2021-05-31
Pensateci bene prima di pungere i bimbi
Pfizer: «Siero fino a 5 anni pronto a settembre, fino a 6 mesi a dicembre». Ma siamo sicuri di voler iniettare un farmaco sperimentale ai nostri piccoli? Il professor Giuseppe Remuzzi avverte: «Rischi superiori ai benefici». Anche chi condivide la campagna vaccinale, anche chi si è già vaccinato, anche chi (come chi scrive) si è prenotato in base alla propria fascia d'età, dovrebbe tuttavia avvertire una certa preoccupazione per l'assenza di dibattito con cui si marcia a tappe forzate verso la vaccinazione dei più piccoli, cioè di coloro che non rischiano praticamente mai di ammalarsi. Eppure Pfizer va come un treno e prepara il vaccino per i bambini fino a 5 anni (pronto a settembre) e addirittura a quelli di 6 mesi (a dicembre), nel silenzio generale. Come se stesse sfuggendo ai più che si tratta di farmaci sperimentali. Dal canto suo, Sergio Abrignani, immunologo e membro del Cts, intervistato da Repubblica, da un lato sembra molto convinto del buon funzionamento del vaccino per gli adolescenti: «Il loro sistema immunitario risponde come, se non meglio, di quello degli adulti al vaccino. E infatti si è visto che l'efficacia a quell'età è superiore anche al 95% riscontrato nei più grandi. Parliamo di vaccini già ottimi che diventano più che ottimi sui giovani». E questo naturalmente conforta. Ma occhio a una domanda successiva ben posta: «Perché i giovani devono essere protetti se non si ammalano quasi mai?». E qui la risposta del professore può generare sconcerto: «Per fare un grande atto di sanità pubblica», dice testualmente Abrignani. «Per prima cosa dobbiamo evitare che si infettino e, anche se non stanno male, attacchino il virus ai più fragili, cioè a persone che potrebbero avere forme di malattia grave o addirittura morire. E poi dobbiamo intervenire perché tanti più ragazzi si infettano, tanto più c'è il rischio di generare delle varianti». Lasciamo da parte il «grande atto di sanità pubblica», espressione che non sembra valorizzare i princìpi liberali e la scelta individuale. Per altro verso, onestamente, non va sottovalutato un argomento forte dal punto di vista del professor Abrignani: vaccinando anche i più piccoli, si può ridurre ulteriormente la circolazione ipotetica del virus. E tuttavia non si può non notare che l'obiettivo di «eliminare il virus» che è sotteso a queste parole non è realistico. E non si può non tenere conto del fatto che siamo in un contesto diverso da sei mesi fa, quando la campagna vaccinale non era cominciata, e gli anziani di casa erano effettivamente a rischio. Ora se il numero di ultraottantenni (e ultrasettantenni, e ultrasessantenni) vaccinati è già fortunatamente molto alto, non si vede perché sia così impellente la vaccinazione di bambini e adolescenti. Chi doveva essere protetto, perché potenzialmente vulnerabile, ha già avuto la sua iniezione. Perché dunque esporre i più piccoli ai rischi (sia pur limitati) di una vaccinazione? Del resto, anche quando si tratta - ogni anno - dell'influenza ordinaria, l'enfasi informativa è giustamente sulla protezione dei più anziani e dei più deboli. E infatti Giuseppe Remuzzi, direttore del Mario Negri, sentito da Libero, ha un approccio assai diverso. Interpellato sugli adolescenti (12-15 anni), risponde così alla domanda se la loro vaccinazione sia fondamentale: «No. Io penso che gradualmente dovremo vaccinare tutte le fasce d'età fino ad arrivare ai 16 anni. Tenendo presente che più si scende con l'età, meno ci si ammala. A quel punto le complicanze anche non gravi della vaccinazione vanno prese in una certa considerazione». Domanda di controprova: «Cioè i rischi del vaccino diventano superiori a quelli della malattia?». Risposta eloquente: «Stiamo parlando di rischi minimi, ma sì, il concetto è questo». Da ultimo, una considerazione sui più grandi. L'insistenza politica e mediatica sugli ultrasessantenni non ancora vaccinati sta assumendo un tratto francamente ossessivo: qualunque campagna di vaccinazione, cioè un processo basato sul libero convincimento delle persone, deve necessariamente fare i conti con qualcuno che - per sue ragioni - non si persuade. È certamente giusto che lo Stato offra gli elementi di informazione utili affinché ciascuno possa valutarli: ma se poi, in modo libero e consapevole, qualcuno ritiene di non aderire, anche quella libertà va pienamente rispettata. A maggior ragione nel momento in cui - come ora positivamente appare chiaro - la campagna vaccinale ha preso un ritmo rassicurante, che fa ipotizzare un successo ormai a portata di mano, con il 70% degli italiani probabilmente vaccinati entro la fine dell'estate. Si offra agli altri ogni informazione, e naturalmente si faccia uno sforzo per contattare le persone difficilmente raggiungibili, gli anziani soli, quelli che risiedono in località più piccole e meno collegate: ma si rispetti anche un eventuale «no, grazie».