2024-03-18
Ormai il club degli industriali non serve più
L’organo degli industriali che sta per cambiare presidente ha tutti i difetti dei sindacati, ma nessuno dei loro pregi.Confindustria ha tutti i difetti di un sindacato senza averne i pregi. La sua organizzazione è burocratica come quella di Cgil, Cisl e Uil. E al pari della trimurti, ha riti e conflitti interni. Ma a differenza delle tre confederazioni, non ha la capacità di influenzare e condizionare la politica. Di qui il diffuso malumore di quanti non si sentono rappresentati. Sono trascorsi 12 anni da quando, con una lettera concisa, Sergio Marchionne comunicò a Emma Marcegaglia che la Fiat avrebbe lasciato l’associazione. L’addio fu accompagnato da un’esortazione, non si sa se rivolta ai vertici di viale dell’Astronomia o alla politica: «Fateci fare gli industriali». Che fosse indirizzata a Palazzo Chigi, ai sindacati o all’organizzazione degli imprenditori fa poca differenza: in tutti i casi la decisione dell’amministratore delegato del gruppo automobilistico testimoniava che Confindustria non era in grado di difendere i propri associati e di fare in modo che potessero fare impresa. A distanza di 12 anni e nonostante si siano succeduti ben tre presidenti, nulla o quasi è cambiato. I vizi e i riti dell’associazione sono gli stessi e le lamentazioni contro il governo, i sindacati e contro i vertici di quella che dovrebbe essere un’organizzazione che tutela gli interessi degli industriali anche. Nel gennaio del 2008, l’associazione commissionò un sondaggio per conoscere l’opinione dei maggiori gruppi multinazionali presenti in Italia. Confindustria ne uscì a pezzi, con giudizi che andavano dall’accusa di provincialismo e chiusura a quella di incapacità. E secondo un altro sondaggio, realizzato fra tutti gli iscritti, solo il 45 per cento la riteneva vicina ai bisogni della propria azienda, mentre il 33 la considerava lontana. Tuttavia, a dispetto di queste opinioni, ogni volta che c’è da nominarne il presidente, attorno a Confindustria infiamma la battaglia. L’ultima è di questi giorni, in vista dell’addio di Carlo Bonomi. Il 4 aprile gli associati saranno chiamati a esprimersi. Ma a differenza di ciò che accade in una normale elezione, dove chiunque può candidarsi con l’augurio che vinca il migliore, ma soprattutto che a decidere il presidente siano gli aventi diritto al voto, nell’organizzazione degli imprenditori si usano i peggiori sistemi del sindacato, con manovre, pressioni e qualcosa che somiglia alle liste bloccate. Se per presentare una lista, in politica è richiesto un minimo di firme e poi esiste una soglia di sbarramento che si aggira intorno al 4 per cento, in Confindustria chi vuole candidarsi deve presentare almeno il 20 per cento dei consensi, ovvero almeno un quinto delle organizzazioni di categoria o di quelle territoriali deve dichiarare di votare per lui. Un meccanismo farraginoso e complicato da ostacoli che spesso dà luogo a sospetti e malumori, ma che soprattutto non sempre aiuta a scegliere il candidato che meglio rappresenti gli industriali. Così, ai vertici di viale dell’Astronomia nel passato abbiamo avuto imprenditori senza impresa (come l’ultimo), oppure presidenti che hanno usato il ruolo come trampolino di lancio per fare altro e ottenere incarichi una volta lasciata la prestigiosa poltrona. I presidenti che davvero conoscessero l’industria, dal di dentro, dalle catene di montaggio e dalle difficoltà di far quadrare i conti, non sono stati moltissimi. Risultato, nelle prossime settimane Confindustria si avvierà a rinnovare i vertici. La sfida sarà tra Edoardo Garrone, erede di una famiglia di petrolieri riconvertita alle energie rinnovabili, ed Emanuele Orsini, manager con un passato alla guida di Federlegno. Dalla competizione è stato escluso Antonio Gozzi, presidente di Federacciai a capo di una multinazionale, perché secondo i saggi non avrebbe raggiunto la quota del 20 per cento di adesioni alla sua candidatura. Gozzi ha lasciato intendere che presenterà ricorso, ma non è detto che lo faccia e nemmeno in tal caso è detto che rientri in corsa. Dunque restano in corsa Garrone e Orsini e ciò che conta nella battaglia è che cosa hanno intenzione di fare i due candidati, ma al momento, cioè dopo due mesi di campagna elettorale, i punti di ciascuno dei due sono poco conosciuti, perché per consuetudine le idee vengono presentate dopo la scelta dei saggi. Dunque presidenti di Confindustria con quale programma? Per continuare nei vecchi riti? Beh, in tal caso auguri all’industria nazionale, che poco rappresentata com’è, con l’Europa, il sindacato e il governo avrà filo da torcere. A forza di badare alle carriere di chi sta ai vertici dell’organizzazione, alle relazioni e pure ai privilegi di quanti si occupano degli industriali ci si è dimenticati che in fabbrica c’è chi sgobba ogni giorno contro norme che penalizzano le imprese, contro un diritto del lavoro che andava bene nel secolo scorso e contro un sistema del credito che vorrebbe neutralizzare i rischi insiti in qualsiasi attività. Perciò gli imprenditori si sentono soli. Abbandonati qualche volta persino da chi dovrebbe curarne gli interessi.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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