rinaldi dice di aver iniziato il suo percorso euroscettico nel 2011, contemplando l'immagine degli anziani che frugavano nei cassonetti. E aggiunge di essere orgoglioso di essere considerato «pazzo e cialtrone» dai bocconiani dell'era Monti: «Sono ottusi, tutti uguali, sembrano fatti con lo stampino».
Oggi insegna finanza aziendale all'università Gabriele D'Annunzio di Pescara e alla Link campus university dell'ex ministro democristiano Enzo Scotti: «La distinzione tra destra e sinistra è definitivamente saltata sul tema della moneta e della sovranità. Su questo terreno, i vecchi liberali come Luigi Einaudi, i repubblicani come Ugo La Malfa, i comunisti come Enrico Berlinguer sarebbero tutti dalla stessa parte, a tutela dell'interesse nazionale. Io sono keynesiano perché difendo l'idea dello Stato a garanzia del bene pubblico. Perché voglio tutelare gli interessi del popolo contro quelli delle élites». Poi ride: «Se io fossi stato uno del sistema non avrei potuto sostenere queste tesi. Se avessi dovuto campare con il lavoro universitario mi avrebbero già fucilato».
Luca Telese
Continua a leggereRiduci
Il capo di Select Milano, Bepi Pezzulli: «Con Target 2, il nuovo sistema di pagamento intraeuropeo, Berlino ha paura di perdere 900 miliardi. Per questo il think thank vicino al partito della Merkel studia una via di fuga».Antonio Rinaldi, fondatore di Scenarieconomici.it, sito che ha ispiratola Lega: «Malati in mano a dottori che sbagliano la diagnosi».Claudio Borghi Aquilini conquista la poltrona del bilancio alla Camera. Ancora niente nomine per le bicamerali di garanzia, che spettano alle opposizioni. Il Pd vuole i servizi segreti, Forza Italia la Rai.Lo speciale contiene tre articoliMentre Angela Merkel è alla prese con la pesante questione migranti, che rischia di farla cadere e di condizionare la traballante costruzione europea, La Verità ha incontrato a Roma l'avvocato Bepi Pezzuli, presidente di Select Milano (organizzazione che ha l'obiettivo di rappresentare gli interessi italiani Oltremanica e dialogare con i rappresentanti della City di Londra), che ha rivelato l'esistenza di un presunto «piano B della Germania per uscire dall'euro». Si tratta di un piano conosciuto da quanti operano nei marcati dei capitali. L'Ifo - l'Institute for economic research, il think tank conservatore vicino alla Cdu - ne sta parlando apertamente, e il piano B tedesco per l'uscita dall'euro è legato al tema di Target 2, cioè il sistema di pagamento intraeuropeo che gestisce la liquidità degli scambi nell'area euro. In Target 2, mentre l'Italia ha un saldo negativo, con un debito di circa 400 miliardi, la Germania ha un saldo attivo di 900 miliardi, quindi, in caso di crisi nella periferia dell'Eurozona o di crisi sovrane dell'Italia, questo credito di 900 miliardi tedesco verrebbe messo a rischio. Di conseguenza una delle ipotesi studiate dall'Ifo è appunto quella dell'uscita dall'euro, con relativo pagamento del saldo attivo di crediti che altrimenti andrebbero persi. Se però fosse l'Italia a uscire prima dall'euro, la Germania ci rimetterebbe? «Beh, in quel caso avrebbe da richiedere il credito all'Italia, ma se fosse la Germania a uscire prima, i saldi diverrebbero immediatamente pagabili». Allora è questo il nodo fondamentale della questione?«Su questo c'è stato addirittura l'inizio di un incidente diplomatico, poiché Mario Draghi (presidente della Bce ndr) aveva dichiarato, salvo poi fare marcia indietro, che in caso di uscita dall'euro i saldi di Target 2 diverrebbero immediatamente esigibili e liquidabili cash. A quel punto parte della stampa anglosassone rilevò che così si dava un incentivo a uscire dall'euro a Germania e Olanda che sono i grandi creditori nel sistema di Target 2». Mario Draghi ha fatto marcia indietro, ma la norma è restata e quindi l'uscita dall'euro non è più un tabù?«No, non lo è, tanto che la Germania sta lavorando per il drafting, cioè per una norma che possa essere inserita in quelle europee e disciplinare con modalità molto precise l'uscita di un Paese dall'euro». Da quanto la Germania sta lavorando sul piano B?«In realtà la Germania non è mai stata un avvocato dell'euro, nel senso che è stato voluto fortemente dall'allora cancelliere Helmut Kohl, che per poterlo ottenere dovette addirittura licenziare due banchieri centrali della Deutsche Bundesbank. La Germania infatti aveva sempre premuto per una sorta di “serpente monetario" con delle bande di flessibilità diverse da quelle degli anni Ottanta». E chi spinse per l'euro?«La Francia, perché dopo la riunificazione tedesca non si fece la federazione tra le due Germanie come voleva Parigi, ma si fece la riunificazione in uno Stato unico. Per pagare gli alti costi della riunificazione tedesca ed evitare l'iperinflazione nei lander (gli Stati federali, ndr) dell'Est, la Bundesbank portò i tassi di interesse all'11% dalla sera alla mattina, e quindi espulse dal sistema monetario europeo le due economie meno integrate con l'Ue, che erano l'Italia con la lira e l'Inghilterra con la sterlina. Per evitare che la Germania manipolasse i tassi di interesse di nuovo e contagiasse tutta l'Europa, la Francia insistette per fare la moneta unica».Nel 2008, dopo la crisi, le cose sono un po' cambiate per la Germania?«Sì, perché fino al 2008 la Germania era il grande malato d'Europa, poi con il governo Schröder si fecero riforme strutturali profonde e da allora la Germania è impegnata in una politica economica ferocemente mercantilistica che ha generato un grande surplus di bilancio. Gli squilibri da esso determinati cominciano a mordere anche la Germania medesima, perché il Paese non ha una domanda interna, non ha inflazione, i salari sono bassi, non ci sono investimenti nelle infrastrutture, non ci sono gli upgrade di tecnologia e quindi questo stato di squilibrio danneggia anche la Germania».Quali sono i motivi?«Uno è che Mario Draghi mantiene una politica di tassi negativi e sta di fatto danneggiando il risparmio privato tedesco. La banche tedesche hanno in pancia tanto risparmio tedesco per via del surplus, quindi l'euro per la Germania è un problema». Alla luce di tutto questo, cosa potrebbe accadere in Europa?«Le due economie che in questo momento hanno un problema con l'euro sono l'Italia e la Germania per motivi opposti. La Germania ha un problema più grosso, poiché per ragioni geopolitiche la Merkel è andata allo strappo con Donald Trump e con gli Stati Uniti, ed è in corso una guerra commerciale. La Casa Bianca, soprattutto il consigliere per il commercio internazionale Peter Navarro, già da tempo si lamenta dello stato dei rapporti commerciali e anno su anno si aggiungono circa 60 miliardi di deficit alle partite commerciali tra Usa e Berlino». Come se ne esce?«Washington ha suggerito una ricetta per la Germania: aumentare i salari, produrre politiche inflattive, fare maggiori investimenti pubblici per le infrastrutture, ma la Germania sembra non voler sentire. Anzi, al G7 di Messina la Merkel ha dichiarato che “sono finiti i tempi in cui l'Europa poteva contare sull'alleato americano, adesso noi dobbiamo guardare al mondo con occhi diversi". Questo per dire che la cancelliera sta giocando altre partire, che non necessariamente comprendono gli Stati Uniti».Quali partite?«La prima riguarda Nord stream, il gasdotto con la Russia che renderebbe la Germania il terminale per la distribuzione energetica in Europa. Come è evidente, qualcosa sta cambiando, ma nel frattempo l'Europa, intesa come Unione europea, non sta reagendo».E l'Italia? «Facendo parte della periferia dell'Eurozona, non può, essendo ingabbiata com'è nell'euro, produrre quelle riforme strutturali che necessitano della leva della flessibilità per rendere il Paese di nuovo competitivo». In occasione della presentazione in Senato del suo libro L'altra Brexit (edizioni Milano Finanza), il sottosegretario ai Trasporti e alle infrastrutture Armando Siri ha parlato di un «sentimento atlantico» che il nostro Paese condivide con Gran Bretagna e Stati Uniti e, commentando l'uscita inglese dall'Unione europea, ha detto con una battuta: «Dopo la Brexit non è morto nessuno»…«Concordo con Siri e aggiungo che la posizione internazionale dell'Italia, in ogni caso, non è in discussione. L'alleato storico dell'Italia è e resta l'America, ed esiste una condivisione di interessi con Londra. Se esiste un progetto di Eurasia che in qualche misura cambia il ruolo della Russia nei rapporti internazionali, questo è un ruolo che va perseguito dalla comunità degli Stati internazionali e non da uno Stato in maniera individuale, strappando con gli alleati storici». Bepi Pezzulli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perfino-la-germania-ha-un-progetto-per-abbandonare-la-moneta-unica-2580100077.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="larea-euro-saltera-litalia-ha-il-diritto-di-difendere-se-stessa-con-un-piano-b" data-post-id="2580100077" data-published-at="1765810389" data-use-pagination="False"> «L’area euro salterà. L’Italia ha il diritto di difendere sé stessa con un piano B» Nel maggio del 2018 le cancellerie di tutta Europa discutono di un saggio pubblicato da un (fino ad allora) minuscolo sito di analisi. Il sito si chiama Scenarieconomici.it, ed è stato fondato, cinque anni prima, da un gruppo di sei amici tutti professori o esperti di economia. In quel mese Scenari passa da un record di 50.000 a 500.000 visite. Arrivano utenti da tutti i continenti del pianeta. Accorrono tutti per legge un lungo saggio - passa alla storia come «il piano B» - in cui si spiega come l'Italia potrebbe uscire dall'euro in un fine settimana. Inutile dire che il saggio, a più mani, è stato curato dall'animatore del sito, Antonio Rinaldi, insieme con amici autori. Gli chiedo: «Chi finanzia Scenari?». Lui scoppia a ridere: «Come chi? Noi». Chi paga i costi dei convegni. E lui: «Noi». Gli dico: «Non ci credo». E lui: «Caro Luca, questo sito, che ha avuto 17.000 attacchi o intrusioni informatiche, è gestito da un nostro amico che chiede come unico rimborso per le spese sostenute 750 euro l'anno. Quando facciamo un convegno, invece, mano alla saccoccia (in romanesco è il portafoglio, ndr) e quello che c'è da pagare si divide in quote uguali». Pare incredibile ma il gruppo di professori e studiosi eccentrici e marginali, in questi cinque anni, e con questi due unici strumenti di comunicazione, è diventato il pensatoio di uno dei principali partiti di governo, il luogo di un pensiero egemone. Se provochi Rinaldi, su questi temi, minimizza. Ti spiega che loro sostengono tesi perfettamente assennate e razionali. Ad esempio l'incompatibilità e l'illegittimità del fiscal compact. Oppure il chiodo fisso della sovranità: «La nostra idea è semplicemente quella che bisogna rafforzare l'Italia per darle un giusto ruolo. La costruzione europea non può resistere con un'Italia debole. I veri europeisti siamo noi». I no euro nel giugno del 2018 hanno trovato il conforto di una firma importante come Milena Gabanelli che ha scatenato un putiferio nella rete, sposando le loro tesi sull'insostenibilità del regime dei cambi. Le istituzioni nazionali - dicono - devono essere messe in grado di difendere il Paese. Mentre, sul famoso piano B, Rinaldi dice: «Se ci fosse un attacco militare pensi che non serva un piano di difesa? Sul piano monetario è la stessa cosa. È un rischio eventuale che deve essere calcolato». Dicono che un piano programmato in tre giorni è sospetto e furtivo. Rinaldi sorride ancora: «Non ho mai visto un piano di difesa pensato per svilupparsi nel corso di mesi». A lanciare la necessità di dotarsi di un piano B, ovviamente, è Paolo Savona, che lo ha spiegato con questo esempio: «Nessuno rimprovererebbe un progettista di navi per aver previsto le scialuppe a bordo. Nessuno direbbe a questo progettista che si augura il naufragio perché immagina una via di salvezza dalla catastrofe». Oggi Rinaldi è ancora più pessimista: «Temo che nel 99% delle possibilità ci sarà una rottura dell'euro per via di una nuova crisi monetaria dell'area euro, non per decisione autonoma dell'Italia». Se lo accusi di essere anti tedesco il professore sorride. Al contrario di molti economisti filomerkeliani lui la lingua di Johann Wolfgang Goethe la parla a casa: sua moglie è tedesca e per metà lo sono i suoi figli, Rodolfo e Antonio. «Proprio perché conosco bene i tedeschi quando vado in Germania», ripete Rinaldi, «non voglio essere considerato un parente povero. La nostra storia ce lo impone». Rinaldi teme che uno scossone arriverà dalla fine della politica economica inaugurata da Mario Draghi alla Bce: «Se esiste il Qe», spiega, «vuol dire che la costituzione monetaria è una struttura instabile, che non riesce a trovare un equilibrio». Per Rinaldi l'Italia è un malato con la flebo che continua a credere nel medico che sbaglia le diagnosi e che non gli spiega l'origine del suo male. Il piano B serve - sostiene - «perché ci saranno momenti di tensione». Il nodo a suo avviso è tutto qui: «Tassi diversi e meccanismi di redistribuzione diseguali fanno sì che le disuguaglianze si allarghino. Le due velocità dell'Europa producono aree sempre più ricche e aree sempre più povere. Se non si corregge questo congegno siamo nei guai». Rinaldi dice di aver iniziato il suo percorso euroscettico nel 2011, contemplando l'immagine degli anziani che frugavano nei cassonetti. E aggiunge di essere orgoglioso di essere considerato «pazzo e cialtrone» dai bocconiani dell'era Monti: «Sono ottusi, tutti uguali, sembrano fatti con lo stampino». Oggi insegna finanza aziendale all'università Gabriele D'Annunzio di Pescara e alla Link campus university dell'ex ministro democristiano Enzo Scotti: «La distinzione tra destra e sinistra è definitivamente saltata sul tema della moneta e della sovranità. Su questo terreno, i vecchi liberali come Luigi Einaudi, i repubblicani come Ugo La Malfa, i comunisti come Enrico Berlinguer sarebbero tutti dalla stessa parte, a tutela dell'interesse nazionale. Io sono keynesiano perché difendo l'idea dello Stato a garanzia del bene pubblico. Perché voglio tutelare gli interessi del popolo contro quelli delle élites». Poi ride: «Se io fossi stato uno del sistema non avrei potuto sostenere queste tesi. Se avessi dovuto campare con il lavoro universitario mi avrebbero già fucilato». Luca Telese <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perfino-la-germania-ha-un-progetto-per-abbandonare-la-moneta-unica-2580100077.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="particle-2" data-post-id="2580100077" data-published-at="1765810389" data-use-pagination="False"> Mancava soltanto un tassello per far partire la XVIII legislatura e rendere pienamente operativi Camera e Senato. E così, manuale Cencelli alla mano (anche se a Montecitorio c'è un leggero predominio dei grillini per effetto della grandezza dei gruppi parlamentari), ieri sono stati nominati i presidenti, i vice e i segretari delle 14 commissioni permanenti, equamente distribuiti tra Lega e Movimento 5 stelle. Tra i 28 presidenti, dieci sono alla prima esperienza in Parlamento, alcuni erano stati indicati da Luigi Di Maio per entrare nel governo ma alla fine erano stati scavalcati. Di particolare rilievo gli incarichi affidati ai leghisti Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai, responsabili di due cruciali commissioni economiche, strategiche perché esaminano tutti i provvedimenti finanziari, compresa la legge di bilancio. Alla Camera l'economista Claudio Borghi Aquilini, fedelissimo di Matteo Salvini, è stato scelto come presidente della commissione bilancio, mentre la pasionaria pentastellata Carla Ruocco, commercialista e funzionario tributario, già esponente del direttorio del Movimento e vicepresidente della commissione nella scorsa legislatura, guiderà la commissione finanze. Al Senato il leghista Alberto Bagnai è stato eletto presidente della commissione finanze, mentre il grillino Daniele Pesco, che lo scorso anno lavorò al dossier banche, sarà a capo del bilancio. Alle commissioni affari costituzionali, quelle che danno i pareri di costituzionalità su leggi e riforme istituzionali come la legge elettorale, vanno alla Camera il pentastellato Giuseppe Brescia, in passato anche capogruppo, e al Senato Stefano Borghesi della Lega. Per le commissioni giustizia (capitolo clou del contratto di governo) sono stati nominati alla Camera la grillina Giulia Sarti e al Senato Andrea Ostellari, avvocato padovano della Lega, noto per il disegno di legge sulla legittima difesa. La commissione lavoro avrà come presidenti Andrea Giaccone (ex assessore all'Urbanista del comune di Asti e segretario provinciale della Lega) alla Camera, e la grillina Nunzia Catalfo, prima firmataria del disegno di legge sul reddito di cittadinanza, al Senato. La commissione industria, commercio e turismo del Senato sarà presieduta dall'ex capogruppo 5 stelle Gianni Girotto, che ne era stato membro nella scorsa legislatura. Alle attività produttive della Camera andrà la leghista Barbara Saltamartini, ex An poi deputata del Pdl e del Nuovo centrodestra nella scorsa legislatura. Ai lavori pubblici in Senato va Mauro Coltorti, geomorfologo presentato nella lista dei ministri del M5s, mentre alla Camera i lavori pubblici rientrano nelle competenze della commissione Ambiente, presieduta da Alessandro Benvenuto, 31 anni, segretario provinciale della Lega a Torino. Al Senato l'ambiente va alla grillina Vilma Moronese, già componente della commissione nella XVII legislatura. Le commissioni esteri vanno entrambe al M5s, con l'ex capogruppo Vito Petrocelli al Senato e la deputata al secondo mandato Marta Grande, esperta di relazioni internazionali, alla Camera (nella commissione ci sarà anche l'ex premier Matteo Renzi). La leghista Donatella Tesei, sindaco di Montefalco, presiederà la commissione difesa al Senato e il rieletto deputato 5 stelle Gianluca Rizzo quella della Camera. Il senatore M5s Ettore Licheri guiderà la commissione delle politiche Ue al Senato, mentre il suo omologo a Montecitorio sarà Sergio Battelli, anche lui grillino. Al chirurgo e docente universitario dei 5 stelle Pierpaolo Sileri va la commissione sanità del Senato, mentre Marialucia Lorefice, al secondo mandato con il M5s, presiederà la commissione affari sociali a Montecitorio. Alessandro Morelli, ex capogruppo della Lega nel Consiglio comunale di Milano, presiederà la commissione trasporti alla Camera. A Montecitorio alla commissione agricoltura è stato eletto il pentastellato, già deputato nella scorsa legislatura, Filippo Gallinella, mentre Giampaolo Vallardi del Carroccio presiederà quella del Senato. Alla guida della commissione istruzione di Palazzo Madama va il responsabile scuola della Lega, Mario Pittoni, mentre il grillino Luigi Gallo è stato eletto presidente della commissione cultura della Camera. Ancora da definire la questione delle commissioni bicamerali di garanzia: Copasir, Antimafia e Vigilanza Rai, la cui presidenza spetta alle opposizioni (Pd, Fi e Fdi). Fratelli d'Italia punterebbe al Copasir, ambito anche dal Pd per Lorenzo Guerini; per la Vigilanza quasi certo il nome del forzista Maurizio Gasparri. Sarina Biraghi
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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