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2024-09-10
Parigi spende, Berlino fa i muri. L’Europa alle prese con la realtà
Pierre Moscovici (Ansa)
Il governo di Michel Barnier non è ancora nato, ma c’è già chi invia dei «pizzini» per complicare la vita al neo premier, almeno in patria, mentre si auspicano «aiutini» dall’Europa.
Il primo a mettere in guardia l’ex Mr. Brexit, ora incaricato di formare il futuro esecutivo di Parigi, è stato Pierre Moscovici, attuale presidente della Corte dei conti francese nonché ex ministro delle finanze transalpino ed ex commissario Ue agli Affari economici e monetari. In un’intervista concessa al quotidiano Le Parisien, Moscovici ha usato parole gravi affermando «che la prossima legge di bilancio sarà senz’altro la più delicata della quinta Repubblica» e che la Francia deve «imperativamente» controllare il proprio debito perché un «Paese troppo indebitato è un Paese impotente».
Il presidente della Corte dei conti ha snocciolato delle cifre da incubo per coloro che saranno chiamati a governare la Francia: «Se non ci saranno cambiamenti» ha spiegato Moscovici, «nel 2024 la Francia avrà un deficit del Pil pari al 5,6%, invece del 5,1% previsto e del 6,2% nel 2025». Per l’ex ministro, il debito pubblico potrebbe toccare il 124%, per questo ci vuole una legge di bilancio «di rottura». La ricetta di Moscovici per ottenere questo elettroshock passa dalla realizzazione di tagli alla spesa ma anche dall’indulgenza dell’Unione europea. Già perché secondo l’ex commissario Ue «Bruxelles preferisce sempre i discorsi veritieri», così «se dobbiamo arrivare al 3% (rapporto deficit-Pil, ndr) nel 2029 invece che nel 2027, spieghiamo loro come puntiamo di arrivarci». Secondo l’ex ministro l’idea di tornare sotto il 3% entro tre anni non è più realistica perché servirebbe «risparmiare un centinaio di miliardi» nello stesso periodo di tempo, ma si tratta di un’impresa quasi impossibile. E Moscovici, questa volta a Repubblica, continua sullo stesso spartito: «Una cosa evidente è che l’Europa oggi ha problemi di competitività e che la sua crescita è troppo bassa: per risolvere i problemi, anche di finanza pubblica, dobbiamo aumentare crescita e competitività, investendo denaro pubblico per realizzare il Green deal e per rafforzare l’autonomia strategica, specie nel settore difesa. Comprendo e condivido le eventuali conclusioni del rapporto di Mario Draghi di aumentare il budget dell’Europa e gli investimenti pubblici e privati, anche completando l’Unione dei capitali».
Le parole di Moscovici sull’atteggiamento che Bruxelles dovrebbe tenere verso Parigi lasciano un po’ sorpresi se le si paragona a quelle che lui stesso, ma nella veste di commissario europeo, aveva rivolto a Roma nel settembre 2018 ai tempi del governo gialloblù di Giuseppe Conte. Nella zona euro «c’è un problema che è l’Italia» diceva Moscovici che, inoltre aveva sconsigliato al nostro Paese di superare il tetto del 3%. «Bisogna riformare l’economia» aveva anche affermato l’allora commissario Ue (arrivando pure a minacciare una procedura di infrazione contro il nostro Paese, ndr). Nel dicembre 2018, un mese dopo l’inizio delle proteste dei gilet gialli, Moscovici aveva ammesso che fosse «possibile sforare il 3% in modo limitato, temporaneo e in condizioni eccezionali», ovvero per non più di «due anni consecutivi» e senza andare oltre «il 3,5%». Tuttavia aveva chiuso la porta alla flessibilità richiesta da Roma; «All’Italia abbiamo dato molta flessibilità» in vari settori e «per l’1,5% del Pil, circa 30 miliardi». Sei anni dopo, la situazione è cambiata e, sebbene l’Italia abbia ancora un forte debito pubblico, la Francia attraversa un periodo economicamente complicato e, forse, inizia a pagare anche il conto di decenni di sprechi di denaro pubblico coperti dal funzionamento del famoso «motore franco-tedesco».
Un meccanismo che, però, sembra essere sempre più inceppato. Certo, Moscovici propone al futuro governo del suo Paese di fare tagli senza aumentare le tasse, sebbene anche questa opzione non sia un tabù. Ma verrebbe da chiedersi perché, quando era ministro delle finanze, non abbia attuato misure di questo tipo. Forse perché lui è un uomo di sinistra, del Partito socialista, mentre Michel Barnier viene dalla destra dei Républicains.
In ogni caso Barnier, altro ex commissario Ue, sentendosi forse sostenuto dalle parole di Moscovici volte a ispirare indulgenza a Bruxelles nei confronti della Francia sul deficit, ha già mandato una richiesta in Commissione Ue. Ovvero quella di concedere a Parigi più tempo per la presentazione di un piano di riequilibrio dei conti pubblici. Tale piano doveva essere presentato a Bruxelles il 20 settembre prossimo, ma il ministero delle finanze transalpino ha invocato disposizioni transitorie per ottenere una dilazione per «un periodo ragionevole», con l’accordo della Commissione.
Da quando c’è il «rischio» che al di là delle Alpi si insedi un governo tendente a destra, sembra che anche i macronisti abbiano scoperto che il Paese non corrisponde sempre a quella start up nation, tanto cara al presidente Emmanuel Macron. Sarà per questo che, anche dalle loro file, partono pizzini al futuro inquilino di Palazzo Matignon. In questi giorni i ministri uscenti dell’Economia e dei Conti pubblici, Bruno Le Maire e Thomas Cazenave, hanno mandato su tutte le furie gli amministrazioni locali accusando queste ultime di essere una delle cause dello sbandamento del bilancio dello Stato. Come dire al premier: non puoi dare contentini ai sindaci. Non dimentichiamo che, in Francia, per candidarsi alle elezioni presidenziali servono 500 patrocini firmati da sindaci, parlamentari o altri eletti. E se la fine del mandato di Macron arrivasse prima del previsto, il sostegno di questi patrocinanti locali sarebbe fondamentale per un qualsiasi candidato come il già dichiarato Edouard Philippe, che è pronto ad aiutare Barnier.
Pure la Germania blinda le frontiere.Controlli a raffica contro i terroristi
La coalizione semaforo guidata da Olaf Scholz non è mai stata così sotto pressione. La popolarità del cancelliere, dell’esecutivo e dei partiti che ne fanno parte (Spd, verdi e liberali) è ai minimi storici e la batosta rimediata alle elezioni regionali in Turingia e Sassonia ha fatto il resto. Tra i tanti motivi che hanno concorso alla crisi del governo, c’è senz’altro la bomba migratoria: innescata da Angela Merkel con la sua politica delle porte aperte, è deflagrata definitivamente negli ultimi mesi, peraltro riempiendo le pagine di cronaca nera. Basti pensare che, appena una settimana prima del voto in Turingia e Sassonia, l’opinione pubblica tedesca è stata scossa dall’efferato eccidio di Solingen: l’ultimo di una lunghissima serie.Insomma, la situazione è chiaramente sfuggita di mano. Ecco perché, dopo aver sostenuto per anni le politiche no border più indiscriminate, adesso le forze di governo tentano di mettere la proverbiale pezza al buco. Qualche giorno fa, Joachim Stamp (Fdp) ha evocato la possibilità che la Germania faccia proprio il Piano Rwanda, elaborato in Gran Bretagna dai Tories e abbandonato di recente dall’esecutivo laburista di Keir Starmer. Ovviamente le smentite si sono sprecate ma anche i socialdemocratici di Scholz si sono comunque messi in moto. Infatti, secondo quanto riferito ieri dagli organi di stampa tedeschi, il ministro dell’Interno, Nancy Faeser, ha intenzione di rafforzare i controlli alle frontiere e di adottare energiche misure per i respingimenti. L’obiettivo, fanno sapere fonti governative, è quello di affrontare con maggiore efficacia la minaccia del terrorismo islamico e di frenare la criminalità transfrontaliera. Le nuove misure, che in teoria sarebbero conformi al diritto dell’Unione europea, dovrebbero entrare in vigore il 16 settembre e avere una durata di sei mesi.Benché a scoppio ritardato, la sinistra teutonica sembra averlo capito: l’immigrazione illegale va combattuta senza più alcun tentennamento. Eppure, vista la poderosa giravolta - e anche per rafforzare la propria precaria posizione politica - il governo intende ottenere l’appoggio sia dei rappresentanti dei Länder sia della dirigenza dell’Unione (Cdu e Csu), ossia la prima forza d’opposizione del Paese: già ieri la Faeser ha comunicato le nuove misure del governo ai cristianodemocratici e ha pure in programma di incontrare i suoi delegati al ministero dell’Interno. La riunione potrebbe avvenire già oggi.Trovare un’intesa bipartisan, tuttavia, non sarà un’impresa semplicissima, anche perché la Cdu - nel difficile tentativo di recuperare gli elettori persi a favore dell’Afd - sull’immigrazione sta alzando i toni di parecchie tacche. Lo stesso leader dei cristianodemocratici, Friedrich Merz, è stato cristallino: i respingimenti devono essere attuati con estrema severità, senza perdersi in troppi distinguo. Tanto che il giurista Hans-Jürgen Papier, ex presidente della Corte costituzionale tedesca, gli ha dato ragione sulle colonne della Bild: «Non ritengo ammissibile la pratica attuale», ha detto, «che di fatto garantisce il diritto di ingresso a chiunque pronunci la parola “asilo”. La pratica attuale rappresenta una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico». Ma anche Thorsten Frei, il presidente del gruppo parlamentare dell’Unione al Bundestag, ha dichiarato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung: per appoggiare le nuove politiche del governo, «occorre respingere tutti i migranti, anche donne e bambini». Non proprio un vocabolario in linea con la retorica sinistrorsa del «restiamo umani»…
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Lo stesso Pierre Moscovici che da commissario contestava i conti italiani invoca investimenti pubblici per la Francia. E la corsa di Afd costringe il governo socialista tedesco a chiudere le frontiere contro clandestini e terroristi.Lo speciale contiene due articoli.Il governo di Michel Barnier non è ancora nato, ma c’è già chi invia dei «pizzini» per complicare la vita al neo premier, almeno in patria, mentre si auspicano «aiutini» dall’Europa.Il primo a mettere in guardia l’ex Mr. Brexit, ora incaricato di formare il futuro esecutivo di Parigi, è stato Pierre Moscovici, attuale presidente della Corte dei conti francese nonché ex ministro delle finanze transalpino ed ex commissario Ue agli Affari economici e monetari. In un’intervista concessa al quotidiano Le Parisien, Moscovici ha usato parole gravi affermando «che la prossima legge di bilancio sarà senz’altro la più delicata della quinta Repubblica» e che la Francia deve «imperativamente» controllare il proprio debito perché un «Paese troppo indebitato è un Paese impotente».Il presidente della Corte dei conti ha snocciolato delle cifre da incubo per coloro che saranno chiamati a governare la Francia: «Se non ci saranno cambiamenti» ha spiegato Moscovici, «nel 2024 la Francia avrà un deficit del Pil pari al 5,6%, invece del 5,1% previsto e del 6,2% nel 2025». Per l’ex ministro, il debito pubblico potrebbe toccare il 124%, per questo ci vuole una legge di bilancio «di rottura». La ricetta di Moscovici per ottenere questo elettroshock passa dalla realizzazione di tagli alla spesa ma anche dall’indulgenza dell’Unione europea. Già perché secondo l’ex commissario Ue «Bruxelles preferisce sempre i discorsi veritieri», così «se dobbiamo arrivare al 3% (rapporto deficit-Pil, ndr) nel 2029 invece che nel 2027, spieghiamo loro come puntiamo di arrivarci». Secondo l’ex ministro l’idea di tornare sotto il 3% entro tre anni non è più realistica perché servirebbe «risparmiare un centinaio di miliardi» nello stesso periodo di tempo, ma si tratta di un’impresa quasi impossibile. E Moscovici, questa volta a Repubblica, continua sullo stesso spartito: «Una cosa evidente è che l’Europa oggi ha problemi di competitività e che la sua crescita è troppo bassa: per risolvere i problemi, anche di finanza pubblica, dobbiamo aumentare crescita e competitività, investendo denaro pubblico per realizzare il Green deal e per rafforzare l’autonomia strategica, specie nel settore difesa. Comprendo e condivido le eventuali conclusioni del rapporto di Mario Draghi di aumentare il budget dell’Europa e gli investimenti pubblici e privati, anche completando l’Unione dei capitali».Le parole di Moscovici sull’atteggiamento che Bruxelles dovrebbe tenere verso Parigi lasciano un po’ sorpresi se le si paragona a quelle che lui stesso, ma nella veste di commissario europeo, aveva rivolto a Roma nel settembre 2018 ai tempi del governo gialloblù di Giuseppe Conte. Nella zona euro «c’è un problema che è l’Italia» diceva Moscovici che, inoltre aveva sconsigliato al nostro Paese di superare il tetto del 3%. «Bisogna riformare l’economia» aveva anche affermato l’allora commissario Ue (arrivando pure a minacciare una procedura di infrazione contro il nostro Paese, ndr). Nel dicembre 2018, un mese dopo l’inizio delle proteste dei gilet gialli, Moscovici aveva ammesso che fosse «possibile sforare il 3% in modo limitato, temporaneo e in condizioni eccezionali», ovvero per non più di «due anni consecutivi» e senza andare oltre «il 3,5%». Tuttavia aveva chiuso la porta alla flessibilità richiesta da Roma; «All’Italia abbiamo dato molta flessibilità» in vari settori e «per l’1,5% del Pil, circa 30 miliardi». Sei anni dopo, la situazione è cambiata e, sebbene l’Italia abbia ancora un forte debito pubblico, la Francia attraversa un periodo economicamente complicato e, forse, inizia a pagare anche il conto di decenni di sprechi di denaro pubblico coperti dal funzionamento del famoso «motore franco-tedesco». Un meccanismo che, però, sembra essere sempre più inceppato. Certo, Moscovici propone al futuro governo del suo Paese di fare tagli senza aumentare le tasse, sebbene anche questa opzione non sia un tabù. Ma verrebbe da chiedersi perché, quando era ministro delle finanze, non abbia attuato misure di questo tipo. Forse perché lui è un uomo di sinistra, del Partito socialista, mentre Michel Barnier viene dalla destra dei Républicains.In ogni caso Barnier, altro ex commissario Ue, sentendosi forse sostenuto dalle parole di Moscovici volte a ispirare indulgenza a Bruxelles nei confronti della Francia sul deficit, ha già mandato una richiesta in Commissione Ue. Ovvero quella di concedere a Parigi più tempo per la presentazione di un piano di riequilibrio dei conti pubblici. Tale piano doveva essere presentato a Bruxelles il 20 settembre prossimo, ma il ministero delle finanze transalpino ha invocato disposizioni transitorie per ottenere una dilazione per «un periodo ragionevole», con l’accordo della Commissione.Da quando c’è il «rischio» che al di là delle Alpi si insedi un governo tendente a destra, sembra che anche i macronisti abbiano scoperto che il Paese non corrisponde sempre a quella start up nation, tanto cara al presidente Emmanuel Macron. Sarà per questo che, anche dalle loro file, partono pizzini al futuro inquilino di Palazzo Matignon. In questi giorni i ministri uscenti dell’Economia e dei Conti pubblici, Bruno Le Maire e Thomas Cazenave, hanno mandato su tutte le furie gli amministrazioni locali accusando queste ultime di essere una delle cause dello sbandamento del bilancio dello Stato. Come dire al premier: non puoi dare contentini ai sindaci. Non dimentichiamo che, in Francia, per candidarsi alle elezioni presidenziali servono 500 patrocini firmati da sindaci, parlamentari o altri eletti. E se la fine del mandato di Macron arrivasse prima del previsto, il sostegno di questi patrocinanti locali sarebbe fondamentale per un qualsiasi candidato come il già dichiarato Edouard Philippe, che è pronto ad aiutare Barnier.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/parigi-spende-berlino-fa-muri-2669152733.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pure-la-germania-blinda-le-frontiere-controlli-a-raffica-contro-i-terroristi" data-post-id="2669152733" data-published-at="1725915804" data-use-pagination="False"> Pure la Germania blinda le frontiere.Controlli a raffica contro i terroristi La coalizione semaforo guidata da Olaf Scholz non è mai stata così sotto pressione. La popolarità del cancelliere, dell’esecutivo e dei partiti che ne fanno parte (Spd, verdi e liberali) è ai minimi storici e la batosta rimediata alle elezioni regionali in Turingia e Sassonia ha fatto il resto. Tra i tanti motivi che hanno concorso alla crisi del governo, c’è senz’altro la bomba migratoria: innescata da Angela Merkel con la sua politica delle porte aperte, è deflagrata definitivamente negli ultimi mesi, peraltro riempiendo le pagine di cronaca nera. Basti pensare che, appena una settimana prima del voto in Turingia e Sassonia, l’opinione pubblica tedesca è stata scossa dall’efferato eccidio di Solingen: l’ultimo di una lunghissima serie.Insomma, la situazione è chiaramente sfuggita di mano. Ecco perché, dopo aver sostenuto per anni le politiche no border più indiscriminate, adesso le forze di governo tentano di mettere la proverbiale pezza al buco. Qualche giorno fa, Joachim Stamp (Fdp) ha evocato la possibilità che la Germania faccia proprio il Piano Rwanda, elaborato in Gran Bretagna dai Tories e abbandonato di recente dall’esecutivo laburista di Keir Starmer. Ovviamente le smentite si sono sprecate ma anche i socialdemocratici di Scholz si sono comunque messi in moto. Infatti, secondo quanto riferito ieri dagli organi di stampa tedeschi, il ministro dell’Interno, Nancy Faeser, ha intenzione di rafforzare i controlli alle frontiere e di adottare energiche misure per i respingimenti. L’obiettivo, fanno sapere fonti governative, è quello di affrontare con maggiore efficacia la minaccia del terrorismo islamico e di frenare la criminalità transfrontaliera. Le nuove misure, che in teoria sarebbero conformi al diritto dell’Unione europea, dovrebbero entrare in vigore il 16 settembre e avere una durata di sei mesi.Benché a scoppio ritardato, la sinistra teutonica sembra averlo capito: l’immigrazione illegale va combattuta senza più alcun tentennamento. Eppure, vista la poderosa giravolta - e anche per rafforzare la propria precaria posizione politica - il governo intende ottenere l’appoggio sia dei rappresentanti dei Länder sia della dirigenza dell’Unione (Cdu e Csu), ossia la prima forza d’opposizione del Paese: già ieri la Faeser ha comunicato le nuove misure del governo ai cristianodemocratici e ha pure in programma di incontrare i suoi delegati al ministero dell’Interno. La riunione potrebbe avvenire già oggi.Trovare un’intesa bipartisan, tuttavia, non sarà un’impresa semplicissima, anche perché la Cdu - nel difficile tentativo di recuperare gli elettori persi a favore dell’Afd - sull’immigrazione sta alzando i toni di parecchie tacche. Lo stesso leader dei cristianodemocratici, Friedrich Merz, è stato cristallino: i respingimenti devono essere attuati con estrema severità, senza perdersi in troppi distinguo. Tanto che il giurista Hans-Jürgen Papier, ex presidente della Corte costituzionale tedesca, gli ha dato ragione sulle colonne della Bild: «Non ritengo ammissibile la pratica attuale», ha detto, «che di fatto garantisce il diritto di ingresso a chiunque pronunci la parola “asilo”. La pratica attuale rappresenta una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico». Ma anche Thorsten Frei, il presidente del gruppo parlamentare dell’Unione al Bundestag, ha dichiarato alla Frankfurter Allgemeine Zeitung: per appoggiare le nuove politiche del governo, «occorre respingere tutti i migranti, anche donne e bambini». Non proprio un vocabolario in linea con la retorica sinistrorsa del «restiamo umani»…
Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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Ansa
Questo, infatti, «prevede un principio fondamentale del nostro ordinamento, non derogabile neppure da fonti internazionali. Insieme all’articolo 2», ossia quello che sancisce l’inviolabilità dei diritti umani, «può fungere da controlimite anche verso il diritto Ue, che non avrebbe ingresso in Italia».
Prodigi dell’ideologia: all’improvviso, il corpaccione di direttive e regolamenti europei non è più sacro, inviolabile, sistematicamente anteposto alle leggi nazionali; se di mezzo ci sono i rimpatri veloci, oppure l’idea che Egitto, Bangladesh e Tunisia siano Stati nei quali è lecito rispedire i migranti, i giudici riscoprono nella nostra Costituzione un argine. E anziché disapplicare le norme italiane, vietano l’«ingresso» a quelle europee.
Peraltro, Minniti, già candidato al Csm per Area, corrente di centrosinistra, nel 2021, era stato uno dei primi, un paio d’anni fa, a sconfessare la lista governativa dei Paesi sicuri: bocciò la decisione di infilarci dentro proprio la Tunisia. Va però segnalato che, a dispetto dell’omonimia con il ministro piddino, noto per aver messo un freno alle missioni delle Ong nel Mediterraneo, quello della Costituzione «come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero» - citiamo il titolo di un suo articolo del 2018 - era un vecchio pallino di Minniti. Ne scrisse già sette anni fa, appunto, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Tanto per fugare ogni eventuale dubbio sulla sua neutralità politica.
La posizione delle toghe, dunque, è questa: se le leggi italiane sono più severe delle norme europee in materia di immigrazione, allora bisogna snobbare le leggi nazionali, in nome del primato del diritto Ue, autenticamente umanitario; ma se l’Ue, su impulso dell’Eurocamera e del Consiglio, impone un giro di vite, allora il primato del diritto europeo va a farsi benedire, perché gli subentra il controlimite della Costituzione. Oltre alla possibilità, accordata dalla Corte di Lussemburgo ai magistrati e rivendicata da Minniti, di questionare gli elenchi dei Paesi sicuri.
È un meccanismo che si mette in moto ogni volta che Roma o Bruxelles cercano di moderare i flussi migratori e di accelerare le espulsioni. Ed è un peccato che, tra i «principi fondamentali del nostro ordinamento, non derogabili neppure da fonti internazionali», di cui parlava Minniti al Manifesto, insieme alle prerogative degli stranieri, non vengano considerate quelle degli italiani.
Nel novero dei «diritti inviolabili», sancito dall’articolo 2 della Carta, dovrebbero rientrare tutti quelli indicati dalla Dichiarazione Onu del 1948. Compresi il diritto alla vita e alla «sicurezza della propria persona». Che, a quanto risulta dalle statistiche del Viminale, sono messi a repentaglio dall’invasione degli immigrati, i quali vengono arrestati o denunciati per il 60% dei reati predatori, senza contare il 44% delle violenze sessuali, benché gli stranieri siano solo il 9% della popolazione.
E poi, la Costituzione non afferma che la sovranità appartiene al popolo? Nell’esercitarla, i rappresentanti eletti in Parlamento non possono certo perpetrare degli abusi sulle minoranze. Ma in mezzo ai tanti diritti intoccabili di bengalesi, egiziani e subsahariani, possibile non ci sia uno spazietto per il diritto del popolo a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione? A rendere più efficace e rapido il sistema dei rimpatri?
Non vogliamo spingerci fino a sostenere un argomento estremo: siccome la Costituzione fu sospesa durante la pandemia a detrimento degli italiani, rinchiusi, multati se circolavano dopo le dieci di sera, esclusi da lavoro e stipendio se non si vaccinavano, allora essa può ben essere sospesa allo scopo di controllare i confini e tutelare l’ordine pubblico. No, il punto è un altro: siamo così sicuri che rimandare a casa sua un adulto sano, che non rischia di essere perseguitato né ucciso in guerra, senza aspettare i consueti «due anni» che secondo Minniti impiegano le Corti per pronunciarsi, significhi fare carne di porco della nostra nobile civiltà giuridica? Va benissimo preoccuparsi della «protezione dello straniero». Ma gli italiani chi li protegge?
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Ansa
L’ordinanza, firmata dal giudice Ludovico Morello, dispone «la cessazione del trattenimento» nel Cpr, smentendo la convalida già emessa dalla stessa Corte e arrivando a smontarla, senza che nel frattempo sia accaduto nulla che non fosse già noto. E infatti gli uffici del ministero dell’Interno starebbero valutando di impugnare la decisione.
Il giudice, nella premessa, ricorda che il ricorso è ammesso «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Poi interpreta: «Seppure non possa parlarsi di revoca giurisdizionale della convalida, è da ritenere consentita comunque una domanda di riesame del trattenimento dello straniero e che, mancando una apposita disciplina normativa al riguardo, esso possa farsi valere con lo strumento generico del procedimento camerale […] per ottenere un diverso esame dei presupposti del trattenimento alla luce di circostanze di fatto nuove o non considerate nella sede della convalida». Alla base della decisione ci sarebbe quindi l’assenza «di un’apposita disciplina normativa». Ed ecco trovato il varco. Il primo elemento indicato riguarda i procedimenti penali richiamati nel decreto di convalida: uno, nato su segnalazione della Digos, per le parole pronunciate durante una manifestazione, il 9 ottobre, che sembravano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, il secondo per un blocco stradale risalente allo scorso maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il giudice scrive che «gli atti relativi a tali procedimenti non risultano essere stati secretati» e che l’assenza di segreto era stata, «contrariamente a quanto si pensava in un primo momento», ignorata nella decisione precedente, che aveva valorizzato proprio quel presupposto «a supporto del giudizio di pericolosità». Il primo procedimento, secondo il giudice, sarebbe stato «immediatamente archiviato (in data 16 ottobre, ndr) da parte della stessa Procura», perché le dichiarazioni del trattenuto sarebbero «espressione di pensiero che non integra estremi di reato». Ma se l’archiviazione è del 16 ottobre e la convalida è del 28 novembre, il fatto non è sopravvenuto. È precedente. Eppure viene trattato come elemento nuovo.
Non solo. La Corte precisa, citando la Costituzione, che le dichiarazioni dell’imam sarebbero «pienamente lecite» e aggiunge che la «condivisibilità o meno e la loro censurabilità etica e morale» è un giudizio che «non compete in alcun modo» alla Corte e «non può incidere di per sé solo sul giudizio di pericolosità in uno Stato di diritto».
«Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza», ha commentato sui social il premier Giorgia Meloni, aggiungendo: «Dalle mie parti significa giustificare, se non istigare, il terrorismo. Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». La stessa dinamica si ripete sul blocco stradale del 17 maggio 2025. La Corte afferma che «dall’esame degli atti emerge una condotta del trattenuto non connotata da alcuna violenza». Anche qui non viene indicato alcun fatto nuovo. Cambia solo il giudizio. Anche i contatti con soggetti indagati o condannati per terrorismo vengono ridimensionati. Nella precedente decisione a quelle relazioni era stato attribuito un certo peso specifico: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all’organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Rapporti che ora diventano «isolati, decisamente datati» e «ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida». Spiegazioni che erano già state rese prima del 28 novembre, ma che allora non avevano impedito la convalida.
Nel decreto di Piantedosi, l’imam veniva indicato come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Unico passaggio, quello sulla Fratellanza musulmana, al quale il giudice non fa cenno.
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