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2018-06-22
«Perfino la Germania ha un progetto per abbandonare la moneta unica»
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Mentre Angela Merkel è alla prese con la pesante questione migranti, che rischia di farla cadere e di condizionare la traballante costruzione europea, La Verità ha incontrato a Roma l'avvocato Bepi Pezzuli, presidente di Select Milano (organizzazione che ha l'obiettivo di rappresentare gli interessi italiani Oltremanica e dialogare con i rappresentanti della City di Londra), che ha rivelato l'esistenza di un presunto «piano B della Germania per uscire dall'euro».
Si tratta di un piano conosciuto da quanti operano nei marcati dei capitali. L'Ifo - l'Institute for economic research, il think tank conservatore vicino alla Cdu - ne sta parlando apertamente, e il piano B tedesco per l'uscita dall'euro è legato al tema di Target 2, cioè il sistema di pagamento intraeuropeo che gestisce la liquidità degli scambi nell'area euro. In Target 2, mentre l'Italia ha un saldo negativo, con un debito di circa 400 miliardi, la Germania ha un saldo attivo di 900 miliardi, quindi, in caso di crisi nella periferia dell'Eurozona o di crisi sovrane dell'Italia, questo credito di 900 miliardi tedesco verrebbe messo a rischio. Di conseguenza una delle ipotesi studiate dall'Ifo è appunto quella dell'uscita dall'euro, con relativo pagamento del saldo attivo di crediti che altrimenti andrebbero persi.
Se però fosse l'Italia a uscire prima dall'euro, la Germania ci rimetterebbe?
«Beh, in quel caso avrebbe da richiedere il credito all'Italia, ma se fosse la Germania a uscire prima, i saldi diverrebbero immediatamente pagabili».
Allora è questo il nodo fondamentale della questione?
«Su questo c'è stato addirittura l'inizio di un incidente diplomatico, poiché Mario Draghi (presidente della Bce ndr) aveva dichiarato, salvo poi fare marcia indietro, che in caso di uscita dall'euro i saldi di Target 2 diverrebbero immediatamente esigibili e liquidabili cash. A quel punto parte della stampa anglosassone rilevò che così si dava un incentivo a uscire dall'euro a Germania e Olanda che sono i grandi creditori nel sistema di Target 2».
Mario Draghi ha fatto marcia indietro, ma la norma è restata e quindi l'uscita dall'euro non è più un tabù?
«No, non lo è, tanto che la Germania sta lavorando per il drafting, cioè per una norma che possa essere inserita in quelle europee e disciplinare con modalità molto precise l'uscita di un Paese dall'euro».
Da quanto la Germania sta lavorando sul piano B?
«In realtà la Germania non è mai stata un avvocato dell'euro, nel senso che è stato voluto fortemente dall'allora cancelliere Helmut Kohl, che per poterlo ottenere dovette addirittura licenziare due banchieri centrali della Deutsche Bundesbank. La Germania infatti aveva sempre premuto per una sorta di “serpente monetario" con delle bande di flessibilità diverse da quelle degli anni Ottanta».
E chi spinse per l'euro?
«La Francia, perché dopo la riunificazione tedesca non si fece la federazione tra le due Germanie come voleva Parigi, ma si fece la riunificazione in uno Stato unico. Per pagare gli alti costi della riunificazione tedesca ed evitare l'iperinflazione nei lander (gli Stati federali, ndr) dell'Est, la Bundesbank portò i tassi di interesse all'11% dalla sera alla mattina, e quindi espulse dal sistema monetario europeo le due economie meno integrate con l'Ue, che erano l'Italia con la lira e l'Inghilterra con la sterlina. Per evitare che la Germania manipolasse i tassi di interesse di nuovo e contagiasse tutta l'Europa, la Francia insistette per fare la moneta unica».
Nel 2008, dopo la crisi, le cose sono un po' cambiate per la Germania?
«Sì, perché fino al 2008 la Germania era il grande malato d'Europa, poi con il governo Schröder si fecero riforme strutturali profonde e da allora la Germania è impegnata in una politica economica ferocemente mercantilistica che ha generato un grande surplus di bilancio. Gli squilibri da esso determinati cominciano a mordere anche la Germania medesima, perché il Paese non ha una domanda interna, non ha inflazione, i salari sono bassi, non ci sono investimenti nelle infrastrutture, non ci sono gli upgrade di tecnologia e quindi questo stato di squilibrio danneggia anche la Germania».
Quali sono i motivi?
«Uno è che Mario Draghi mantiene una politica di tassi negativi e sta di fatto danneggiando il risparmio privato tedesco. La banche tedesche hanno in pancia tanto risparmio tedesco per via del surplus, quindi l'euro per la Germania è un problema».
Alla luce di tutto questo, cosa potrebbe accadere in Europa?
«Le due economie che in questo momento hanno un problema con l'euro sono l'Italia e la Germania per motivi opposti. La Germania ha un problema più grosso, poiché per ragioni geopolitiche la Merkel è andata allo strappo con Donald Trump e con gli Stati Uniti, ed è in corso una guerra commerciale. La Casa Bianca, soprattutto il consigliere per il commercio internazionale Peter Navarro, già da tempo si lamenta dello stato dei rapporti commerciali e anno su anno si aggiungono circa 60 miliardi di deficit alle partite commerciali tra Usa e Berlino».
Come se ne esce?
«Washington ha suggerito una ricetta per la Germania: aumentare i salari, produrre politiche inflattive, fare maggiori investimenti pubblici per le infrastrutture, ma la Germania sembra non voler sentire. Anzi, al G7 di Messina la Merkel ha dichiarato che “sono finiti i tempi in cui l'Europa poteva contare sull'alleato americano, adesso noi dobbiamo guardare al mondo con occhi diversi". Questo per dire che la cancelliera sta giocando altre partire, che non necessariamente comprendono gli Stati Uniti».
Quali partite?
«La prima riguarda Nord stream, il gasdotto con la Russia che renderebbe la Germania il terminale per la distribuzione energetica in Europa. Come è evidente, qualcosa sta cambiando, ma nel frattempo l'Europa, intesa come Unione europea, non sta reagendo».
E l'Italia?
«Facendo parte della periferia dell'Eurozona, non può, essendo ingabbiata com'è nell'euro, produrre quelle riforme strutturali che necessitano della leva della flessibilità per rendere il Paese di nuovo competitivo».
In occasione della presentazione in Senato del suo libro L'altra Brexit (edizioni Milano Finanza), il sottosegretario ai Trasporti e alle infrastrutture Armando Siri ha parlato di un «sentimento atlantico» che il nostro Paese condivide con Gran Bretagna e Stati Uniti e, commentando l'uscita inglese dall'Unione europea, ha detto con una battuta: «Dopo la Brexit non è morto nessuno»…
«Concordo con Siri e aggiungo che la posizione internazionale dell'Italia, in ogni caso, non è in discussione. L'alleato storico dell'Italia è e resta l'America, ed esiste una condivisione di interessi con Londra. Se esiste un progetto di Eurasia che in qualche misura cambia il ruolo della Russia nei rapporti internazionali, questo è un ruolo che va perseguito dalla comunità degli Stati internazionali e non da uno Stato in maniera individuale, strappando con gli alleati storici».
Bepi Pezzulli
«L’area euro salterà. L’Italia ha il diritto di difendere sé stessa con un piano B»
Nel maggio del 2018 le cancellerie di tutta Europa discutono di un saggio pubblicato da un (fino ad allora) minuscolo sito di analisi. Il sito si chiama Scenarieconomici.it, ed è stato fondato, cinque anni prima, da un gruppo di sei amici tutti professori o esperti di economia. In quel mese Scenari passa da un record di 50.000 a 500.000 visite. Arrivano utenti da tutti i continenti del pianeta. Accorrono tutti per legge un lungo saggio - passa alla storia come «il piano B» - in cui si spiega come l'Italia potrebbe uscire dall'euro in un fine settimana. Inutile dire che il saggio, a più mani, è stato curato dall'animatore del sito, Antonio Rinaldi, insieme con amici autori. Gli chiedo: «Chi finanzia Scenari?». Lui scoppia a ridere: «Come chi? Noi». Chi paga i costi dei convegni. E lui: «Noi». Gli dico: «Non ci credo». E lui: «Caro Luca, questo sito, che ha avuto 17.000 attacchi o intrusioni informatiche, è gestito da un nostro amico che chiede come unico rimborso per le spese sostenute 750 euro l'anno. Quando facciamo un convegno, invece, mano alla saccoccia (in romanesco è il portafoglio, ndr) e quello che c'è da pagare si divide in quote uguali».
Pare incredibile ma il gruppo di professori e studiosi eccentrici e marginali, in questi cinque anni, e con questi due unici strumenti di comunicazione, è diventato il pensatoio di uno dei principali partiti di governo, il luogo di un pensiero egemone. Se provochi Rinaldi, su questi temi, minimizza. Ti spiega che loro sostengono tesi perfettamente assennate e razionali. Ad esempio l'incompatibilità e l'illegittimità del fiscal compact. Oppure il chiodo fisso della sovranità: «La nostra idea è semplicemente quella che bisogna rafforzare l'Italia per darle un giusto ruolo. La costruzione europea non può resistere con un'Italia debole. I veri europeisti siamo noi».
I no euro nel giugno del 2018 hanno trovato il conforto di una firma importante come Milena Gabanelli che ha scatenato un putiferio nella rete, sposando le loro tesi sull'insostenibilità del regime dei cambi. Le istituzioni nazionali - dicono - devono essere messe in grado di difendere il Paese. Mentre, sul famoso piano B, Rinaldi dice: «Se ci fosse un attacco militare pensi che non serva un piano di difesa? Sul piano monetario è la stessa cosa. È un rischio eventuale che deve essere calcolato». Dicono che un piano programmato in tre giorni è sospetto e furtivo. Rinaldi sorride ancora: «Non ho mai visto un piano di difesa pensato per svilupparsi nel corso di mesi». A lanciare la necessità di dotarsi di un piano B, ovviamente, è Paolo Savona, che lo ha spiegato con questo esempio: «Nessuno rimprovererebbe un progettista di navi per aver previsto le scialuppe a bordo. Nessuno direbbe a questo progettista che si augura il naufragio perché immagina una via di salvezza dalla catastrofe». Oggi Rinaldi è ancora più pessimista: «Temo che nel 99% delle possibilità ci sarà una rottura dell'euro per via di una nuova crisi monetaria dell'area euro, non per decisione autonoma dell'Italia». Se lo accusi di essere anti tedesco il professore sorride. Al contrario di molti economisti filomerkeliani lui la lingua di Johann Wolfgang Goethe la parla a casa: sua moglie è tedesca e per metà lo sono i suoi figli, Rodolfo e Antonio. «Proprio perché conosco bene i tedeschi quando vado in Germania», ripete Rinaldi, «non voglio essere considerato un parente povero. La nostra storia ce lo impone».
Rinaldi teme che uno scossone arriverà dalla fine della politica economica inaugurata da Mario Draghi alla Bce: «Se esiste il Qe», spiega, «vuol dire che la costituzione monetaria è una struttura instabile, che non riesce a trovare un equilibrio».
Per Rinaldi l'Italia è un malato con la flebo che continua a credere nel medico che sbaglia le diagnosi e che non gli spiega l'origine del suo male. Il piano B serve - sostiene - «perché ci saranno momenti di tensione».
Il nodo a suo avviso è tutto qui: «Tassi diversi e meccanismi di redistribuzione diseguali fanno sì che le disuguaglianze si allarghino. Le due velocità dell'Europa producono aree sempre più ricche e aree sempre più povere. Se non si corregge questo congegno siamo nei guai».
Rinaldi dice di aver iniziato il suo percorso euroscettico nel 2011, contemplando l'immagine degli anziani che frugavano nei cassonetti. E aggiunge di essere orgoglioso di essere considerato «pazzo e cialtrone» dai bocconiani dell'era Monti: «Sono ottusi, tutti uguali, sembrano fatti con lo stampino».
Oggi insegna finanza aziendale all'università Gabriele D'Annunzio di Pescara e alla Link campus university dell'ex ministro democristiano Enzo Scotti: «La distinzione tra destra e sinistra è definitivamente saltata sul tema della moneta e della sovranità. Su questo terreno, i vecchi liberali come Luigi Einaudi, i repubblicani come Ugo La Malfa, i comunisti come Enrico Berlinguer sarebbero tutti dalla stessa parte, a tutela dell'interesse nazionale. Io sono keynesiano perché difendo l'idea dello Stato a garanzia del bene pubblico. Perché voglio tutelare gli interessi del popolo contro quelli delle élites». Poi ride: «Se io fossi stato uno del sistema non avrei potuto sostenere queste tesi. Se avessi dovuto campare con il lavoro universitario mi avrebbero già fucilato».
Luca Telese
Continua a leggereRiduci
Il capo di Select Milano, Bepi Pezzulli: «Con Target 2, il nuovo sistema di pagamento intraeuropeo, Berlino ha paura di perdere 900 miliardi. Per questo il think thank vicino al partito della Merkel studia una via di fuga».Antonio Rinaldi, fondatore di Scenarieconomici.it, sito che ha ispiratola Lega: «Malati in mano a dottori che sbagliano la diagnosi».Claudio Borghi Aquilini conquista la poltrona del bilancio alla Camera. Ancora niente nomine per le bicamerali di garanzia, che spettano alle opposizioni. Il Pd vuole i servizi segreti, Forza Italia la Rai.Lo speciale contiene tre articoliMentre Angela Merkel è alla prese con la pesante questione migranti, che rischia di farla cadere e di condizionare la traballante costruzione europea, La Verità ha incontrato a Roma l'avvocato Bepi Pezzuli, presidente di Select Milano (organizzazione che ha l'obiettivo di rappresentare gli interessi italiani Oltremanica e dialogare con i rappresentanti della City di Londra), che ha rivelato l'esistenza di un presunto «piano B della Germania per uscire dall'euro». Si tratta di un piano conosciuto da quanti operano nei marcati dei capitali. L'Ifo - l'Institute for economic research, il think tank conservatore vicino alla Cdu - ne sta parlando apertamente, e il piano B tedesco per l'uscita dall'euro è legato al tema di Target 2, cioè il sistema di pagamento intraeuropeo che gestisce la liquidità degli scambi nell'area euro. In Target 2, mentre l'Italia ha un saldo negativo, con un debito di circa 400 miliardi, la Germania ha un saldo attivo di 900 miliardi, quindi, in caso di crisi nella periferia dell'Eurozona o di crisi sovrane dell'Italia, questo credito di 900 miliardi tedesco verrebbe messo a rischio. Di conseguenza una delle ipotesi studiate dall'Ifo è appunto quella dell'uscita dall'euro, con relativo pagamento del saldo attivo di crediti che altrimenti andrebbero persi. Se però fosse l'Italia a uscire prima dall'euro, la Germania ci rimetterebbe? «Beh, in quel caso avrebbe da richiedere il credito all'Italia, ma se fosse la Germania a uscire prima, i saldi diverrebbero immediatamente pagabili». Allora è questo il nodo fondamentale della questione?«Su questo c'è stato addirittura l'inizio di un incidente diplomatico, poiché Mario Draghi (presidente della Bce ndr) aveva dichiarato, salvo poi fare marcia indietro, che in caso di uscita dall'euro i saldi di Target 2 diverrebbero immediatamente esigibili e liquidabili cash. A quel punto parte della stampa anglosassone rilevò che così si dava un incentivo a uscire dall'euro a Germania e Olanda che sono i grandi creditori nel sistema di Target 2». Mario Draghi ha fatto marcia indietro, ma la norma è restata e quindi l'uscita dall'euro non è più un tabù?«No, non lo è, tanto che la Germania sta lavorando per il drafting, cioè per una norma che possa essere inserita in quelle europee e disciplinare con modalità molto precise l'uscita di un Paese dall'euro». Da quanto la Germania sta lavorando sul piano B?«In realtà la Germania non è mai stata un avvocato dell'euro, nel senso che è stato voluto fortemente dall'allora cancelliere Helmut Kohl, che per poterlo ottenere dovette addirittura licenziare due banchieri centrali della Deutsche Bundesbank. La Germania infatti aveva sempre premuto per una sorta di “serpente monetario" con delle bande di flessibilità diverse da quelle degli anni Ottanta». E chi spinse per l'euro?«La Francia, perché dopo la riunificazione tedesca non si fece la federazione tra le due Germanie come voleva Parigi, ma si fece la riunificazione in uno Stato unico. Per pagare gli alti costi della riunificazione tedesca ed evitare l'iperinflazione nei lander (gli Stati federali, ndr) dell'Est, la Bundesbank portò i tassi di interesse all'11% dalla sera alla mattina, e quindi espulse dal sistema monetario europeo le due economie meno integrate con l'Ue, che erano l'Italia con la lira e l'Inghilterra con la sterlina. Per evitare che la Germania manipolasse i tassi di interesse di nuovo e contagiasse tutta l'Europa, la Francia insistette per fare la moneta unica».Nel 2008, dopo la crisi, le cose sono un po' cambiate per la Germania?«Sì, perché fino al 2008 la Germania era il grande malato d'Europa, poi con il governo Schröder si fecero riforme strutturali profonde e da allora la Germania è impegnata in una politica economica ferocemente mercantilistica che ha generato un grande surplus di bilancio. Gli squilibri da esso determinati cominciano a mordere anche la Germania medesima, perché il Paese non ha una domanda interna, non ha inflazione, i salari sono bassi, non ci sono investimenti nelle infrastrutture, non ci sono gli upgrade di tecnologia e quindi questo stato di squilibrio danneggia anche la Germania».Quali sono i motivi?«Uno è che Mario Draghi mantiene una politica di tassi negativi e sta di fatto danneggiando il risparmio privato tedesco. La banche tedesche hanno in pancia tanto risparmio tedesco per via del surplus, quindi l'euro per la Germania è un problema». Alla luce di tutto questo, cosa potrebbe accadere in Europa?«Le due economie che in questo momento hanno un problema con l'euro sono l'Italia e la Germania per motivi opposti. La Germania ha un problema più grosso, poiché per ragioni geopolitiche la Merkel è andata allo strappo con Donald Trump e con gli Stati Uniti, ed è in corso una guerra commerciale. La Casa Bianca, soprattutto il consigliere per il commercio internazionale Peter Navarro, già da tempo si lamenta dello stato dei rapporti commerciali e anno su anno si aggiungono circa 60 miliardi di deficit alle partite commerciali tra Usa e Berlino». Come se ne esce?«Washington ha suggerito una ricetta per la Germania: aumentare i salari, produrre politiche inflattive, fare maggiori investimenti pubblici per le infrastrutture, ma la Germania sembra non voler sentire. Anzi, al G7 di Messina la Merkel ha dichiarato che “sono finiti i tempi in cui l'Europa poteva contare sull'alleato americano, adesso noi dobbiamo guardare al mondo con occhi diversi". Questo per dire che la cancelliera sta giocando altre partire, che non necessariamente comprendono gli Stati Uniti».Quali partite?«La prima riguarda Nord stream, il gasdotto con la Russia che renderebbe la Germania il terminale per la distribuzione energetica in Europa. Come è evidente, qualcosa sta cambiando, ma nel frattempo l'Europa, intesa come Unione europea, non sta reagendo».E l'Italia? «Facendo parte della periferia dell'Eurozona, non può, essendo ingabbiata com'è nell'euro, produrre quelle riforme strutturali che necessitano della leva della flessibilità per rendere il Paese di nuovo competitivo». In occasione della presentazione in Senato del suo libro L'altra Brexit (edizioni Milano Finanza), il sottosegretario ai Trasporti e alle infrastrutture Armando Siri ha parlato di un «sentimento atlantico» che il nostro Paese condivide con Gran Bretagna e Stati Uniti e, commentando l'uscita inglese dall'Unione europea, ha detto con una battuta: «Dopo la Brexit non è morto nessuno»…«Concordo con Siri e aggiungo che la posizione internazionale dell'Italia, in ogni caso, non è in discussione. L'alleato storico dell'Italia è e resta l'America, ed esiste una condivisione di interessi con Londra. Se esiste un progetto di Eurasia che in qualche misura cambia il ruolo della Russia nei rapporti internazionali, questo è un ruolo che va perseguito dalla comunità degli Stati internazionali e non da uno Stato in maniera individuale, strappando con gli alleati storici». Bepi Pezzulli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perfino-la-germania-ha-un-progetto-per-abbandonare-la-moneta-unica-2580100077.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="larea-euro-saltera-litalia-ha-il-diritto-di-difendere-se-stessa-con-un-piano-b" data-post-id="2580100077" data-published-at="1765097546" data-use-pagination="False"> «L’area euro salterà. L’Italia ha il diritto di difendere sé stessa con un piano B» Nel maggio del 2018 le cancellerie di tutta Europa discutono di un saggio pubblicato da un (fino ad allora) minuscolo sito di analisi. Il sito si chiama Scenarieconomici.it, ed è stato fondato, cinque anni prima, da un gruppo di sei amici tutti professori o esperti di economia. In quel mese Scenari passa da un record di 50.000 a 500.000 visite. Arrivano utenti da tutti i continenti del pianeta. Accorrono tutti per legge un lungo saggio - passa alla storia come «il piano B» - in cui si spiega come l'Italia potrebbe uscire dall'euro in un fine settimana. Inutile dire che il saggio, a più mani, è stato curato dall'animatore del sito, Antonio Rinaldi, insieme con amici autori. Gli chiedo: «Chi finanzia Scenari?». Lui scoppia a ridere: «Come chi? Noi». Chi paga i costi dei convegni. E lui: «Noi». Gli dico: «Non ci credo». E lui: «Caro Luca, questo sito, che ha avuto 17.000 attacchi o intrusioni informatiche, è gestito da un nostro amico che chiede come unico rimborso per le spese sostenute 750 euro l'anno. Quando facciamo un convegno, invece, mano alla saccoccia (in romanesco è il portafoglio, ndr) e quello che c'è da pagare si divide in quote uguali». Pare incredibile ma il gruppo di professori e studiosi eccentrici e marginali, in questi cinque anni, e con questi due unici strumenti di comunicazione, è diventato il pensatoio di uno dei principali partiti di governo, il luogo di un pensiero egemone. Se provochi Rinaldi, su questi temi, minimizza. Ti spiega che loro sostengono tesi perfettamente assennate e razionali. Ad esempio l'incompatibilità e l'illegittimità del fiscal compact. Oppure il chiodo fisso della sovranità: «La nostra idea è semplicemente quella che bisogna rafforzare l'Italia per darle un giusto ruolo. La costruzione europea non può resistere con un'Italia debole. I veri europeisti siamo noi». I no euro nel giugno del 2018 hanno trovato il conforto di una firma importante come Milena Gabanelli che ha scatenato un putiferio nella rete, sposando le loro tesi sull'insostenibilità del regime dei cambi. Le istituzioni nazionali - dicono - devono essere messe in grado di difendere il Paese. Mentre, sul famoso piano B, Rinaldi dice: «Se ci fosse un attacco militare pensi che non serva un piano di difesa? Sul piano monetario è la stessa cosa. È un rischio eventuale che deve essere calcolato». Dicono che un piano programmato in tre giorni è sospetto e furtivo. Rinaldi sorride ancora: «Non ho mai visto un piano di difesa pensato per svilupparsi nel corso di mesi». A lanciare la necessità di dotarsi di un piano B, ovviamente, è Paolo Savona, che lo ha spiegato con questo esempio: «Nessuno rimprovererebbe un progettista di navi per aver previsto le scialuppe a bordo. Nessuno direbbe a questo progettista che si augura il naufragio perché immagina una via di salvezza dalla catastrofe». Oggi Rinaldi è ancora più pessimista: «Temo che nel 99% delle possibilità ci sarà una rottura dell'euro per via di una nuova crisi monetaria dell'area euro, non per decisione autonoma dell'Italia». Se lo accusi di essere anti tedesco il professore sorride. Al contrario di molti economisti filomerkeliani lui la lingua di Johann Wolfgang Goethe la parla a casa: sua moglie è tedesca e per metà lo sono i suoi figli, Rodolfo e Antonio. «Proprio perché conosco bene i tedeschi quando vado in Germania», ripete Rinaldi, «non voglio essere considerato un parente povero. La nostra storia ce lo impone». Rinaldi teme che uno scossone arriverà dalla fine della politica economica inaugurata da Mario Draghi alla Bce: «Se esiste il Qe», spiega, «vuol dire che la costituzione monetaria è una struttura instabile, che non riesce a trovare un equilibrio». Per Rinaldi l'Italia è un malato con la flebo che continua a credere nel medico che sbaglia le diagnosi e che non gli spiega l'origine del suo male. Il piano B serve - sostiene - «perché ci saranno momenti di tensione». Il nodo a suo avviso è tutto qui: «Tassi diversi e meccanismi di redistribuzione diseguali fanno sì che le disuguaglianze si allarghino. Le due velocità dell'Europa producono aree sempre più ricche e aree sempre più povere. Se non si corregge questo congegno siamo nei guai». Rinaldi dice di aver iniziato il suo percorso euroscettico nel 2011, contemplando l'immagine degli anziani che frugavano nei cassonetti. E aggiunge di essere orgoglioso di essere considerato «pazzo e cialtrone» dai bocconiani dell'era Monti: «Sono ottusi, tutti uguali, sembrano fatti con lo stampino». Oggi insegna finanza aziendale all'università Gabriele D'Annunzio di Pescara e alla Link campus university dell'ex ministro democristiano Enzo Scotti: «La distinzione tra destra e sinistra è definitivamente saltata sul tema della moneta e della sovranità. Su questo terreno, i vecchi liberali come Luigi Einaudi, i repubblicani come Ugo La Malfa, i comunisti come Enrico Berlinguer sarebbero tutti dalla stessa parte, a tutela dell'interesse nazionale. Io sono keynesiano perché difendo l'idea dello Stato a garanzia del bene pubblico. Perché voglio tutelare gli interessi del popolo contro quelli delle élites». Poi ride: «Se io fossi stato uno del sistema non avrei potuto sostenere queste tesi. Se avessi dovuto campare con il lavoro universitario mi avrebbero già fucilato». Luca Telese <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/perfino-la-germania-ha-un-progetto-per-abbandonare-la-moneta-unica-2580100077.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="particle-2" data-post-id="2580100077" data-published-at="1765097546" data-use-pagination="False"> Mancava soltanto un tassello per far partire la XVIII legislatura e rendere pienamente operativi Camera e Senato. E così, manuale Cencelli alla mano (anche se a Montecitorio c'è un leggero predominio dei grillini per effetto della grandezza dei gruppi parlamentari), ieri sono stati nominati i presidenti, i vice e i segretari delle 14 commissioni permanenti, equamente distribuiti tra Lega e Movimento 5 stelle. Tra i 28 presidenti, dieci sono alla prima esperienza in Parlamento, alcuni erano stati indicati da Luigi Di Maio per entrare nel governo ma alla fine erano stati scavalcati. Di particolare rilievo gli incarichi affidati ai leghisti Claudio Borghi Aquilini e Alberto Bagnai, responsabili di due cruciali commissioni economiche, strategiche perché esaminano tutti i provvedimenti finanziari, compresa la legge di bilancio. Alla Camera l'economista Claudio Borghi Aquilini, fedelissimo di Matteo Salvini, è stato scelto come presidente della commissione bilancio, mentre la pasionaria pentastellata Carla Ruocco, commercialista e funzionario tributario, già esponente del direttorio del Movimento e vicepresidente della commissione nella scorsa legislatura, guiderà la commissione finanze. Al Senato il leghista Alberto Bagnai è stato eletto presidente della commissione finanze, mentre il grillino Daniele Pesco, che lo scorso anno lavorò al dossier banche, sarà a capo del bilancio. Alle commissioni affari costituzionali, quelle che danno i pareri di costituzionalità su leggi e riforme istituzionali come la legge elettorale, vanno alla Camera il pentastellato Giuseppe Brescia, in passato anche capogruppo, e al Senato Stefano Borghesi della Lega. Per le commissioni giustizia (capitolo clou del contratto di governo) sono stati nominati alla Camera la grillina Giulia Sarti e al Senato Andrea Ostellari, avvocato padovano della Lega, noto per il disegno di legge sulla legittima difesa. La commissione lavoro avrà come presidenti Andrea Giaccone (ex assessore all'Urbanista del comune di Asti e segretario provinciale della Lega) alla Camera, e la grillina Nunzia Catalfo, prima firmataria del disegno di legge sul reddito di cittadinanza, al Senato. La commissione industria, commercio e turismo del Senato sarà presieduta dall'ex capogruppo 5 stelle Gianni Girotto, che ne era stato membro nella scorsa legislatura. Alle attività produttive della Camera andrà la leghista Barbara Saltamartini, ex An poi deputata del Pdl e del Nuovo centrodestra nella scorsa legislatura. Ai lavori pubblici in Senato va Mauro Coltorti, geomorfologo presentato nella lista dei ministri del M5s, mentre alla Camera i lavori pubblici rientrano nelle competenze della commissione Ambiente, presieduta da Alessandro Benvenuto, 31 anni, segretario provinciale della Lega a Torino. Al Senato l'ambiente va alla grillina Vilma Moronese, già componente della commissione nella XVII legislatura. Le commissioni esteri vanno entrambe al M5s, con l'ex capogruppo Vito Petrocelli al Senato e la deputata al secondo mandato Marta Grande, esperta di relazioni internazionali, alla Camera (nella commissione ci sarà anche l'ex premier Matteo Renzi). La leghista Donatella Tesei, sindaco di Montefalco, presiederà la commissione difesa al Senato e il rieletto deputato 5 stelle Gianluca Rizzo quella della Camera. Il senatore M5s Ettore Licheri guiderà la commissione delle politiche Ue al Senato, mentre il suo omologo a Montecitorio sarà Sergio Battelli, anche lui grillino. Al chirurgo e docente universitario dei 5 stelle Pierpaolo Sileri va la commissione sanità del Senato, mentre Marialucia Lorefice, al secondo mandato con il M5s, presiederà la commissione affari sociali a Montecitorio. Alessandro Morelli, ex capogruppo della Lega nel Consiglio comunale di Milano, presiederà la commissione trasporti alla Camera. A Montecitorio alla commissione agricoltura è stato eletto il pentastellato, già deputato nella scorsa legislatura, Filippo Gallinella, mentre Giampaolo Vallardi del Carroccio presiederà quella del Senato. Alla guida della commissione istruzione di Palazzo Madama va il responsabile scuola della Lega, Mario Pittoni, mentre il grillino Luigi Gallo è stato eletto presidente della commissione cultura della Camera. Ancora da definire la questione delle commissioni bicamerali di garanzia: Copasir, Antimafia e Vigilanza Rai, la cui presidenza spetta alle opposizioni (Pd, Fi e Fdi). Fratelli d'Italia punterebbe al Copasir, ambito anche dal Pd per Lorenzo Guerini; per la Vigilanza quasi certo il nome del forzista Maurizio Gasparri. Sarina Biraghi
Raffaele Speranzon (Imagoeconomica)
Nel processo appena conclusosi avevano chiesto quasi 3 milioni, gliene sono stati riconosciuti 480.000. Roggero gliene aveva già pagati 300.000, racimolati svendendo due appartamenti di famiglia. A questi vanno aggiunti altri 300.000 euro per le spese legali. Il senatore di Fratelli d’Italia, Raffaele Speranzon, e altri 18 colleghi dello stesso partito, a luglio avevano presentato un disegno di legge: niente più risarcimenti a chi commette quel genere di reati.
Onorevole Speranzon, il suo disegno di legge intende diminuire o azzerare il risarcimento dovuto all’aggressore in caso di eccesso colposo di legittima difesa. A che punto è?
«Sto aspettando che venga incardinato in commissione, spero che in breve tempo possiamo andare a discussione e approvarlo entro la fine della legislatura».
Il suo obiettivo è quello di colmare una lacuna normativa e ristabilire un criterio di giustizia. Ci spieghi meglio.
«L’obiettivo è quello di evitare che chi ha messo in pericolo qualcuno con violenza e minacce abbia diritto ad un indennizzo. Chi minaccia l’integrità fisica o patrimoniale di un altro individuo deve sapere che, se quell’azione gli andasse male, non riceverebbe un euro di risarcimento».
Potrebbe essere un deterrente.
«Certamente. Qualcuno potrebbe pensare di sistemare la propria famiglia in questo modo: se la rapina mi va bene, porto a casa qualcosa, se mi va male, comunque la mia famiglia otterrebbe un sacco di soldi. Sostanzialmente se non riesco a rapinarlo, lo rapino lo stesso grazie alla legge e quel risarcimento potrebbe addirittura essere superiore a quello che gli avrei potuto rubare. Se il nostro ddl diventasse legge, questo cortocircuito sparirebbe».
Se sei un ladro non puoi chiedere risarcimenti. Sembra una cosa normale.
«Dovrebbe. Se decidi di attentare alla mia incolumità o a quella della mia famiglia o al mio patrimonio, non puoi aver titolo a ricevere alcun risarcimento, anche se l’aggredito ha ecceduto nella sua difesa. La reazione all’offesa di un ladro, un rapinatore o un violentatore, può anche essere eccessiva ma non può dare adito a risarcimenti. Il sistema attuale lo consente, noi vogliamo cancellare questa possibilità».
Poteva servire al povero Roggero?
«Poteva servire se, più coerentemente con i fatti, il giudice, invece di condannarlo per omicidio volontario, lo avesse condannato per eccesso di legittima difesa, un reato più consono a quello che ha fatto».
Invece per il giudice è paragonabile a un assassino.
«Sono andati loro ad aggredirlo nel suo negozio. C’è poi da considerare l’esasperazione di un uomo che era stato rapinato cinque volte, il suo stato psicologico nel lavorare in un contesto come quello, sentendosi continuamente minacciato. Sicuramente ha ecceduto nella legittima difesa, ma certo non è un assassino e non dovrebbe risarcire nessuno. È lui che semmai avrebbe diritto a un ristoro. È lui la vittima».
Ma nel mondo dell’assurdo in cui viviamo, ai familiari di chi muore sul lavoro vanno, sì e no, 12.000 euro; e ai familiari di chi rapina, mezzo milione.
«Una cosa indecente, che dimostra ancor di più la lacuna normativa in ambito civile che va colmata. È la ragione per la quale decisi di presentare questo ddl».
Ma se poi un giudice trasforma un eccesso di legittima difesa in un omicidio volontario plurimo, c’è poco da fare…
«Eh sì, se il magistrato di turno contesta l’omicidio volontario si esce dal confine del ddl. A Roggero non sarebbe servito nemmeno il nostro ddl perché l’interpretazione da parte del giudice di ciò che è accaduto, a nostro avviso sbagliata, lo fa uscire da quel confine».
Cosa c’è dentro quel confine?
«C’è l’eccesso colposo di legittima difesa, per il quale Roggero è giusto che risponda. Non certo per omicidio volontario. Le condizioni psicologiche nelle quali si trovava dovevano portare il giudice a riconoscere solo quella fattispecie di reato».
Non sarebbe il caso di rimettere mano anche alla legge sulla legittima difesa? Non servirebbe un provvedimento che tenesse conto più delle ragioni degli aggrediti che di quelle degli aggressori?
«La riforma è andata in quella direzione, il nostro ddl lo stesso. L’errore nella sentenza sul gioielliere sta alla base. Chi attenta all’incolumità fisica di una persona o al suo patrimonio, deve mettere in conto la possibilità di una reazione anche durissima e fatale nei suoi confronti. Noi sosteniamo che quella reazione non dovrebbe essere sanzionata né dal punto di vista penale, né tanto meno civile».
Uno che reagisce a una rapina finisce in galera per 15 anni e viene condannato a un risarcimento ai parenti di chi lo ha rapinato. Non è pazzesco?
«Chi subisce una rapina vede la propria vita rovinata, indipendentemente dal fatto che la sventi o meno. Noi le leggi le possiamo anche fare, ma serve una cultura giuridica di chi interpreta i fatti, che veda nella difesa dell’aggredito il punto di partenza nella valutazione degli accadimenti».
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Ansa
Così, all’incirca venti case editrici (su oltre 600 espositori, il 3 per cento circa) si sono riunite di fronte agli stand di Bao, che pubblica Zerocalcare e Momo e, dopo un breve discorso programmatico, hanno marciato compatte verso Passaggio al bosco. Immaginiamo il loro stato d’animo: la loro voglia di libertà mentre schiacciano quella altrui; i paragoni con l’Aventino e pure con la lotta partigiana. Si parte, dunque. Si blocca la Nuvola, che ospita a Roma «Più libri più liberi», e si creano disagi agli ospiti. Ma poco importa. Si canta «Bella ciao» e si urla «fuori i fascisti dalla fiera», senza rendersi conto che i primi intolleranti sono loro. Uno dei ragazzi alla testa del mini corteo, non appena arriva di fronte allo stand di Passaggio al bosco, si scontra verbalmente con un signore al quale dice di risolvere la questione fuori (immaginiamo non con una lezione sul Capitale di Marx). Poco prima, Daniele Dell’Orco, fondatore di Idrovolante Edizioni, era rimasto bloccato all’interno del corteo, non proprio una situazione piacevole per una persona finita in mezzo a una campagna stampa d’odio.
Molto rumore per nulla. I soliti slogan, le solite canzoni. Le solite frangette blu fuori moda e i soliti gonnelloni in tartan. Qualche giorno fa, alcune ragazze hanno raggiunto lo stand di Passaggio al bosco e, indicando uno degli ultimi libri pubblicati - Charlie Kirk. La fede, il coraggio e la famiglia, scritto da Gabriele Caramelli - hanno chiesto all’editore: «Ma tu la pensi davvero come lui?». La risposta, che non si sente, avrebbe dovuto essere «no». Perché la destra italiana è molto diversa da quella americana. Eppure, nonostante le differenze, quella casa editrice «nazista» ha deciso di raccontare un personaggio così diverso da sé. Le due ragazze antifasciste avrebbero dovuto sfogliare il libriccino, almeno fino a pagina 14, dove avrebbero potuto leggere queste parole: «Oggi, invece, il suo compito (del volume, ndr) è quello di illustrare l’importanza del dialogo anche tra poli opposti, perché come diceva Charlie: “Quando le persone smettono di parlare, accadono cose brutte”». Che è proprio quello che è successo a lui. E che tanti vorrebbero replicare ancora oggi, come si vede nelle tante dimostrazioni di intolleranza nei confronti di chi viene bollato con l’etichetta «fascista». E così ci troviamo di fronte a un paradosso in cui Marco Scatarzi, l’editore di destra, dice «stiamo continuando a fare il nostro lavoro in piena libertà. Ognuno è libero di criticare, noi continuiamo a svolgere il nostro lavoro» mentre gli altri vorrebbero imporre la censura. «Ciò che pubblichiamo» - prosegue l’editore - «è anche qui esposto, grazie a tutti. Noi rispondiamo col sorriso, siamo una casa editrice con tantissimi autori, tantissimi collaboratori delle più svariate esperienze e facciamo cultura».
Ecco, forse è questo il punto fondamentale. Per decenni, la cultura, specie quella giovanile, è stata dominata dalla sinistra. I testi che andavano di moda arrivavano da lì. Ora qualcosa è cambiato. I ragazzi vogliono sentire anche l’altra campana e, per questo, si avvicinano a questa casa editrice così diversa, dalle copertine pop e dai titoli taglienti. Non ne condividono tutto, forse. Ma sicuramente trovano ciò che è proibito. Come la ristampa di Decima flotilla Mas. Dalle origini all’armistizio di Junio Valerio Borghese. Oppure Il razzismo contro i bianchi. L’inchiesta vietata di François Bousquet, che racconta, con dati alla mano, il fallimento del multiculturalismo in Francia.
Perché l’unico modo oggi per far leggere qualcosa è dire che è vietato. Era successo con Roberto Vannacci, sta succedendo oggi con Passaggio al bosco. Che, nonostante le minacce e i tentativi di censura, resta a «Più libri più liberi». Giustificando così il nome della kermesse.
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l GNL statunitense in sofferenza sui margini. Le raffinerie private cinesi si aggiudicano il petrolio iraniano. Londra tassa le auto elettriche. L’Ue dà l’addio definitivo al gas russo dal 2027.
È vero, ci sono quasi quattro milioni di lavoratori che versano i contributi, ma nel bilancio dell’ente figurano 252.000 percettori di prestazioni a sostegno del reddito e 378.000 pensionati (+ 18,5% rispetto all’anno precedente). Nel primo caso non c’è neppure da discutere: si tratta di immigrati che sono o disoccupati o in mobilità e dunque ricevono un sussidio statale. Nel secondo caso basta leggere le spiegazioni che accompagnano i dati per scoprire che più della metà di quei «pensionati» percepiscono un assegno assistenziale, per un importo medio annuo di poco superiore a 7.000 euro. Di questi 195.000 soggetti, 150.000 sono extracomunitari e 45.000 fanno parte della Ue. L’altro 48,5 per cento di pensionati stranieri che non incassa il sussidio è composto invece prevalentemente da chi beneficia di trattamenti previdenziali sempre a carico della collettività in tutto o in parte. Ovvero pensioni di invalidità, di vecchiaia o destinate ai superstiti. In totale, parliamo di 322.000 persone che godono di un trattamento che non è assistito dalla contropartita di una contribuzione. In altre parole, pagano gli italiani. Qualcuno potrebbe obiettare che a fronte di questi 570.000 assegni che ogni mese escono dalle casse dell’Inps senza che in precedenza siano stati versati i soldi che legittimano la quiescenza ci sono quasi quattro milioni di lavoratori iscritti nei ruoli dell’ente previdenziale. Ma se si scorre il valore delle retribuzioni attuali si scopre che su circa tre milioni e mezzo di dipendenti di imprese private il reddito annuo è di poco superiore a 16.000 euro e dunque il versamento dei contributi è conseguente. Cioè basso. Dunque, non soltanto parliamo di cifre ridotte, ma in futuro, quando andranno in pensione, molti di questi lavoratori più che pagare la pensione agli italiani, avranno bisogno di veder integrare la propria da un sussidio statale. Cioè saranno in parte a carico della collettività e riceveranno l’integrazione al minimo, soprattutto se non potranno vantare una contribuzione quarantennale. Del resto non c’è da stupirsi. Le statistiche dell’Istat parlano chiaro: quando si discute di povertà si scopre che negli anni è leggermente diminuita la quota delle famiglie italiane indigenti, mentre è cresciuta quella dei nuclei di origine straniera. Il 35 per cento degli immigrati con moglie e figli vive in quella che in base al reddito è classificata come povertà assoluta. Dunque è difficile che questa quota di popolazione possa in futuro pagare la pensione ad altri. Più probabile che prima o poi chieda che qualcuno gliela paghi e a questo punto dovrà pensarci lo Stato. Dimenticavo: mentre è abbastanza improbabile che i salari bassi di lavoratori extracomunitari possano rifinanziare le casse dell’Inps (già malmesse per le troppe prestazioni non sorrette da contributi: Alberto Brambilla di Itinerari previdenziali calcolò che oltre quattro milioni di pensionati riceve un assegno che non ha maturato), è invece certo che gran parte degli immigrati beneficia di servizi sociali a carico della fiscalità generale. Che vuol dire? Che l’assistenza sanitaria, quella scolastica e tutti gli altri servizi che lo Stato eroga a favore dei cittadini sono sorretti dalle tasse. Ma chi guadagna poco è praticamente esente da ogni imposizione fiscale e dunque il peso di pensioni, cure ed educazione resta a carico di circa 11 milioni di contribuenti che le imposte le versano regolarmente ogni mese. Sono loro a pagare, altro che gli immigrati.
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