2018-06-18
Per scrivere non serve una trama, la storia viene da sé strada facendo
Un'idea può essere buona, ma quando si inizia a metterla su carta spesso prende tutta un'altra direzione. Un romanzo deve invogliare a voltare pagina anche se non accade nulla. Come nel Deserto dei tartari.Giorgio Manganelli diceva che c'è una condizione indispensabile per scrivere un libro: l'incompetenza. «Ci vuole un incompetente», scriveva, «perché l'opera funzioni. Eccomi qua», aggiungeva, «sono la persona giusta: totalmente irresponsabile e assolutamente squalificato».Ecco, se siete incompetenti, possiamo andare avanti, e se siete competenti in qualche campo, basta che cerchiate di non scrivere di quello, e va bene lo stesso. Dopo, data per assodata l'incompetenza, e ricordato che, per scrivere un libro, le due cose che servono, secondo l'insegnamento di Charles Bukowski, sono «una macchina da scrivere e una sedia», e che è importantissimo, soprattutto, trovare la sedia, tutti i giorni, fatte queste premesse, tutti i metodi son buoni, secondo me. Il mio non è cambiato tanto, nel corso del tempo. Nel senso che i primi libri che ho scritto erano dei libri un po' strani, come mi ha detto un ragazzo che si chiama Giacomo che ho conosciuto quando, alla fine del 1999, mi sono trasferito a Bologna dopo aver pubblicato i primi due libri che ho pubblicato. Questo Giacomo è stato una delle prime persone che ho conosciuto, a Bologna, e, siccome mi aveva conosciuto, aveva letto un libro che avevo scritto io che era uscito in quei giorni, che si chiamava Bassotuba non c'è, e quando mi aveva rivisto mi aveva detto che gli era piaciuto ma l'aveva trovato, appunto, strano, un po' il contrario dei libri di avventura, mi aveva detto. Che nei libri di avvenuta, mi aveva detto Giacomo, tipo I tre moschettieri, ogni pagina ci son dei duelli, delle agnizioni, dei delitti, delle tragedie, e tu volti le pagine perché vuoi vedere cos'altro succede. «Nel tuo romanzo», aveva concluso Giacomo, «tu volti le pagine perché vuoi vedere se finalmente succede qualcosa». Non so se era un complimento, ma io, devo dire, quando Giacomo mi aveva detto questa cosa, ero stato contento. Perché per me, come lettore, la letteratura è quella cosa che ti trasforma in una macchina che volta le pagine. Che poi il libro sia costruito sul tutto o sul niente, è una cosa che io trovo del tutto secondaria, come lettore. Io sono stato un lettore appassionato sia di libri costruiti sul tutto, come Il conte di Montecristo, di Alexandre Dumas, o La cripta dei cappuccini, di Joseph Roth, o Guerra e pace, di Lev Tolstoj, che di libri costruiti sul niente, come La coscienza di Zeno, di Italo Svevo, nel quale succede che uno che vuol smettere di fumare non riesce a smettere di fumare, allora va in analisi e non riesce a finire l'analisi, e per far dispetto al suo analista scrive il libro, o come Il deserto dei tartari di Dino Buzzati, nel quale succede che uno aspetta tanto l'arrivo dei tartari, per tutta la vita, e i tartari non arrivano, e quando lui va in pensione arrivano i tartari, e a lui, tutto sommato, non dispiace neanche tanto, o come il primo spettacolo teatrale che ho visto in francese, al Piccolo teatro di Milano, Aspettando Godot, di Samuel Beckett, dove, com'è noto, la cosa che succede è che Godot non arriva neanche lui, come i tartari. Introduco un altro elemento autobiografico, mi sembra sia utile, e mi sento giustificato dal fatto che, ormai, buona parte della narrativa contemporanea è di un genere chiamato autofiction, che sono quei testi in cui la figura dell'io narrante e dell'autore si possono confondere. Quando la moda dell'autofiction si è diffusa in Italia, una dozzina di anni fa, per via di alcuni romanzi francesi che erano stati tradotti, una scrittrice italiana ha chiesto, su Twitter, se c'era qualche autore italiano che avesse mai praticato questa autofiction, e io, mi ricordo, mi era venuto da scrivere «Dante Alighieri». E non era questo l'elemento autobiografico, quanto il fatto che io, il mio primo romanzo l'ho cominciato a scrivere che avevo 8 anni, ed era un romanzo dove un signore partiva per un lungo viaggio con il suo servitore in seguito a una scommessa. Avevo appena letto il primo romanzo lungo che ho letto, Il giro del mondo in ottanta giorni, e pensavo che i romanzi fossero tutti così, come inizio, e il mio lo scrivevo a penna, e mia mamma me lo batteva a macchina, su dei fogli azzurri, mi ricordo ancora, al tatto, quei fogli azzurri, un po' pelosi, mi piacevano moltissimo, ero molto fiero, e pensavo che mio nonno, che, in casa, era quello che leggeva di più, sarebbe stato fiero anche lui, invece lui, mi ricordo, mi aveva chiesto «Ma tu lo sai, come va a finire?». E io gli avevo detto «No». E lui mi aveva detto «Ah, be', allora…». E io c'ero rimasto così male che non ero più andato avanti e il romanzo successivo l'ho cominciato 25 anni dopo, quando di anni ne avevo 33. E quando l'ho cominciato, non avevo idea di come sarebbe finito, e così per tutti i libri che ho scritto poi dopo, e li ho scritti lo stesso.Non è indispensabile, avere una storia, per scrivere un libro; la storia, o la non storia, la si può trovare anche strada facendo. Una volta ho parlato di questa possibilità di scrivere senza scaletta e senza sapere dove si va a parare con Carlo Lucarelli, che, com'è noto, scrive dei gialli, e lui mi ha raccontato che, il primo romanzo che ha scritto, quando ha cominciato pensava che il colpevole fosse uno, poi, a metà, si è accorto che non era quello, pensava fosse un altro, poco prima della fine si è accorto che non era neanche l'altro era un terzo. Un'idea, anche bella, quando poi la traduci in parole, in frasi, in pause, in dialoghi, in personaggi, diventa tutta un'altra cosa e io, col tempo, ho imparato a cercare di non pensare, ma a sforzarmi di fare, tutti i giorni, quella cosa difficilissima di cui parlava Bukowski, trovare la sedia. Quanto al problema del pubblico, Anton Cechov, a un suo conoscente aveva consigliato di non preoccuparsi, del pubblico. Che tanto, gli aveva detto «per qualsiasi sciocchezza che viene stampata, si trova subito qualcuno disposto a giurare che è un capolavoro». E a un altro conoscente, Ivan Bunin, Cechov aveva confessato: «Secondo me, finito di scrivere un racconto bisognerebbe buttare via l'inizio e la fine. È lì che noi scrittori concentriamo la maggior parte delle bugie». (5. Continua)
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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