L’ultima apparente giravolta di Donald Trump rischia di generare un paradosso: l’Europa pagherebbe per entrare in guerra con la Russia. Mettendo in gioco il portafoglio e pure la vita della sua gente. Ad accendere la miccia sarebbe la fornitura di Tomahawk all’Ucraina, che Mosca considererebbe «una grave escalation», dato che quei vettori potrebbero trasportare testate nucleari. Soprattutto, la Federazione non finge più di ignorare il contributo attivo degli statunitensi: per impostare il sistema di navigazione dei missili servono dati secretati, di cui soltanto il Pentagono è in possesso. Vladimir Putin si era già espresso qualche giorno fa, quando ha ricordato che «i Tomahawk non si possono usare senza il coinvolgimento diretto di personale americano». Ma se pure decidesse di autorizzare le consegne a Kiev, l’inquilino della Casa Bianca non regalerebbe nulla agli alleati. Come pattuito a luglio, dovrebbe essere la Nato - quindi i Paesi Ue fomentati dai massimalisti baltici e polacchi - a sborsare per conto di Volodymyr Zelensky.
È vero che lo zar, in un intervento a San Pietroburgo, ha ostentato calma, assicurando che le contraeree fronteggeranno la nuova minaccia com’era già successo nel caso degli Atacms. Ma i missili elargiti da Joe Biden avevano una gittata fino a 300 chilometri; i Tomahawk possono colpire fino a 2.500 chilometri di distanza. La versione degli anni Novanta, più volte aggiornata, si fermerebbe a circa 1.650. Comunque abbastanza per tenere sotto tiro diversi obiettivi chiave: la fabbrica di droni nell’area del Volga, oppure la base di Engels, che ospita bombardieri strategici supersonici. Anche il potenziale distruttivo dei razzi di Trump è superiore: si passerebbe dai circa 375 chili di esplosivo degli Atacms ai 454 dei Tomahawk.
Non è detto che il presidente Usa passi dalle parole ai fatti. L’altra notte ha dichiarato di aver «preso una decisione», sì, ma «più o meno». Vuole prima capire in che modo gli ucraini intendano utilizzare i suoi gioiellini bellici: «Credo di voler scoprire cosa ne stanno facendo, dove li stanno mandando. Immagino che dovrei porre questa domanda». Visto il difficilissimo confronto diplomatico con Putin, che lo ha «deluso» e che si è rivelato «un osso duro», sebbene The Donald credesse che la pace in Ucraina «sarebbe stata una delle questioni più facili», magari il tycoon sta provando ad alzare la posta per costringere l’avversario a cedere. Sarebbe ragionevole, se in Europa non ci fosse una classe dirigente che per tre anni ha sbarrato qualunque spiraglio negoziale. Prigioniera degli oltranzisti orientali e della crisi industriale che essa stessa ha innescato con il Green deal. E che ora tenta di riassorbire spingendo sul riarmo. Per giustificarlo agli occhi di cittadini sempre meno convinti - l’ultimo sondaggio per Euractiv svela che il sostegno al rafforzamento della difesa, ancorché elevato, è sceso di sette punti in sei mesi tra gli europei - è cruciale mantenersi in questo precario equilibrio: altissima tensione, ma appena al di qua del punto di non ritorno.
È improbabile che una manciata di Tomahawk conduca gli ucraini alla vittoria. Però riequilibrerebbe la bilancia, in una fase complessa per entrambi i contendenti. I bombardamenti russi stanno lasciando al gelo la popolazione civile e, come ha ammesso il ministro dell’Energia di Kiev, Svitlana Hrynchuk, hanno causato danni «significativi» alla capacità di produzione di gas della nazione, rendendo necessario aumentare le importazioni. Ma nemmeno gli aggressori se la passano benissimo: la resistenza ha rivendicato un miglioramento dell’11% dell’efficacia dei suoi droni. L’altro ieri è stato bersagliato l’impianto di raffinazione di Krishi. Nel momento in cui l’economia arranca, è una grossa gatta da pelare per Mosca. Ieri, società pubblica russa per l’energia nucleare, Rosenergoatom, ha denunciato l’attacco di un drone alla centrale di Novovoronezh, che sarebbe rimasta intatta e operativa.
Intanto, la Turchia continua a distinguersi, all’interno della Nato, per la sua postura verso la Russia, sia interlocutrice sia rivale. Recep Tayyip Erdogan ha sentito Putin, al quale ha ribadito la necessità di uno «slancio» nelle trattative. Ankara, ha giurato il Sultano, «continuerà i suoi sforzi per la pace».
Sulla scia dell’indignazione per le accuse di Angela Merkel ai baltici e a Varsavia, additati dall’ex cancelliera per lo scoppio della guerra, il premier polacco, Donald Tusk, ieri ha quasi rivendicato la distruzione del Nord Stream 2: «Il problema», ha twittato, «non è che sia stato fatto esplodere, ma che sia stato costruito». Tusk ha aggiunto che estradare in Germania l’ucraino Volodymyz Z., sospettato di aver partecipato all’attentato, andrebbe contro «gli interessi della Polonia e i principi elementari di decoro e giustizia». Una grana politica per Friedrich Merz, assediato da Afd.
Invece Sergio Mattarella visiterà dopodomani la base di Amari in Estonia, da dove erano decollati gli F-35 italiani che, il 19 settembre, hanno intercettato tre Mig-31. E alla ricerca di prove che colleghino i sorvoli di droni con il Cremlino, i governi dell’Ue starebbero valutando di limitare gli spostamenti dei diplomatici russi. Lo riportava il Financial Times, secondo cui le cancellerie attribuirebbero i sabotaggi a «spie che operano sotto copertura diplomatica». Altro che Tomahawk; le temibili armi dello zar sono gli agenti segreti e l’aeromodellismo.






