2022-08-16
Pd, la notte dei lunghi coltelli (e della coperta cortissima)
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Cosa racconta la drammatica direzione notturna dei dem per la composizione delle liste, tra esclusioni eccellenti, posti concessi ai capetti alleati, e la sempre meno gestibile difficoltà politica di Enrico Letta. Già iniziata la stagione congressuale? «Questa volta non ci sarà la direzione notturna per le liste come nel 2018». Con eccessivo ottimismo, e con l’ormai consueta sopravvalutazione politica delle sue stesse capacità di mediazione e composizione delle contraddizioni, così aveva parlato Enrico Letta il 26 giugno scorso.Risultato? Con inevitabili effetti tragicomici, la seduta della direzione del partito dedicata all’approvazione delle liste è stata inizialmente convocata per la giornata di ieri, Ferragosto, alle 11. Ma – a poco a poco – filtravano rinvii e aggiornamenti, frutto delle violentissime risse in corso: tutto spostato alle 15, poi alle 18, poi alle 20, poi alle 21.30. Morale della favola: la seduta ha avuto inizio soltanto dopo le 23.Con queste premesse, era facile immaginare un naufragio. I giustificazionisti negheranno tutto, e si appelleranno al voto tutto sommato ampio con cui si è chiusa la riunione (3 no e 5 astenuti). Non è nemmeno mancato chi ha provato a gettare il cuore oltre l’ostacolo. È il caso di Gianni Riotta che sui social, con sprezzo del ridicolo, ha sintetizzato a modo suo: «Malumori nel Pd perché gli esclusi dalle liste suscitano proteste online mentre nessuno fiata sulle liste di destra. A me pare invece una differenza di cui essere fieri. Da sempre, la sinistra discute in pubblico più della destra. Un punto positivo, non negativo». Ma in realtà le cose stanno in modo ben diverso: i dem escono lacerati e indeboliti prim’ancora che la corsa elettorale sia iniziata. Contano fino a un certo punto i dettagli e i casi singoli, pur ovviamente rilevantissimi per gli interessati: la candidatura non più sicura (e dunque rifiutata) dal costituzionalista Stefano Ceccanti (che dovrà far posto a Nicola Fratoianni), le esclusioni di Monica Cirinnà e Giuditta Pini, la new entry Andrea Crisanti. Quel che pesa – politicamente – sono almeno quattro fattori. Primo: il pressoché totale fallimento della strategia di Letta. Il segretario dem, all’inizio di questa vicenda elettorale, aveva teoricamente a disposizione due schemi: una sorta di «unione sacra» (coinvolgendo tutti, dai grillini fino a Matteo Renzi) in funzione anti-destra, oppure un’alleanza di segno più riformista solo con lo stesso Renzi e Carlo Calenda. Per una ragione o per l’altra, non ha voluto o potuto o saputo portare a casa nessuno dei due risultati, e si è ritrovato nella mini-coalizione (striminzita e perdente) con Fratoianni e Angelo Bonelli alla sua sinistra, Emma Bonino e Benedetto Della Vedova alla sua destra, più un fastidioso quanto irrilevante Luigi Di Maio da sfamare. Così, per garantire un pezzo di pane a tutte queste bocche bisognose, ha dovuto comprimere i posti per le tradizionali correnti dem, già dissanguate dai sondaggi non benevoli e dalla riduzione del numero dei parlamentari.Secondo: per quanto possa apparire paradossale, dopo la nottata di ieri, non è iniziata la campagna elettorale del Pd, ma la sua stagione congressuale, con un segretario già oggettivamente sul banco degli imputati. La componente «Base riformista» non ha infatti partecipato al voto finale in direzione, mentre il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini scalda i motori verso la segreteria. Non solo: con un così alto numero di candidati paracadutati, non ci sarebbe da stupirsi se anche territori teoricamente blindati (la stessa Emilia Romagna o la Toscana) esprimessero proteste e determinassero qua e là sorprese clamorose, in termini di perdita di collegi ritenuti sicuri. In questo senso, pare scontato che – sperando di occultare tali evenienze – Letta proverà a uscirne nel solito modo: per un verso valorizzando i temi identitari (nel tentativo disperato di recuperare voti al margine) e per altro verso con un atteggiamento sempre più incattivito e quasi incarognito nei confronti di Giorgia Meloni e della destra. Obiettivo: tenere il Pd (almeno) in corsa per la simbolica medaglietta di primo partito, nonostante una sconfitta complessiva che si annuncia a valanga. Ma Letta si augura, per questa via, di potersi attestare sulla linea: «Non potete cacciare il segretario del primo partito italiano». Gli riuscirà col buco questa ciambella? C’è da dubitarne, ma lui ci proverà.Terzo. Quel che emerge ormai a occhio nudo è la dimensione del Pd (da oltre un decennio, e a dispetto dei risultati elettorali anno per anno) come partito-sistema, come pura macchina di potere, come soggetto politico che ormai considera il consenso una variabile irrilevante per puntare dritto alla gestione della macchina pubblica: ministeri, apparati, Rai, amministrazioni locali. Nel momento in cui – per la prima volta da molto tempo – questa certezza sembra sfarinarsi, il castello del Nazareno mostra tutta la sua fragilità. Curioso contrappasso: proprio mentre da sinistra si scagliano anatemi contro la destra probabile vincitrice, asserendo che non sarà in grado di governare per più di sei mesi, quegli stessi sei mesi appaiono oggi un tempo incredibilmente lungo – per il Pd – per resistere senza il cemento del potere. Anzi: nel caso che il governo parta bene e la legislatura duri, è proprio l’opposizione ad apparire a fortissimo rischio di disarticolazione. Quarto. L’ultimo elemento di riflessione riguarda, più del Pd, alcuni dei suoi alleati e beneficiari. Pierferdinando Casini (eletto per la prima volta alla Camera nel 1983, e da allora presente ininterrottamente in Parlamento per 39 anni) e Emma Bonino (eletta per la prima volta a Montecitorio nel 1976 e da allora ininterrottamente presente nelle istituzioni italiane ed europee per 46 anni) si ricandidano, puntando così, se la legislatura avrà durata completa, rispettivamente ai 44 e ai 51 anni consecutivi su una poltrona. Nulla di personale, anzi tanti auguri per ciò che queste personalità desiderano per se stesse: ma possibile che non sentano l’opportunità di partecipare alla vita pubblica e alla politica in altro modo, se non attraverso un’ossessiva coazione alla ricandidatura? Le proprie idee – se se ne hanno – possono essere onorate in molti modi: parlando, scrivendo, animando la discussione nella polis, promuovendo campagne. A meno che la loro natura sia ormai un’altra: quella di chi non crede nel logos, cioè nella parola e nelle idee, ma solo nel kratos, cioè nel potere e nei suoi segni esteriori.