2023-01-27
Orso Maria Guerrini: «Un solo rimpianto: non aver fatto Diabolik»
Orso Maria Guerrini (Getty images)
Il suo volto inconfondibile ha attraversato il cinema, la televisione e la pubblicità per oltre 50 anni. Un signore d’altri tempi, rampollo di una nobiltà d’avanguardia: «Quella degli attori è una categoria infame. Ci sono centinaia di motivi per non fare questo lavoro».Orso Maria Guerrini è entrato migliaia di volte nelle nostre case come testimonial, con il baffo, di una nota marca di birra, ma il suo volto inconfondibile ha attraversato il cinema e la televisione per più di cinquant’anni. Ancora attivissimo, si concede qualche bilancio esistenziale, a pochi mesi di distanza dal suo ottantesimo compleanno, lasciando trasparire un po’ di amarezza, ma sempre mitigata da una brillante ironia. Un signore di altri tempi, con quattro quarti di nobiltà incorporati.Lei è nato a Firenze, ma la sua famiglia è di Cesena.«La famiglia Guerrini è romagnola, mentre la famiglia di mia madre, i Bargagli Petrucci, sono senesi da secoli. Dal mix Cesena-Siena è venuto un fiorentino, pensi un po’».Dopo una lunga causa giudiziaria è riuscito a ottenere la proprietà del palazzo della sua famiglia, a Cesena, Palazzo Guerrini Bratti. «Mio zio Leon Francesco Guerrini Bratto è stato vittima di una truffa e di circonvenzione, non di incapace, perché a ottant’anni teneva ancora conferenze, ma era inabile agli affari». Aveva intenzione di vendere il palazzo per gli ingenti costi di mantenimento. C’è riuscito?«Purtroppo no. Vogliamo fare un appello su La Verità? L’abbiamo riaperto al pubblico insieme al Fai, dopo 15 anni, il 4 luglio 2021. Una data simbolica, il giorno dell’indipendenza americana, perché all’interno c’è una statua della libertà, opera dell’architetto Leandro Marconi, che ha progettato il palazzo durante la rivoluzione francese. Si narra che nelle cantine del palazzo avvenissero nel secolo successivo riunioni di carbonari. Era una nobiltà all’avanguardia».Come prese la sua famiglia il suo desiderio di recitare?«In casa di mia madre non bene, perché erano molto rigidi: la prima volta che è riuscita a uscire senza l’istitutrice appresso ha dovuto fare una grossa discussione in casa, pur essendo maggiorenne. Era una nobiltà abbastanza severa su queste libertà, invece nella famiglia Guerrini, avendo mio nonno abbandonato la moglie con tre figli a carico perché era un po’ birbantello, c’era un po’ più di libertà. I due maschi andarono tutti e due all’accademia militare e la figlia femmina fece la regia scuola di recitazione di Firenze, con compagno di corso Arnoldo Foà. Poi però non le fu consentito di mettere in atto quello che aveva imparato». Le ha però preparato il terreno…«In qualche modo sì. Io facevo architettura perché mio padre pretendeva che un figlio studiasse, però riuscii ad avere una borsa di studio al Centro sperimentale di cinematografia, facendo l’esame di ammissione. Su 400 aspiranti ne ammettevano venti, con due sole borse di studio: una la diedero a me, l’altra a Delia Boccardo, che quell’anno era Miss Cinema e non potevano negargliela. Di fronte a una borsa di studio conferita da una scuola statale, mio padre mi concesse di tentare, però mi iscrissi ad architettura a Roma, dove diedi un solo esame».Che ricordi ha del Centro sperimentale?«L’abbiamo occupato! Io avevo già fatto un’occupazione ad architettura, a Firenze, nel 1962, perché mi piaceva molto il fatto di protestare per una giusta causa. Siamo stati asserragliati dentro al Centro sperimentale, con la polizia attorno, per un paio di mesi e facevamo entrare dal retro, scavalcando il muretto di cinta, gli attori e registi che piacevano a noi: vennero a farci delle lezioni estemporanee Bellocchio, Samperi, Pasolini, Enrico Maria Salerno, con Sandra Milo da una parte e la bottiglia dall’altra!».Poi arrivò Roberto Rossellini…«Rossellini fu la terribile conseguenza perché noi chiedevamo la professionalità nel nostro lavoro e la prima cosa decisa in alto fu quella di affidare la gestione al grande regista, il quale arrivò e, siccome la sua visione era diversa dalla nostra, pensò bene che il corso di recitazione fosse inutile, tanto lui gli attori li prendeva dalla strada!».Ha cominciato subito a lavorare. A quel tempo imperversavano i western…«Già tra il primo e il secondo anno del corso di recitazione andavo in giro con la mia 500 insieme con George Eastman, al secolo Luigi Montefiori, che era alto due metri, ma non li confessava: dovevo tenere il tettuccio alzato perché lui entrasse! Lasciavamo negli uffici delle case di produzione le nostre fotografie perché non avevamo conoscenze, amici, parenti, tantomeno genitori, introdotti. Ci chiamarono tutti e due per fare Due once di piombo di Maurizio Lucidi. Il mio personaggio moriva quasi subito, però qualche giorno di lavoro l’ho fatto».Poi ha fatto Il mio corpo per un poker, che dovrebbe aver diretto Lina Wertmüller e non Piero Cristofani, il regista accreditato sotto lo pseudonimo di Nathan Wich.«Lo diresse la Wertmüller e anche lì facemmo una partita a poker insieme a Montefiori, poi lui girò qualche scena in più perché aveva un gran fisico e il western era il suo pane, io invece ero meno tagliato per quel genere. Serviva più essere un acrobata che saper dire le battute giuste: all’epoca molti attori, o presunti tali, dicevano i numeri, tanto poi andavano doppiati. Per questo noi facevamo gli scioperi: volevamo ottenere il voce-volto, ovvero che la televisione, essendo un ente di Stato, pretendesse che l’attore parlasse con la sua voce. Oggi per fortuna c’è la presa diretta. I problemi sono altri…».Quali?«Il problema dei “sussurrattori”, come li chiamo io. Molti dei giovani, non dico tutti per carità, si capisce che sanno di non dire bene le battute, per cui parlano a voce bassissima e molto velocemente in maniera tale da coprire il misfatto di non sapere pronunciarle. A volte sul set trovo difficoltà a capire quello che dicono». Quindi si è trova meglio in teatro, dove la voce è più valorizzata?«Beh, in teatro si imparano delle cose. Ho recitato nel teatro greco di Siracusa quando non c’erano i microfoni, di fronte a 5.000 persone, e c’era sempre qualche spettatore che aveva l’abitudine di far rotolare sugli scalini una lattina di birra! Oggi con il microfono non serve neppure più la voce, ma va benissimo, tra un po’ utilizzeranno attori digitali».Tra i film che ha fatto, quale le ha dato più soddisfazione?«Tra i western, quello che mi è piaciuto di più è stato Keoma di Enzo G. Castellari, un cult. In generale, non saprei, non ho fatto grandi cose, non parlerei di soddisfazione».Ha lavorato molto in grandi produzioni, come Waterloo di Sergej Bondarčuk, Sledge di Vic Morrov, Nina di Vincente Minnelli, L’Atlantide di Bob Swaim.«Non essendo entrato mai in quella cordata di film d’autore italiano che mi sarebbe piaciuto fare, perché non mi è stata data l’opportunità, capitava più facilmente che facessi film con gli stranieri, rispetto agli italiani».Ha fatto una parte ne Il conformista di Bernardo Bertolucci…«Una piccola cosa, poi fu tagliata». Bertolucci glielo ha comunicato?«No, scherziamo, non sono cose che si fanno. Ha il diritto di farlo il regista, ha il diritto di farlo il produttore, tutti hanno diritto. La nostra è una categoria infame. Infatti, quando mi chiedono per amicizia di preparare un giovane per l’esame di ammissione all’accademia, faccio più volentieri corsi di dissuasione, elencando centinaia di motivi per non fare questo lavoro».Si è pentito di aver fatto l’attore e non l’architetto?«Perché la situazione degli architetti in Italia è migliore? È un Paese in cui la meritocrazia non c’è. Tutto qua. La verità è che in un paio di momenti favorevoli, alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, ho dovuto allontanarmi dal lavoro per motivi di famiglia e ho perso dei treni». La grande popolarità l’aveva raggiunta immediatamente, agli inizi degli anni Settanta, con lo sceneggiato televisivo E le stelle stanno a guardare.«Lo seguivano 20 milioni di persone, un successo che ti cambiava la vita da un giorno all’altro. Oggi per ottenere lo stesso risultato ci vogliono dieci anni. Poi ho conosciuto una nuova celebrità grazie alla pubblicità. Mi fecero fare, alla fine degli anni Settanta, lo spot per l’ammorbidente Vernel perché ero molto popolare tra le casalinghe. Alla fine dell’anno volevano rinnovarmi il contratto e mi chiesero anche se potevano fare la pubblicità sulle riviste, offrendomi un 50 per cento in più rispetto alla cifra pattuita, già molto elevata. Mi vergognavo all’idea di vedere la mia faccia stampata su tutte le riviste negli studi d’attesa dei professionisti, per cui dissi di no e non vollero rinnovarmi il contratto. Feci la fortuna di Ferruccio Amendola, che prese il mio posto. Pensi un po’ quanto sono stato scemo!».Ha ereditato invece la pubblicità della birra Moretti da Marcello Tusco.«Era morto improvvisamente per un infarto. Avevano già girato costosissimi spot con lui e furono costretti a buttare via tutto. Vinsi il provino e mi chiamarono. Ho fatto questa pubblicità per 16 anni, finendomi con l’identificare con quel personaggio, poi hanno avuto paura che venisse un infarto anche a me e hanno scelto un altro attore (Pier Maria Cecchini, ndr). Ringraziando Dio, non ho assecondato le loro preoccupazioni!».Un rimpianto?«Non aver interpretato il ruolo di Diabolik. La Panini qualche mese fa ha pubblicato l’album I mille volti di Diabolik e tra le figurine relative alle ispirazioni cinematografiche delle sorelle Giussani, che ho incontrato varie volte, c’è anche la mia. Angela Giussani dichiarò che l’unico attore italiano con lo sguardo simile al suo personaggio fosse il mio. Negli anni Ottanta mi concessero i diritti cinematografici gratuitamente, li portai a un produttore milanese, che dicevano fosse ben messo in Rai, ma poi fu travolto da Mani pulite. Mi mangio ancora le mani!».
Roberto Gualtieri, sindaco di Roma (Imagoeconomica)
Il corteo contro lo sgombero del Leoncavallo a Milano (Ansa)
Antonio Decaro (Imagoeconomica)