2021-06-06
Passa la tassa mondiale sulle multinazionali
Al G7 patto sull'imposta minima del 15%: il compromesso aiuterà Joe Biden a trovare accordi con i repubblicani. Adesso l'obiettivo è far aderire altri Paesi al G20 di luglio a Venezia. L'Italia ora sfrutta la sponda Usa per arginare i falchi pro austerità tedeschiIl particolare toglierà forse un po' di enfasi all'esultanza progressista globale che ha accompagnato, da ieri pomeriggio, la notizia dell'intesa raggiunta al G7 a guida Uk per una aliquota globale minima sulle imprese al 15%. E qual è il particolare forse sfuggito alla narrazione mainstream? Che a vincere la partita (nel senso di limitare, almeno un poco, la propensione tassatoria di Joe Biden) sono stati forse i repubblicani Usa, che non solo - per evidenti ragioni - non partecipavano a un vertice riservato ai governi, ma che per sovrammercato sono minoranza in casa loro. Eppure una parte di ciò che è successo ieri a Londra deriva anche (per così dire, «da remoto») dal negoziato in corso da tempo a Washington tra democratici e repubblicani sulla tassazione domestica delle imprese: l'aliquota attuale corporate negli Usa è il 21%, ma molte aziende riescono a farla scendere con consistenti deduzioni e altri sgravi. Biden avrebbe voluto far schizzare l'aliquota al 28%, ma i repubblicani (compatti nel difendere i tagli fiscali dell'amministrazione guidata da Donald Trump) hanno fatto le barricate rispetto a quel rialzo oltre che rispetto alla soppressione formale dei tagli di tasse avvenuti tra il 2016 e il 2020. Morale? È venuto fuori un compromesso per cui le imprese non dovranno pagare meno del 15%. In cambio i repubblicani potrebbero dare via libera più facilmente all'infrastructure deal voluto dalla Casa Bianca. E così quello stesso 15% (nella formula per cui il 15% deve essere l'aliquota minima) è stato approvato ieri dal G7, dopo che nelle scorse settimane anche il governo conservatore britannico era sembrato freddo sull'ipotesi di aliquote più elevate: se la politica ha ancora un senso, è evidente che dopo la Brexit la Gran Bretagna ha interesse più alla competizione fiscale che non all'omogeneizzazione fiscale.Così il 15%, alla fine, è risultato essere un compromesso accettabile per tutti i membri del G7. Per i più tassatori, che hanno potuto fare retorica (come vedremo tra poco) contro le multinazionali e l'elusione fiscale, e per i meno tassatori che hanno in fondo limitato i danni. Ora la prossima tappa è a luglio al G20 di Venezia, dove i sette Paesi maggiori cercheranno di allargare a un ventaglio più ampio di nazioni la loro intesa. A ben vedere, la stessa Irlanda non dovrebbe fare le barricate, visto che la sua aliquota al 12,5% non è così lontana dal 15%.Certo, a pesare sono due fattori, uno culturale e l'altro congiunturale: quello culturale (a partire dai dem Usa) è una tendenza al rialzo delle tasse, quello congiunturale è l'appesantimento dei bilanci di tutti i governi occidentali a causa delle spese legate al post Covid: ragion per cui un po' tutti (anche le forze che dovrebbero essere più convintamente anti tasse) accettano l'idea di fare un po' di gettito per questa via. Ecco le principali reazioni. Soddisfatto il padrone di casa, il cancelliere dello scacchiere britannico Rishi Sunak: «Dopo anni di discussione, i ministri delle Finanze del G7 hanno raggiunto uno storico accordo per riformare il sistema fiscale globale e renderlo più adeguato all'era digitale». Si dichiara contenta anche la ministra americana Janet Yellen, che ha parlato di «un impegno senza precedenti» e ha aggiunto che la «global minimum tax frenerà la corsa al ribasso nella tassazione sulle imprese». Come se invece una corsa al rialzo fosse un obiettivo desiderabile. Il ministro socialdemocratico tedesco Olaf Scholz si affida a un grande classico della sinistra, e cioè la lotta ai «paradisi fiscali in giro per il mondo». Più cauto e asciutto l'italiano Daniele Franco: «Abbiamo fiducia che raggiungeremo un accordo anche a livello di G20 per far sì che queste regole diventino un punto di riferimento globale». Con un qualche esercizio di ipocrisia, si dichiarano contenti (in effetti, poteva andare peggio per loro) anche i giganti online. Un portavoce di Amazon ha dichiarato di credere a un «processo guidato dall'Ocse che crei una soluzione multilaterale e che aiuti a portare stabilità nel sistema fiscale internazionale. Questo accordo è un benvenuto passo in avanti nello sforzo di raggiungere quell'obiettivo». Sulla stessa linea un portavoce di Google: «Supportiamo il lavoro in corso per aggiornare le regole fiscali internazionali. Speriamo che i Paesi continuino a lavorare insieme per far sì che un accordo duraturo e bilanciato sia presto finalizzato». Chiude il cerchio il capo degli affari globali di Facebook, e cioè l'ex leader dei libdem inglesi Nick Clegg, che ha trovato un'occupazione d'oro una volta lasciata la politica: «Facebook ha da tempo chiesto una riforma delle regole fiscali globali e salutiamo l'importante progresso fatto al G7. Vogliamo che il processo di riforma fiscale internazionale riesca, e riconosciamo che questo possa significare per Facebook dover pagare più tasse e in differenti Paesi». Restano sullo sfondo (non erano oggetto dell'incontro di ieri) alcuni nodi più complessivi. Sia pure a colpi di spesa e investimenti pubblici (e non certo con tagli fiscali) l'amministrazione Usa cerca di perseguire una linea espansiva, secondo logiche keynesiane. A maggior ragione mentre in Germania il post Merkel potrebbe veder crescere l'influenza dei vecchi campioni dell'austerity come Wolfgang Schäuble, è realistico che Mario Draghi cerchi un allineamento con Washington, anche offrendo la sua autorevolezza come contrappeso in Ue rispetto alle incognite che potrebbero maturare dopo le elezioni tedesche del prossimo settembre.