2019-08-13
Via subito la legge insana sulla carriera dei magistrati
Non bisogna cambiare la Costituzione per eliminare gli scatti e reintrodurre esami e graduatorie: basta una legge ordinaria. In attesa di provvedimenti più radicali, inizieremmo a scalfire i privilegi delle toghe.Il governo se ne va senza avere riformato la magistratura. Non è stato in grado di europeizzarla, separando le carriere: da un lato, i pm; dall'altro, i giudici. Neanche ci riusciranno i governi prossimi venturi. Le toghe non vogliono, i politici titubano, la Costituzione si oppone e andrebbe cambiata. Non ci sono le condizioni, direbbero i politologi. Ma qualcosa va fatto. Così com'è, l'ordine giudiziario è una palla al piede. Non bastavano i processi lumaca, l'imprevedibilità dei giudizi, la politicizzazione, l'elezione degli ermellini in Parlamento e i disinvolti rientri in carriera. Ora si è aggiunto, non che fosse ignoto, il bagarinaggio dei posti chiave e il suq del Csm, scoperchiato dal caso di Luca Palamara. Infine, peggio di tutto, la «disattenzione» dei giudici minorili che avrebbero avallato, senza approfondire, i ratti dei figli ai genitori. La faccenda diventa politica. È imperativo risarcire i cittadini, la casta giudiziaria non deve ogni volta cadere in piedi. Una cosa si può fare subito, togliendo ai magistrati un assurdo privilegio: il progresso automatico nella carriera e nello stipendio, senza mai sottoporsi per 40 anni a una prova di idoneità, né al vaglio gerarchico o di qualsivoglia giuria. Formidabile incentivo per i pigri, certezza di impunità per i disonesti, convinzione di intoccabilità per tutti. Questa insania non esisteva con la monarchia e neppure nei primi 20 anni della Repubblica. Fu introdotta nel 1966 dalla Dc, il partito dominante, che volle ingraziarsi i magistrati con quel gigantesco regalo. Toccò a un deputato vicentino, Uberto Breganze, avvocato, presentare la legge - numero 570 - e farla approvare, il 25 luglio di quell'anno. La Breganze, come fu detta, aboliva il concorso per esami, fin lì previsto, per la promozione del magistrato di primo grado a giudice d'Appello. Un filtro opportuno che serviva a stabilire l'idoneità del candidato a ruoli più complessi e responsabilità più alte. Con la 570, la prova fu sostituita dal banale passaggio del tempo: dopo undici anni, durante i quali poteva anche essersi appisolato, il pigro impreparato saliva sul podio come il collega serio e sveglio. La meritocrazia sparì dalla magistratura, lasciando il posto all'attuale corpaccione in cui ignavi e capaci sono posti sullo stesso piano. Con assoluto divieto di distinguere tra loro. Essendo, per bando divino, tutti uguali, soggetti solo alla legge che ciascuno interpreta a capriccio, monadi intoccabili, repubbliche a sé, impuniti nell'errore e impunibili nelle responsabilità, nel portafoglio e nel risarcimento. Alla Breganze, seguirono negli anni Settanta, le Breganzone. Nome ironico di altri provvedimenti che riempirono di prebende e privilegi ogni interstizio di quelle carriere: aspettative, comandi, arbitrati, eccetera... Discutibile ossequio della politica alla magistratura, senza badare all'interesse dei cittadini e all'efficienza del sistema. Un giorno, alla vigilia dell'approvazione di una Breganzona, Francesco Cossiga, allora semplice parlamentare, e il collega, Giuseppe Gargani, manifestarono con dure parole il loro disaccordo al segretario dc, Flaminio Piccoli. «Zitti, per carità», si impaurì costui, «se questa legge non passa, ci arrestano tutti». Il potentissimo ministro democristiano, Giulio Andreotti, fa un racconto analogo in uno dei suoi libri. «Mentre si discuteva la legge Breganze», scrive, «in una riunione di ministri dc dissi che quel sistema di automatismi mi sembrava inconcepibile. Mi risposero in coro di tenere per me questa opinione: se no, quelli ci incriminavano tutti gli amministratori». «Quelli» era il nome che la politica dava alle toghe. Da ciò, si può arguire che razza di stima corresse tra beneficatori e beneficiati. Lo stesso deputato vicentino che volle la legge, visti gli sconquassi, si pentì di averla caldeggiata. Lo confidò il figlio, Massimo Breganze, al giornalista, Antonio Galdo, dopo la morte del padre nel 1999. L'auspicabile cancellazione di questa brutta pagina di storia recente non ha controindicazioni. Nessuna modifica costituzionale: per abolire gli automatismi basterà una semplice legge, come lo è la Breganze che li introdusse. A cose fatte, esploderanno i vantaggi. I magistrati torneranno normali cittadini, con la stessa fatica di vivere, eliminando l'antistorica discriminazione tra autorità e suddito. Senza l'inerzia della progressione meccanica, nell'ordine giudiziario torneranno l'aggiornamento, lo studio, l'amor proprio, il merito. Diminuirà il senso di intoccabilità che ha portato la magistratura a degradarsi come si è accennato all'inizio. E si potrà infine sperare che torni l'armonia tra toghe e Paese, sparita da lustri. In proposito, ricordo questo.Nel 1997, i radicali, quando ancora andavano controcorrente anziché sulla scia, sottoposero a referendum Breganze e Breganzone. Combinarono però un pasticcio, nello stile di Marco Panella che esagerava tutto. Affastellarono, non ricordo se sette od otto quesiti, diversissimi tra loro e la gente, indispettita e confusa, fece mancare il quorum per tutti. Tuttavia, il referendum per cui si recò più numerosa e arrabbiata fu quello contro i privilegi dei magistrati. Alle urne si presentarono 11 milioni di persone e 9 milioni e oltre (l'83,6%) plebiscitarono l'abolizione delle loro pigre carriere. Se il Parlamento temporeggia, basta riprovarci e si va a colpo sicuro.