Nell’ultimo sabato di giugno è andato in scena il pride in sette città italiane: Milano, Napoli, Bari, Cagliari, Dolo, Ragusa e Treviso. Si conclude così il mese dell’orgoglio Lgbtqia+, trenta giorni di festeggiamenti - probabilmente la più lunga solennità nella società post-cristiana - in cui si celebrano le battaglie e i valori dell’Occidente contemporaneo: la fluidità, l’autoidentificazione, gli asterischi. Con, magari, qualche nuova (o vecchia) rivendicazione, come la gestazione per altri, il matrimonio omosessuale e le famiglie omogenitoriali.
Oltre ai carri colorati, ci sono persone che sfilano (spesso mezze nude), vari cartelli provocatori - «Perdoname Francisco por mi vida frocia» recita uno a Milano, chiaramente indirizzato al Papa - e le abituali contraddizioni dell’evento. Come la denuncia, in una stampa su un carro di Milano, dei Paesi in cui gli omosessuali vengono perseguiti - tra cui spicca la bandiera dell’Iran - e, pochi metri dopo, la bandiera palestinese in segno di solidarietà col popolo di Gaza (che con ogni probabilità non li tratterebbe in maniera troppo dissimile da Teheran). O, contemporaneamente, l’autoesclusione dal pride milanese di Keshet Italia, l’associazione Lgbtqia+ ebraica, per via del «clima di odio crescente intorno alla loro partecipazione».
Venerdì sera, al pride park di Napoli, si sono ritrovati i due leader dell’opposizione, Elly Schlein e Giuseppe Conte. Il segretario dem, dal palco, ha affermato che le destre «stanno calpestando i diritti delle persone in modo vergognoso» e che i diritti Lgbtqia+ sono «dei diritti fondamentali, che non possono essere messi in discussione». Subito dopo, la Schlein ha invocato la difesa delle famiglie omogenitoriali e il matrimonio egualitario per tutti. Infine, per suggellare il dogma dei diritti, ha rilanciato la lotta per una legge contro l’omolesbotransfobia, in modo da zittire definitivamente le voci non allineate.
A Milano, invece, dopo aver ripetuto pedissequamente le stesse cose, la dem si è anche dichiarata felice per le parole di Marina Berlusconi che, in una recente intervista al Corriere, si è detta «più in sintonia con la sinistra di buon senso» su aborto, fine vita e diritti Lgbt: «Sono felice ma non capisco perché la destra italiana è decisa a rimanere la più indietro in Europa su questi temi». Ma nel capoluogo lombardo la stessa è stata anche protagonista di un murales di AleXsandro Palombo dal titolo Rainbow Schlein. Love, Rights and $urrogacy. L’opera la ritrae sul dorso di una cicogna, sorridente e con indosso un costume arcobaleno, mentre il pennuto regge con il becco un fagotto verde con disegnato il simbolo del dollaro, al cui interno si trova un neonato e da cui fuoriescono banconote. Un riferimento piuttosto esplicito alla pratica dell’utero in affitto e alla compravendita di bambini, con una vena apparentemente polemica sui costi sempre più alti che comporta la pratica, alle quale possono ricorrere ormai solamente i gay ricchi.
«Il tuo mondo è all’incontrario», si legge invece su uno dei tanti cartelli dei manifestanti di Milano, in questo caso rivolto a Roberto Vannacci e al suo libro. Eppure, non è il mondo del generale quello in cui aderisce al pride anche l’Ordine interprovinciale delle ostetriche di Bergamo, Cremona, Lodi, Milano e Monza-Brianza. Qualcosa al contrario ci deve essere se l’ordine professionale - quindi, non una singola ostetrica - di chi, per lavoro, accompagna e assiste la nascita di una nuova vita, di chi si prende cura delle donne che diventano mamme, sfila insieme a chi neanche troppo velatamente promuove l’utero in affitto e forme selvagge di procreazione assistita.
«Together for lgbtqia+ rights», recita il titolo dell’evento promosso dalle ostetriche. Quali diritti, però, non è dato sapere. L’ordine in questione, continua il testo, «si unisce ad altri ordini delle professioni socio sanitarie. L’obiettivo della partecipazione alla parata è quello di sostenere che le ostetriche ci possono assicurare una assistenza inclusiva, libera da discriminazioni, omofobia e transfobia, dignità e rispetto per tutt* indipendentemente dall’orientamento sessuale, identità o espressione di genere». Già soltanto l’uso dell’asterisco, simbolo di un’ideologia che riduce l’essere donna a una scelta soggettiva dell’individuo, basterebbe a far impallidire ma l’inclusività (che poi in italiano sarebbe inclusione) in realtà è già prevista nei codici deontologici.
La decisione, d’altra parte, non è piaciuta a tutti. Un gruppo di 64 ostetriche, di cui 44 appartenenti all’ordine delle ostetriche delle Province lombarde (un numero superiore alle aderenti al pride, in tutto una quarantina), hanno scritto una lettera indirizzata alla presidente, Nadia Rovelli, con in copia il presidente del Fnopo, la Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica. In essa, viene richiesto di rimuovere l’adesione al pride dal sito ufficiale. Le ragioni addotte sono diverse, tra cui il fatto che l’ordine «deve garantire alle\agli aderenti una condotta apolitica e apartitica» e il suo nome «non deve essere accostato ad alcuna iniziativa organizzata da movimenti, partiti, lobbies associate a qualsivoglia ideologia, a tutela della sua autonomia e indipendenza». Inoltre, esso «non ha un ruolo sociale e rappresentativo dal punto di vista etico, culturale, morale, se non strettamente su temi professionali e deontologici della figura dell’ostetrica».
«Tale posizione pubblica», continua, «non corrisponde al pensiero unanime di tutte le\gli aderenti» e «l’adesione risulta inappropriata».





