2025-05-19
Paolo Agnelli: «Con i giusti partner potrei prendere in mano l’Ilva»
L’industriale dell’alluminio: «Non è tanto questione di soldi: bisogna avere le garanzie e il tempo per fare il necessario. Assurdo toglierla ai Riva e darla ai nostri concorrenti».Paolo Agnelli: un nome ed un cognome che in Italia, e nel mondo, significano alluminio. Ma insolitamente «editore» in un’iniziativa di Confimi. Associazione che lei presiede. Avete pubblicato una sorta di vocabolario dell’industria. O sbaglio?«L’idea nasce da una nostra iniziativa. Fortunata e ben fatta. L’anno scorso abbiamo creato una mostra fotografica che adesso è itinerante. È partita da Roma. Sono fotografie di nostre vecchie aziende. Coi loro macchinari, le fabbriche, i volti dei titolari che sono poi la faccia di quelle che da sempre chiamiamo piccole e medie imprese. Ci sono nomi che una volta erano famosi. Non so, se ricorda i pennelli Cinghiale?»Come no… «Non ci vuole un pennello grande. Ma un grande pennello!».«Penso sia rimasta una delle pubblicità più famose. Abbiamo mostrato il volto di queste imprese. Oggi le cosiddette pmi le misuriamo con un numero: sono tali se arrivano ad avere fino a 249 persone occupate. Ma immagini i salti mortali e cosa facevano allora queste realtà con 50 dipendenti e senza computer. Perché le piccole imprese oltre ad avere il volto hanno un’anima che le grandi multinazionali non hanno. Pensi al calcio…»Sì!«Una volta c’erano i vecchi presidenti proprietari. Oggi di chi è il Milan? Di chi è l’Inter? Strutture, manager, debiti…».Boh…«Appunto. E prima con la mostra abbiamo mostrato il volto. Ed ora con questo inventario raccontiamo la lingua di queste aziende. Che quasi sempre parte dal dialetto. E da lì sono nate parole riconosciute nella loro nobiltà da istituti come Treccani ed Accademia della Crusca. Sono cresciuto giocando in azienda con gli operai. La mia vita di imprenditore parte da lì. I miei genitori non volevano che io parlassi il dialetto in casa. Ma per farmi capire dagli operai dovevo masticarlo».Operazione nostalgia? O un atto di accusa? Visto che l’Italia si è fortemente deindustrializzata in questi ultimi 20 anni?«Premetto che non è morto nulla, perché consideri che tante aziende ancora sopravvivono e vi lavorano stranieri immigrati e talmente integrati che parlano il dialetto. Il tema però rimane. Ed il nostro è più un atto di accusa. E non un’operazione nostalgia. Torno sempre lì. Al prezzo dell’energia. Sa che rispetto a tre anni fa io pago di energia 1,5 milioni in più? Si può essere competitivi in questa situazione? Noi imprese italiane paghiamo l’energia fino a quattro volte di più dei nostri concorrenti. E non sto parlando solo di aziende cinesi, indiane o turche. Ma anche europee. Non so se mi spiego…».Sì!«Ce la meniamo con discorsi come l’Europa unita ed abbiamo messo in pista una politica che di fatto ci ha deindustrializzato. I polacchi bruciano il carbone e se ne fregano. Noi il gas, che costa molto di più. La Francia ha il nucleare e la Spagna un bel po’ di sussidi visto che hanno tanto fotovoltaico. E l’humus industriale italiano si è inaridito. Sia chiaro. È una tendenza che non è affatto iniziata con questo governo. Ma che parte da lontano. E se si fa competizione anche sul prezzo con questi costi dell’energia…».Il messaggio di Paolo Agnelli è: la politica industriale parte sempre dall’energia.«Ma sì, perché quando parli di manifattura sono tre gli elementi fondamentali che poi formano il prezzo. Le materie prime, il costo del lavoro e l’energia. Vede, le materie prime in Italia notoriamente non le abbiamo. E dobbiamo andare a cercarcele in giro per il mondo. Lasci stare che siamo diventati bravi. Ma a parole i politici ci dicono di favorire e sviluppare l’economia circolare. Ed io sono d’accordissimo. Non d’accordo, d’accordissimo. I rottami nella mia industria sono fondamentali. Materia prima anche loro. E l’imbecillità dell’Europa come si manifesta? Si lascia che l’India e la Cina, Paesi peraltro intelligenti industrialmente, ci portino via 2.750.000 tonnellate di rottami. Quella roba non doveva uscire. Sarebbe stata essenziale per la nostra industria dell’energia e dell’alluminio. Avremmo dovuto mettere un blocco. Anche questi si chiamano dazi. Dazi in uscita anziché all’entrata. Si fa un bel parlare di libera competizione senza dazi, ma questa ha un senso se le regole del gioco sono le stesse per tutti. Se tu bruci il carbone e io no, e i tuoi operai costano un decimo dei miei, dove sta il libero mercato, secondo lei?»Dall’alluminio all’acciaio. Non saranno la stessa cosa, ma un po’ parenti si. Come si risolve il caso Ilva secondo lei, Agnelli? Il dossier è piuttosto complicato!«Complicato sì. Parecchio. Troppo. Gli errori fatti sono enormi. Ma come fai a vendere Ilva al tuo maggior concorrente? Mi riferisco al politico di turno che ha fatto questa scelta. Ma tu vai a vendere l’azienda a chi compete con lei? Cosa hanno fatto i francesi e gli indiani? L’hanno tenuta lì e sorvegliata. Si sono portati via il portafoglio clienti. Niente più che un tabulato. Ed ora l’azienda è rimasta un mezzo cadaverino. Scusi il termine. Loro si sono fatti i loro affari. E noi abbiamo un’azienda morta. L’errore è ancora più a monte. I Riva avranno commesso errori? Per carità. Ma loro sapevano fare l’acciaio e sono degli imprenditori. Non gli strappi l’azienda di mano per darla in mano a degli incompetenti. Li obblighi a fare quanto necessario con i mezzi che tu Stato hai a disposizione. Ora vediamo e speriamo che i compratori che hanno individuato sappiano cosa sia l’acciaio. Servono imprenditori veri».La domanda sorge spontanea ed estemporanea. Lei se la sentirebbe di prendere in mano l’Ilva?«Io vengo prima di tutto dall’alluminio. E ho seguito diversi dossier. A partire da Alcoa. Per l’acciaio che posso dire? Chi sono i partner? Ne sanno di acciaio? Se sì, direi parliamone e vediamo. Ma pure qui non è mica tanto questione di soldi. Se ti accomodi, diventi presidente e arriva prima l’Asl? E poi la magistratura? E vai dritto in galera? Si può lavorare così? Tu Stato cosa metti sul piatto per garantire la bonifica, che non hai mai fatto quando il padrone eri tu e l’azienda era in mano ad Italsider? Poi hai girato la patata bollente in mano ai bresciani ed è finita come è finita. Chiunque arrivi deve avere il tempo necessario e le garanzie per poter fare quanto necessario con tranquillità in tot anni. Aiuti da scalare sul prezzo di acquisto, per intendersi».Parliamo dei dazi. Alla fine, gira e rigira, ci ha rimesso l’alluminio…«Non solo l’alluminio, ma il settore che nel complesso chiamerei “allumotive”. Allumino più auto. L’incidenza sul prodotto finito auto dell’allumino ieri era all’80%. Oggi sulle auto elettriche che devono essere leggere, come l’alluminio appunto, questa incidenza arriva quasi al 99%. L’alluminio viene tassato coi dazi come materia prima in sé, ma poi si impone il dazio anche sull’auto. È un intreccio di tariffe. Tariffe che si sommano ad altre tariffe. E comunque i dazi non li ha inventati Trump, anche se lui alla sua maniera ci marcia sopra. È dal 1947 che il cosiddetto Gatt, antesignano del Wto, riconosceva e giustificava la necessità dei dazi su Paesi che non facevano una giusta competizione commerciale. I dazi possono essere uno strumento necessario per rendere il mercato effettivamente non truccato. Se preceduti da una giusta valutazione».Chi sono i suoi principali competitor, Agnelli?«India e Cina soprattutto. E sono quelli che “bombardano” di più. Mi passi il termine. Non competono con le nostre regole. Non sto dicendo che lavorano male per carità. Ma la competizione non è equa. Ed il dazio che l’Ue ha imposto qualche anno fa del 38% sui loro prodotti per noi è stato importantissimo. Altrimenti ci avremmo rimesso il ****».Chiaro…«Alla base di ogni decisione, serve conoscere il mondo dell’impresa».La soluzione del problema energia passa da dove, secondo lei?«Nell’immediato dall’abbassamento delle tasse sull’energia. Accise e imposte varie. Che, pronti via, ne raddoppiano il costo. Poi speriamo nella fine della guerra perché abbiamo bisogno di acquistare il gas dove costa di meno. Infine, il nucleare di ultima generazione. Una grossa azienda americana mi ha illustrato una soluzione che a me sembrava fantascienza. Una piccola centrale grande quanto un container. La metto nel cortile della mia fabbrica e mi dà l’energia che mi serve. Mi sembrava improbabile. E mi sono informato da altri per capire se fosse una sciocchezza. Mi hanno risposto: “Ma certo che no. Hai presente il sommergibile a propulsione nucleare? Il loro motore è una piccola centrale. Quella che ti hanno offerto”. La trovo una soluzione intelligente anche in termini di diversificazione del rischio. Gli incidenti che possono verificarsi sono molto meno gravi che non considerando una grande centrale nucleare».
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