2018-04-01
La festa di Pasqua rivela l'anima dell'Occidente
Oggi è Pasqua, la festa religiosa che ha più influito sulla storia, e sulla quale è fondato il mondo moderno, a cominciare da quello occidentale. A cosa si deve la grande importanza della Pasqua cristiana? Trattandosi di una festa religiosa, è molto probabile che Dio abbia a che fare con il suo successo. Ma c'è anche una ragione psicologica e fisiologica, che ha invece a che fare con l'uomo.L'essere umano, infatti, cambia in continuazione. La gran parte delle sue cellule, comprese quelle cerebrali, continuano a morire e a ricostituirsi, rinnovate. L'uomo che si risveglia al mattino è sostanzialmente diverso da quello che si è addormentato la sera prima, anche se non lo sa, o non ci pensa. La sua vita è dal punto di vista organico una continua trasformazione, di cui però vengono riconosciuti solo gli aspetti più vistosi come lo sviluppo sessuale o l'invecchiamento; ma non gli altri processi quotidianamente coinvolti. Gli avvenimenti raccontati in questa settimana nei Vangeli mettono invece al centro dell'antropologia cristiana i due momenti centrali della trasformazione: la morte in croce e la resurrezione.Bisogna morire per risorgere, completamente trasformati, rinati anche se nello stesso corpo. È questo che conta: «L'innocenza sta nel divenire» dice il teologo François-Xavier Durrwell. È per questa centralità del cambiamento e della trasformazione, vero obiettivo dell'esperienza religiosa, che il cristianesimo ha prodotto, da subito, una psicologia e un'antropologia molto dinamiche, che hanno rapidamente cambiato la faccia del mondo. «La salute del nostro spirito è nelle nostre mani», ricordava il filosofo e matematico Gaston Bachelard.Il cristiano è sempre stato una fucina di iniziative, imprese, trasformazioni, a cominciare da quella di sé stesso. Come del resto, prima di lui, l'ebreo, del cui Dio continua lo spirito d'iniziativa. È il Dio padre d'Israele che promette (e incita, attraverso Isaia): «Ecco, io faccio una cosa nuova... Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa».Il cambiamento proposto dal Dio ebraico cristiano, però, non è, soprattutto dopo la nascita di Cristo, una faccenda indolore, tranquilla, ma diventa molto dolorosa e anche vergognosa: una croce. Perché chiede quotidianamente di renderci conto delle spine che abbiamo sulla testa, degli sputi, delle ferite ricevute. E anche di morire, di «elaborare il lutto» di ciò che eravamo, e non siamo e saremo più; entrare nel sepolcro, e accettare che venga tappato con una grande e pesante pietra. Questa morte ci darà una straordinaria leggerezza ed energia, capace di fare rotolare via la pietra e rinascere. La trasformazione, però, chiede una presa di coscienza, un riconoscimento di ciò che occorre abbandonare e ciò che invece fa crescere, la «cosa nuova» di cui parla Isaia. «Vivere è continuamente dire addio», ha scritto il cardinale Godfried Danneels. Insomma un sacrificio. Che però è diventato ormai quasi una parola proibita: siamo nella società del consumo, dell'opulenza, del lusso (e naturalmente del suo rovescio, la miseria e il degrado, ma preferiamo non pensarci). Adesso bisogna «sacrificare il sacrificio» dice un lacanismo veloce e assai comodo. Il mondo non è però un gioco di parole. Croce e resurrezione sono processi trasformativi presenti nel vivente (basta pensare al mondo vegetale e agricolo) che il cristianesimo ha integrato nello sviluppo umano, facendo di questi archetipi il perno di una civiltà. Certo portarli nella propria esistenza costa lacrime e sangue, comunque inevitabili nella vita umana. Se però togli di mezzo la sofferenza e non ne riconosci la capacità formativa, costitutiva della personalità, non cresci mai, non cambi, e neppure aiuti il mondo a cambiare. Il fatto è che solo nell'esperienza del limite e nella sofferenza che esso procura alla fantasia di onnipotenza dell'uomo, conducendolo all'azione finalizzata e «possibile», si cambia e si cresce, e quindi si crea il «nuovo». La forza del cristianesimo rispetto ai discorsi astratti è il suo carattere elementare, organico, aderente alla vita. Selvatico come il Giovanni che battezza Gesù, vestito di pelli e nutrito di locuste. È una religione che non propone norme astratte e sottili ragionamenti, ma corpi, a partire e tornare da quello di Cristo. Che viene mangiato dai fedeli nell'eucarestia, e di cui si narrano gli umori, i sudori, il sangue, gli sputi ricevuti. Se ne venerano le tracce della sofferenza impresse sui tessuti: i segni del viso stravolto dal sudore sul lino della Veronica, le tracce insanguinate del corpo sul lenzuolo della Sindone. Il Cristo è l'attualizzazione del «servo sofferente» di cui parla già Isaia, l'«uomo dei dolori che ben conosce il patire». È proprio questa capacità di accogliere e sopportare in silenzio la sofferenza che fa sì, dice il profeta, che «il mio servo avrà successo/sarà onorato, esaltato, e molto innalzato/ Tanto era sfigurato il suo aspetto /così si meraviglieranno di lui molte genti/ I re davanti a lui si chiuderanno la bocca». Perché sofferenza ed esperienza del limite rendono più forti dei re, che nel loro potere e ricchezza le sperimentano molto meno. Infatti poi è accaduto davvero così. Il cristianesimo ha vinto chi lo voleva distruggere. Perché la fatica e la sofferenza non sono solo quelle sadomasochiste, perverse, che si è inventato l'Illuminismo cerebrale per sostituire quelle fertili e fecondanti dell'Esodo e dei Vangeli. È il percorso doloroso che ogni bambino deve attraversare per separarsi dalla madre, incolpevole terra del faraone, appagante di ogni bisogno. Conquistandosi poi, attraverso traversie di ogni tipo, la propria «terra promessa» dal padre, la propria individuale personalità, la propria vita personale, gli amici, gli altri. Questo tremendo sforzo per diventare sé stessi, fatalmente inchioda l'uomo, ormai consapevole di sé, nel bel mezzo della croce: quel luogo di incontro tra i propri bisogni e piaceri orizzontali, paralleli alla terra e al piano di realtà, e le proprie aspirazioni verticali, verso l'alto e la trascendenza. Una posizione ricca ed emozionante, ma tremendamente difficile da reggere. Malgrado ciò è la proposta della religione più diffusa nel mondo, in forte crescita nei Paesi che oggi vivono il più forte sviluppo, dove il dinamismo è più forte.Mentre in Europa parlare di resurrezione è tabù. Lo era già subito dopo il fatto, quando i dignitari fornirono ai soldati «monete d'argento a sufficienza» (racconta il Vangelo di Matteo), per diffondere la voce che nessuno era risorto, come molti nel popolo aspettavano, e il corpo era stato rubato dai discepoli. Nel continente più vecchio e ricco ci sono stati finora soldi a sufficienza per mettere a tacere la speranza e la volontà di cambiamento. La morte qui è tabù (impronunciabile persino nei necrologi), e ancora di più la sua sorella resurrezione. C'è solo una vita, mummificata nei gesti del consumo. Ma è proprio quando si vuole che niente cambi che tutto può cambiare.