2019-01-16
Ora Juncker fa finta di ravvedersi: «L’austerità è stata avventata»
Mezza retromarcia del presidente della Commissione Ue: «Siamo stati poco solidali con Atene. Abbiamo dato troppa importanza all'Fmi». Il mea culpa sa di strategia per il voto di maggio.Export e Pil tedesco pietra tombale per l'economia Ue. A Berlino crescita più bassa da cinque anni. Intanto la Francia rallenta, mentre in Grecia resta il nodo della disoccupazione.Lo speciale comprende due articoli. Un breve sprazzo di lucidità, una pausa della celebre «sciatica», o una furba messinscena per simulare un'autocritica e salvare il salvabile da qui alle elezioni europee del 26 maggio?Dubbi legittimi: sta di fatto che il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker ha pronunciato ieri parole attese da anni. E lo ha fatto trasformando quello che doveva essere un momento letteralmente eurolirico (una sessione parlamentare a Strasburgo per celebrare i 20 anni dell'euro) in un mea culpa. «Non siamo stati abbastanza solidali con la Grecia durante la crisi», ha detto il lussemburghese. Che poi ha aggiunto, facendo esplicito riferimento alle accuse rivolte a suo tempo ad Atene: «Abbiamo insultato i greci». Più avanti Juncker ha continuato a cospargersi il capo di cenere, allargando la prospettiva: nel periodo della crisi, «c'è stata un'austerità avventata, ma non perché volessimo sanzionare chi lavora e chi è disoccupato: le riforme strutturali restano essenziali». «Mi addoloro di aver dato troppa importanza all'influenza del Fondo monetario internazionale. All'inizio della crisi, molti di noi pensavano che l'Europa avrebbe potuto resistere all'influenza del Fmi. Se la California è in difficoltà, gli Usa non si rivolgono al Fondo monetario internazionale e noi avremmo dovuto fare altrettanto». Non c'è dubbio: la notizia c'è tutta. Stando alla pura e semplice lettura dei virgolettati, si tratta di una clamorosa uscita da una sorta di improprio «negazionismo» in voga a Bruxelles per anni: la tesi secondo cui non c'era nessun problema, anzi ci voleva più Europa, più integrazione, più potere alla Commissione. Davanti a queste frasi, però, gli osservatori più attenti mantengono un dubbio di fondo, e formulano tre possibili spiegazioni. Il dubbio di fondo nasce dal fatto che, al di là del rammarico più o meno retorico, Juncker non ha sconfessato le operazioni (queste sì, antidemocratiche) che hanno portato nel 2011 alla defenestrazione di due governi legittimi, sostituiti da due giunte tecnocratiche gradite a Bruxelles: quella guidata da Mario Monti in Italia (Luigi Di Maio ha reagito parlando di «lacrime di coccodrillo» che «non mi commuovono»), e quella capitanata dall'ex vicepresidente della Banca centrale europea Lucas Papademos in Grecia. Veniamo alle spiegazioni della virata tattica del lussemburghese. La prima ipotesi è che Juncker si sia effettivamente reso conto di quanto la recessione stia bussando alla porta dell'intera Eurozona. Inutile girarci intorno: tra Germania, Francia, Italia, qualcuno è già in recessione tecnica (due trimestri consecutivi negativi) e qualcun altro ci sarà presto. Le tensioni commerciali tra Pechino e Washington (con un'incertezza che si trascinerà almeno fino a marzo) daranno un altro contributo non positivo. E la stessa fine del Qe, con la Bce che si è riservata di valutare eventuali altri interventi, lascia un ulteriore spazio di sospensione e incertezza. Dunque Juncker compie un primo passo per correggere, se non le politiche, quanto meno la «narrazione» di Bruxelles. La seconda spiegazione, complementare rispetto alla prima, è che il lussemburghese abbia «aperto la campagna elettorale» della maggioranza (Ppe-Pse) uscente a Bruxelles. Juncker capisce che l'avanzata sovranista può essere forte, che la tenuta dell'asse tradizionale è per lo meno incerta, e in qualche misura cerca di contendere il terreno agli euroscettici. Un drastico cambio del «racconto», come a dire: «Anche noi vogliamo cambiare in Europa, non solo i sovranisti e gli eurocritici». La terza spiegazione è il timore che qualcuno (La Verità lo suggerisce da almeno un semestre) si dedichi a un confronto tra le scelte dell'Ue e quelle dell'amministrazione Trump negli Usa. Donald Trump, da grande eterodosso, ha rotto tutti gli schemi, mettendo in campo una terapia-choc metà liberista (1.500 miliardi di dollari di tasse in meno), metà keynesiana (1.500 miliardi di investimenti in più), con contorno di una massiccia deregolamentazione pro imprese.Risultato? Crescita in Usa oltre il 3%, consumi ai massimi, disoccupazione ai minimi da 50 anni (dal 1969!), salari in ascesa perfino per i lavoratori meno qualificati, e i diversi settori che si contendono le persone per assumerle, non di rado non trovandone a sufficienza. In Europa, invece, nulla di tutto questo. Né megatagli di tasse né megapiani di investimenti. Nessuna scossa anticrisi, nessuna frustata pro crescita. Solo la manutenzione degli zero virgola e dei parametri di Bruxelles: addirittura con negoziati spossanti con i singoli Paesi (si pensi alla via crucis imposta all'Italia tra settembre e dicembre) e con una propensione a scoraggiare - anziché incentivare - politiche espansive. Non solo l'Ue non è stata in grado di concepire una strategia: ma ha perfino messo i bastoni fra le ruote a chi - bene o male - cercava di elaborarla. E allora il cerchio si chiude. Anche ammesso che il lussemburghese ieri sia stato sincero, perché mai dovrebbero essere credibili per il futuro i medici che, per un lungo passato, non hanno saputo né riconoscere né curare la malattia?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ora-juncker-fa-finta-di-ravvedersi-lausterita-e-stata-avventata-2626090016.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="export-e-pil-tedesco-pietra-tombale-per-leconomia-ue" data-post-id="2626090016" data-published-at="1758065461" data-use-pagination="False"> Export e Pil tedesco pietra tombale per l’economia Ue C'era una volta la locomotiva d'Europa. Le previsioni di crescita del Pil da parte dell'istituto di statistica nazionale tedesvo, rese note ieri, confermano il pesante ridimensionamento dell'economia nel corso 2018. La frenata, per quanto attesa, non ha fatto altro che rafforzare gli interrogativi che aleggiano da tempo sopra Berlino. Tecnicamente non si tratta di recessione (che si verifica quando il Pil cala per due trimestri consecutivi), anche se per avere la cifra esatta dell'andamento del Pil nell'ultimo trimestre dell'anno bisognerà attendere febbraio. Ciò che è certo è che la crescita registrata l'anno passato, pari all'1,5%, è la più bassa da cinque anni. Da quando nel 2014 la Germania è tornata in terreno positivo, se escludiamo il 2015, l'indice aveva sempre superato il 2% annuo. L'anno scorso il Pil era cresciuto del 2,2%, mentre nel documento programmatico di bilancio presentato a Bruxelles lo scorso mese di ottobre Berlino puntava a chiudere il 2018 con un +1,8%. Sbagliate (per eccesso) anche le cifre contenute nell'Autumn forecast pubblicato dalla Commissione a novembre, che stimavano per l'anno appena trascorso una crescita dell'1,7%. Ma ormai si è capito che quella di «cannare» le previsioni per gli euroburocrati è un'abitudine. Gli addetti stampa di Destatis (l'equivalente dell'Istat in Germania) ce l'hanno messa tutta per indorare la pillola. L'ufficio di statistica tedesco sottolinea come quello passato sia il nono anno consecutivo di crescita, che i consumi della famiglie (+1%) e delle amministrazioni pubbliche (+1,1%) siano in ripresa, che il numero di persone occupate (44,8 milioni) abbia raggiunto il massimo storico e che le esportazioni (seppur a un ritmo più lento) abbiano dato il loro prezioso contributo. La sensazione, tuttavia, è che Berlino abbia perso lo smalto. Va male l'industria. L'annuncio di ieri è stato preceduto dalla pubblicazione di Eurostat sulla produzione industriale dell'intera Ue. Stando agli ultimi dati, Berlino si è distinta tra i peggiori della classe. Nel mese di novembre, infatti, l'indice è calato dell'1,9% rispetto al mese precedente e del 5,1% in confronto con l'anno prima. Tuttavia, a destare maggiore preoccupazione sono i limiti strutturali dell'economia tedesca. In un contesto internazionale contrassegnato dall'instabilità e dalle tensioni dovute alla guerra dei dazi, è chiaro l'export non può reggere tutto il peso della crescita. A fronte di un surplus delle amministrazioni pubbliche pari a 59,2 miliardi di euro (1,7% del Pil), la Germania continua a essere restia nell'investire questo «tesoretto» per la realizzazione di infrastrutture pubbliche che contribuirebbero a risollevare la domanda interna. Più volte i «cinque saggi», il gruppo di esperti che valuta le politiche del governo tedesco, ha chiesto di alleggerire il carico fiscale «prima che il Paese finisca nei guai», come ha affermato Lars Feld, direttore del Walter Eucken institut e docente all'università di Friburgo. A vacillare è la ricetta tedesca nel suo complesso. Come raccontato ieri dalla Verità, il dato negativo della produzione industriale suggerisce che il rallentamento riguarda in maniera generalizzata le maggiori economie europee. La narrazione che assegna all'Italia il titolo di «malato d'Europa», dunque, non regge più. Oltralpe, la protesta dei gilet gialli ha solo acuito il rallentamento dell'economia già in corso. L'istituto francese di statistica, nel dicembre scorso, ha tagliato le prospettive di crescita per il 2018 all'1,5% (contro l'1,6% previsto a ottobre), anni luce dal +2,3% del 2017. L'inflazione, i cui dati sono stati diffusi ieri, nell'anno appena passato si è attestata all'1,8% (in rialzo rispetto al biennio precedente) ma gli analisti ritengono che si tratti di un fuoco di paglia e prevedono che l'indice tornerà intorno all'1% entro giugno 2019. Segnali preoccupanti arrivano anche dalla Grecia. Nonostante la crescita del Pil appaia robusta, la Confindustria ellenica nota che il calo della disoccupazione dell'ultima anno sia dovuto in gran parte alla diffusione dei «mini jobs», ovvero impieghi part time da 500/600 euro al mese. L'anno scorso, inoltre, Atene ha mancato l'obiettivo di avanzo primario per 443 milioni di euro. Una falsa partenza proprio nell'anno che ha visto l'uscita della Grecia dal programma di aiuti, dal momento che il Paese si è impegnato a garantire un surplus del 3,5% sul Pil per i prossimi anni. Di fronte alla brusca frenata dell'economia continentale, colpisce l'inerzia delle istituzioni europee. Come dimostra la trattativa tra la Commissione e il nostro esecutivo, Bruxelles tiene molto di più al rigore di bilancio che alla crescita. La chiusura del quantitative easing da parte della Bce, poi, lascerà esposte le economie nazionali alla volatilità dei mercati. Quale futuro ci sarà dal punto di vista economico per l'Europa è tutto da vedere.