2021-04-24
Centrale d’ascolto «occulta» nel Palamara-gate. L’inchiesta adesso è a rischio
Le indagini difensive di Cosimo Ferri smontano la versione della società di intercettazioni. I dati trasmessi dal trojan passavano per Napoli: nei guai un manager della Rcs.Il processo avviato dalla Procura di Perugia contro Luca Palamara & C. è finito sull'orlo di un buco nero. La canna della presunta pistola fumante degli inquirenti, le intercettazioni effettuate con il celeberrimo trojan, come nei cartoni animati, si è rivolta contro lo sparatore. Infatti per inoculare quel virus digitale nell'iphone di Palamara avrebbero dovuto essere rispettate alcune elementari regole d'ingaggio e sembra, come è stato rivelato nell'udienza preliminare di ieri, che non sia stato fatto.Per esempio non sarebbe stato indicato correttamente il luogo fisico da cui sono transitati i dati trasmessi dalla microspia inserita nel telefonino. Sino a ieri era per tutti pacifico che quel luogo fosse una stanza appositamente attrezzata dentro alla Procura di Roma da una società informatica privata milanese, la Rcs Spa, che aveva fornito il captatore. Invece, le registrazioni delle famose serate di Palamara con i deputati Luca Lotti e Cosimo Ferri e altri consiglieri del Csm sono transitate su un server che si trovava a pochi metri dalla stazione di Napoli Centrale e precisamente dentro la Procura partenopea, al tredicesimo piano dell'isola E/5 (nello stesso Centro direzionale, in un edificio adiacente, la Rcs ha anche una sede di rappresentanza). Per questo, adesso, è stato aperto un fascicolo d'inchiesta per frode nelle pubbliche forniture e altri reati e le difese sostengono che quel materiale sia diventato tutto inutilizzabile. Il cinquantenne ingegnere Duilio Bianchi, direttore della cosiddetta divisione Ip della Rcs (che dà assistenza tecnica sulle intercettazioni telematiche), oggi indagato, aveva provato a negare in una sede istituzionale come il Csm, durante il procedimento disciplinare contro Palamara (poi espulso). L'avvocato generale Piero Gaeta, il 30 settembre 2020, gli aveva chiesto: «Quindi ci conferma che non c'era assolutamente alcun server intermedio tra l'apparecchio intercettato e il server della Procura?». E Bianchi aveva risposto: «No, va direttamente sul server della Procura». Che, come aveva già precisato, era quella della Capitale.Lo schemino delle captazioni che aveva consegnato agli inquirenti era chiarissimo: dal cellulare, attraverso la nuvoletta di Internet, i dati venivano trasferiti direttamente nei server della «Procura di Roma». Ma nella vicenda c'era anche un'altra questione non troppo trasparente, ovvero la paternità della app Carrier inoculata dentro al cellulare di Palamara. I vertici dell'azienda hanno sempre detto di aver prodotto in proprio il software, il cui certificato, però, risulta intestato alla Tykelab di Roma, Srl schermata da una fiduciaria. Solo ora è stato chiarito che dietro alla fiduciaria ci sarebbero i vertici della Rcs. Tutto questo si è venuto a sapere grazie alla testardaggine della difesa del parlamentare di Italia viva Ferri, rappresentata dall'avvocato Luigi Panella e dal consulente tecnico Paolo Reale. Quest'ultimo si è accorto che l'indirizzo Ip del server su cui venivano deviati i dati registrati dal trojan si trovava in Campania anziché nel Lazio e ha anche scoperto la proprietà dell'app. Con queste informazioni in mano, Ferri ha presentato alla Procura di Napoli un esposto, ipotizzando i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato e di associazione per delinquere. Le sue richieste sono state girate dagli inquirenti campani alla Procura di Perugia e da questa a quella di Firenze che da tempo indaga sulle presunte anomalie dell'indagine umbra anche sulla base di un'analoga denuncia di Palamara. Risultato: adesso Bianchi, in Toscana, è indagato per frode nelle pubbliche forniture, falso ideologico in atto pubblico per induzione (avrebbe tratto in errore i magistrati di Perugia) e falsa testimonianza innanzi al Csm.Le dichiarazioni dell'ingegnere hanno aperto una voragine in cui rischia di essere risucchiata l'intera inchiesta, visto che l'utilizzo dei computer napoletani non è mai stato approvato dall'autorità giudiziaria. Sul punto Panella aveva dato battaglia a inizio marzo davanti al Csm: «Qui stiamo parlando eventualmente di un server che non risulta autorizzato da nessuna parte, cioè di un server, per usare un'espressione cara a questo procedimento, occulto, di cui non vi era traccia fino a che l'ingegnere Reale non è riuscito a risalire». E per farlo ha dovuto utilizzare informazioni trovate quasi per caso su un cellulare «infettato» nello stesso periodo dalla Rcs nell'ambito di un procedimento della Procura di Roma, poiché i dati di connessione del captatore introdotto nel cellulare di Palamara non erano stati copiati dalla Guardia di finanza. Ma si sa la fortuna aiuta gli audaci.La Procura di Perugia ha convocato Bianchi per l'udienza del 3 maggio e l'ingegnere sarà sentito non più come testimone, ma come indagato.Nell'interrogatorio di Firenze, effettuato due giorni fa davanti al procuratore aggiunto Luca Turco, Bianchi, difeso dagli avvocati Leopoldo Facciotti e Roberto Paciucci, ha fatto un'ammissione abbastanza stupefacente: «La Rcs Spa ha iniziato a lavorare con i captatori informatici intorno all'anno 2016. Tali captatori per poter funzionare si basavano sulla seguente architettura: presso i locali server della Procura di Napoli avevamo installato un server denominato Css con indirizzo Ip pubblico di Fastweb […] che serviva da transito per tutte le Procure inquirenti del territorio nazionale». Panella commenta: «Sembra si stia parlando di un centro di raccolta per tutta Italia e, questo, a me pare il dato più sconcertante di tutti, giacché non riesco a immaginare con quali accordi ciò sia potuto avvenire; non certo con l'autorizzazione dei magistrati di Perugia che avevano espressamente autorizzato solo la trasmissione al server di Roma, come del resto prospettata da Rcs. Come ho già detto davanti al Csm, potrebbero configurarsi dei pericoli per la democrazia in questo Paese». Il verbale di Bianchi contiene altre informazioni preziose: i dati «rimanevano sui server Css e Hdm (entrambi collocati a Napoli, ndr) per il tempo strettamente necessario alla ricostruzione e trasferimento verso il server Ivs di Roma, e venivano cancellati automaticamente dall'applicativo di gestione dopo la trasmissione. In tale fase, ai dati, che non erano criptati, potevano avere eventualmente accesso in remoto, solo gli amministratori di sistema di Rcs Spa dalla sede di Milano». Insomma dati sensibili non protetti potevano essere monitorati da un ufficio esterno alle Procure interessate. Oggi il «grande orecchio» napoletano sarebbe attivo solo «per un captatore puntato su Reggio Calabria».Ma non è finita. Continua Bianchi: «Ho ascoltato la registrazione su Radio Radicale dell'intervento della difesa (di Ferri, ndr) che esponeva di aver individuato un Ip di Napoli come destinatario della trasmissione di dati […]. Mi sono allora reso conto dell'errore che avevo fatto nella descrizione dell'architettura indicata nella nota del 28 luglio 2020 indirizzata alla Procura della Repubblica di Perugia ed esposta in sede di audizione al Csm». Dunque Bianchi si sarebbe accorto di aver nascosto ai magistrati informazioni fondamentali ascoltando gli avvocati degli indagati. C'è infine il passaggio sulla Tykelab, il cui nome deriva dal greco, dal momento che Tyke era la dea della fortuna e del destino. Dice Bianchi: «Tykelab è di proprietà per il 10% della signora Alessandra Tancredi, mentre il 90% è detenuto da una fiduciaria denominata Servizio ltalia del gruppo Bnp Paribas su incarico di Michele Tomba, Alberto Chiappino, Fabio Cameirana, rispettivamente consigliere delegato, amministratore delegato e presidente del Consiglio di amministrazione di Rcs Spa». Ora gli indagati sanno da chi dipenda il loro «destino».