2019-05-18
«Pedino 12 ore di fila a caccia della verità»
Investigatrice da 36 anni, Laura Giuliani guida l'associazione mondiale dei detective: «Per strada non mi giro se mi chiamano e a casa non accendo la luce per non farmi identificare. Ma è una vita bellissima e le mie indagini vengono usate come prova dai tribunali in sede penale».La parete color panna che incornicia la scrivania in legno scuro di Laura Giuliani, professione detective, è una hall of fame in miniatura di attestati, congressi, riconoscimenti, articoli di giornale. Fra questi, in un angolo, spicca un titolo pruriginoso: «Questo angioletto potrebbe pedinarvi». Sotto la frase a effetto, il ritratto in bianco e nero di una quindicenne con un casco di riccioli chiari e il sorriso vivace. «È un servizio che mi fece nel 1980 il quotidiano L'Occhio. Era diretto da Maurizio Costanzo», ricorda l'investigatrice milanese, figlia d'arte, 54 anni, titolare della Giuliani investigazioni e da alcuni mesi alla guida della World association of detectives, la più antica e autorevole associazione mondiale di investigatori. Fondata nel 1925, sede a Baltimora, raccoglie circa 90 nazioni e oltre 1.000 soci disseminati nei cinque continenti. «Sono la prima italiana a presiederla. Lo dico con un certo orgoglio: gli italiani all'estero sono spesso vittime di diffidenza. E poi questo è un ambiente maschile e maschilista. Talvolta, militarista».In che senso?«Molti soci provengono dalle forze dell'ordine di tutto il mondo, nonostante la situazione sia cambiata negli ultimi anni».Secondo lei è un errore?«È un fatto storico. In Italia, così come in altri Paesi, la legislazione non fissava i requisiti per diventare investigatori privati. L'Inghilterra, tutt'ora, non prevede una licenza. Per sopperire a tale lacuna, le autorità avevano individuato nelle forze dell'ordine una formazione adeguata».La professione del detective nasce negli Stati Uniti?«Istituzionalmente, sì. Ma la figura dell'investigatore privato, come lavoro stabile, esisteva già nell'antica Roma».È dura essere la regina dei private eye?«È molto faticoso. Bisogna fronteggiare lobby, accordi, interessi. La lingua madre è l'inglese e sotto l'aspetto giuridico ci si muove con un diritto di common law, che non è il nostro».Il suo è un mestiere ambito?«Eccome. Ma è difficile accedervi. Non tanto per questioni burocratiche, quanto per l'attitudine e la continua formazione necessarie. Tanti giovani ci provano, ma si rendono conto in fretta del sacrificio mentale e fisico».Fisico?«Si può arrivare a pedinamenti di 12 ore. Provi lei a fissare per otto ore un portone mentre passano i tram, gli autobus…».Fissare un portone per otto ore presuppone un livello di determinazione che sfiora gli stati superiori di coscienza di cui parlava Georges Ivanovič Gurdjieff.«È un caso limite, essendoci dei turni. Ma se, durante un appostamento di ore, l'attenzione cala per cinque minuti, può essere che in quei cinque minuti accada un fatto che si attendeva da mesi».Cosa le piace di più del suo lavoro?«La scoperta della verità. Amo mettere i tasselli al loro posto».Si considera pignola?«Pignola? Mi vergogno di averla invitata in ufficio: la mia scrivania è un disastro, la mia testa un turbinio di pensieri. Precisa sì, è parte integrante dell'attitudine di un investigatore».Qual è la caratteristica che un bravo detective deve avere?«Deve essere bradicardico: avere una calma fisica e interiore che gli consenta di affrontare ogni imprevisto con freddezza. A volte, abbiamo frazioni di secondo per prendere decisioni che potrebbero compromettere la vita di qualcuno».Faccia un esempio.«Sto pedinando un sospetto in macchina: devo decidere se passare con l'arancione. Mi servono esperienza e sangue freddo per non mettere a rischio la mia incolumità e quella di terzi. Devo valutare se il mio passaggio sia o meno necessario per non perdere il servizio per atti irripetibili. Se sono ripetibili domani, rinuncio al rischio».Insomma, la storia dell'intuito è roba da film di Poirot?«Proprio così. I gialli, per me, sono fonte di nervosismo».Ricorda la prima scoperta che la elettrizzò?«Al liceo, bigiavo la scuola per andare in ufficio da papà, che regolarmente mi cacciava. Non voleva che svolgessi questa attività. Una volta, mi trovai a origliare un caso di presunta infedeltà coniugale. Di mia iniziativa, mi recai in un luogo e scoprii che il marito tradiva la moglie, ma non con un'altra donna».Con chi?«Un secondo impiego. Si trattava di un ex dirigente demansionato che, per assicurare alla famiglia il solito tenore di vita, di nascosto lavorava in un negozio».Per alcuni, il detective è una specie di ficcanaso. Si è mai sentita tale?«Alcuni investigatori lo sono eccome: gli abusivi. Questi non hanno titoli, né regole, e spesso operano laddove i detective autorizzati rifiutano l'incarico per impossibilità o illiceità».Perdoni la sfacciataggine: lei non ha l'aria di una che, da piccola, giocava con le bambole.«Essendo cresciuta con un padre detective, in casa notavo l'osservanza di protocolli di sicurezza superiori a quelli delle famiglie normali. Così, invece di agghindare le bambole, proponevo ai miei coetanei di giocare agli investigatori».Può citare una misura che adotta quotidianamente?«L'altro giorno, vedendomi attraversare la strada, un amico tassista suona per attirare la mia attenzione. Secondo lei un detective si gira? Ovviamente no. Attraverso, mi allontano. Grida: “Laura!". Niente».Perché?«Se qualcuno non mi conosce fisicamente, c'è l'identificazione della persona col nome. Quando ho visto chi era, in modo circospetto mi sono avvicinata. Ci siamo fatti una risata».Per strada, quindi, lei non si volta mai?«Mai. Mi dispiace per i ragazzi che in gioventù mi fischiavano dietro. Avranno pensato che fossi disinteressata».O sorda.(Ride) «Per esempio, quando sono in prossimità del portone di casa e si avvicina qualcuno, proseguo senza fermarmi. È un riflesso naturale».Naturale come cercare la microspia quando riceve una scatola di cioccolatini? O pensare a un agguato al veleno quando le recapitano in ufficio un mazzo di fiori?«Esatto».Scusi, ma che vita è?«Bellissima. Solo con l'osservazione si può preservare sé stessi e gli altri da atti dannosi, come scippi e violenze».Negli anni, la richiesta di detective è aumentata o diminuita?«È aumentata, ma con motivazioni differenti. Ho assistito all'evoluzione della società, dei costumi. Il mondo è cambiato radicalmente».In peggio?«Non direi. La domanda è aumentata dopo che, con la legge del 1989 in ambito processuale, siamo stati chiamati a fornire prove anche in sede penale».Dunque, non siamo una società paranoica.«Al contrario: siamo una società molto distratta su ciò che ci accade attorno. Tutti con la testa china sullo smartphone».Ha detto: «Il detective non è un mestiere, è uno stile di vita. Questo approccio non porta in dote qualche nevrosi?«Nevrosi? È semplice attenzione al quotidiano. Un paio di volte hanno provato a rapinarmi: non ci sono riusciti».È vero che, quando rincasa la sera, aspetta ad accendere la luce?«Sì, per non far capire in quale appartamento abito. Vede, io rompo le uova nel paniere a molti. Pensi a un manager che sta per ricevere 20 milioni per consegnare illecitamente una formula. Sono obbligata a tutelare me stessa e l'indagine».Ha mai rischiato ritorsioni?«Spesso. Capita di prendere un caso pensando di indagare con un rischio sicurezza di 1 su 10, per poi scoprire che è 9. Ricordo un episodio in cui l'indagato, un presunto assenteista, si rivelò essere parte di un racket con un livello di attenzione pari al nostro, se non superiore».In questi casi cosa si fa?«Si sospende tutto e si chiede l'intervento delle autorità».Quale tipologia di indagini le suscita una partecipazione speciale?«Quelle riguardanti figli minori: maltrattamenti, violenza. Anche occulta: in casi di separazione e divorzio, spesso i bambini sono strumentalizzati da un genitore o dal compagno del genitore».Racconti una situazione che l'ha scossa.«Vedere uscire dalla messa della domenica, in giacca e cravatta, con la moglie e i figli per mano, un presunto pedofilo sul quale stavo indagando».Ha mai rifiutato un caso?«Altroché. Agli inizi, mi capitò un signore che parlava in dialetto pugliese strettissimo. Non capivo nulla. Tornò col nipote che, allibito, mi tradusse ciò che stava dicendo lo zio: “Vuole l'indirizzo e una foto recente di quest'uomo. Deve ucciderlo". Aveva subito un torto da un compaesano poi espatriato che, a distanza di 30 anni, era tornato in Italia. Non ricordava più che volto avesse, ma ancora covava la rabbia».In passato, il mestiere del detective era associato perlopiù a questioni di infedeltà coniugale. Oggi?«Mi occupo principalmente di procurare prove per aziende e privati da esibire in sede giudiziaria. La coppia è cambiata. Lo stesso contratto matrimoniale non prevede più la separazione per colpa; la colpa influisce sugli aspetti patrimoniali, che però oggi sono spesso regolati prima delle nozze attraverso altri istituti giuridici».Statisticamente, sono più gli uomini o le donne a tradire?«Gli uomini. Ma solo perché il tradimento maschile è più palesato».Cioè siamo più fessi?«No, siete più facili da smascherare. Esiste una teoria psicologica per la quale l'uomo lascerebbe più tracce perché, inconsciamente, vuole essere scoperto. Io credo che, storicamente, abbia meno da perdere».Le bugie servono nel suo lavoro?«Non riesco a trovare un'attinenza tra l'attività del detective e la bugia».Mi spiego meglio: se il soggetto che sta pedinando la avvicina, che cosa fa?«La legge parla chiaro: se fermato, il detective deve palesarsi».A costo di perdere un caso sul quale ha lavorato per mesi?«Esattamente. Ho il dovere di tutelare il cliente, ma anche l'indagato».Dopo 36 anni passati a smascherare impostori, ha ancora fiducia nel prossimo?«Sì, nonostante non sia indenne da fregature. Ma che noia altrimenti!».