2021-12-21
Pechino celebra il voto farsa di Hong Kong
Il regime cinese si gode la vittoria bulgara ottenuta grazie alla riforma elettorale imposta all’ex colonia britannica: 89 membri del Consiglio legislativo su 90 ora sono graditi ai comunisti. L’opposizione? In carcere o incandidabile. Affluenza in picchiataHanno un che di farsesco le elezioni legislative tenutesi domenica a Hong Kong. Secondo quanto riferito ieri da AsiaNews, 89 dei 90 seggi in palio sono stati conquistati da candidati legati o comunque favorevoli al governo cinese. Tutto questo mentre l’affluenza è drammaticamente crollata, restando inchiodata al 30,2%: un decremento significativo, se si pensa al fatto che, in occasione delle elezioni legislative del 2016, il dato si era attestato al 58,2%. Del resto, alcuni attivisti pro democrazia in autoesilio, come Nathan Law e Ted Hui, avevano esortato la popolazione a boicottare il voto. Eppure, a sentire il capo dell’esecutivo dell’ex colonia britannica, Carrie Lam, le elezioni dell’altroieri sarebbero state un successo, perché, in fin dei conti, il dato dell’affluenza non risulterebbe troppo importante. La tornata di domenica scorsa è risultata la prima a svolgersi sulla base della controversa legge elettorale che, di fatto imposta da Pechino, è stata formalmente approvata lo scorso maggio da un Consiglio legislativo dominato da deputati filocinesi. Ricordiamo che la nuova norma è finalizzata ad evitare la candidatura di figure considerate «non patriottiche» (cioè sgradite alla Repubblica popolare) e ha ridotto il numero di parlamentari direttamente eleggibili. Tanto basta per capire come lo svolgimento delle elezioni dell’altroieri di democratico abbia avuto ben poco. Devono probabilmente essersene accorti anche a Pechino, visto che - non senza sprezzo del ridicolo - il governo cinese ha pubblicato proprio ieri - quasi a scopo difensivo - un libro bianco intitolato «Il progresso democratico di Hong Kong nel quadro del [principio] un Paese, due sistemi». Secondo quanto riferito dal Global Times, organo del Partito comunista cinese, questo documento «sottolinea che non c’è dubbio che il Partito comunista cinese e il governo cinese abbiano progettato, creato, salvaguardato e portato avanti il sistema democratico di Hong Kong». Se la situazione a Hong Kong non fosse tanto drammatica, una simile affermazione farebbe ridere di gusto. È tra l’altro bene sottolineare come la riforma elettorale sia soltanto un (seppur grave) tassello nel quadro di un contesto fortemente problematico: un contesto che vede Pechino sistematicamente picconare la democrazia nell’ex colonia britannica, nel più totale spregio del principio «un Paese, due sistemi». Un principio - è bene sottolinearlo - incluso nella Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984. Ricordiamo a tal proposito l’approvazione, nel giugno del 2020, della controversa legge sulla sicurezza nazionale: una legge che le autorità hanno prontamente utilizzato per tappare di fatto la bocca al fronte pro democrazia. È in questo contesto che, lo scorso giugno, un giornale di opposizione al governo cinese, come l’Apple Daily, si è trovato costretto a chiudere i battenti. Non solo: tale legge è stata anche utilizzata per arrestare alcuni esponenti di spicco del fronte pro democrazia, come l’attivista Joshua Wong e il magnate Jimmy Lai (a cui è stata recentemente inflitta una nuova condanna per aver preso parte l’anno scorso alla veglia in ricordo del massacro di Piazza Tienanmen). È alla luce di questa situazione che ieri i ministri degli Esteri di Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda e Australia hanno emesso un duro comunicato congiunto sulle ultime elezioni di Hong Kong. «La revisione del sistema elettorale di Hong Kong introdotta all’inizio di quest’anno ha ridotto il numero di seggi eletti direttamente e ha istituito un nuovo processo di controllo per limitare severamente la scelta dei candidati sulla scheda elettorale. Questi cambiamenti hanno eliminato qualsiasi opposizione politica significativa», hanno dichiarato. «Esortiamo la Repubblica popolare cinese ad agire in conformità con i suoi obblighi internazionali a rispettare i diritti tutelati e le libertà fondamentali a Hong Kong», hanno concluso. «L’incapacità di Pechino di essere all’altezza dei suoi obblighi internazionali e il rifiuto di dare agli abitanti di Hong Kong una voce nel proprio governo è un affronto a tutti coloro che difendono la democrazia», ha inoltre twittato il segretario di Stato americano, Antony Blinken. Ovviamente lo smantellamento della democrazia a Hong Kong costituisce soltanto una parte del problema. Il Partito comunista cinese è infatti anche responsabile della repressione degli uiguri nello Xinjiang, senza poi trascurare la crescente pressione militare a cui sta sottoponendo Taiwan dallo scorso ottobre. Non si può infine non menzionare la gestione quantomeno opaca della pandemia, con buona pace di qualche esponente politico nostrano che continua a nutrire malcelata simpatia nei confronti della Repubblica popolare. Quella Repubblica popolare che, nonostante tutto, avrà l’onore di ospitare a febbraio le prossime Olimpiadi invernali: un riconoscimento internazionale che il Partito comunista cinese non merita affatto.