2020-01-17
«Oliverio promise ai boss un centro profughi»
Un pentito di 'ndrangheta accusa il governatore dem della Calabria: «Nel 2014 raccolse i voti delle cosche, in cambio ci garantì i permessi per una struttura per migranti». Ma l'interessato smentisce: «Una boutade, la Regione non gestiva l'accoglienza».Giuseppe Giglio è uno dei pentiti della cosca di 'ndrangheta Grande Aracri di Cutro, in provincia di Crotone. Il 24 novembre 2017, interrogato dal pm antimafia di Catanzaro Domenico Guarascio, ha tirato fuori una storia, rimasta secretata per molto tempo, che ora rischia di imbarazzare il centrosinistra calabrese. Soprattutto perché è saltata fuori in piena campagna elettorale per le regionali. Secondo il pentito, alla fine del 2014, «Oliverio si è presentato candidato regionale... diciamo... per la presidenza regionale... e De Luca stava raccogliendo i voti su richiesta anche della famiglia Grande Aracri». Una bomba. Perché Mario Oliverio è poi diventato governatore della Calabria. Ma anche perché Giovanni De Luca viene identificato come un parente del boss Nicolino Grande Aracri. Un cugino. Il terzo punto che rende quella dichiarazione esplosiva è che, per la terza volta consecutiva in un'inchiesta della magistratura calabrese (la seconda coordinata dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri) emergono interessi della mala per l'accoglienza dei migranti. Dice il pentito: «In cambio (Oliverio, ndr) poteva darci una mano su qualcosa di cui avevamo bisogno... e abbiamo parlato in quel momento... e so che lui gliel'aveva anche accennato lì a Oliverio, per quanto riguardava una autorizzazione per fare un centro per i profughi, per darci una mano, diciamo».Il centro sarebbe stato tirato su nella struttura di un uomo di San Giovanni in Fiore (paese d'origine del governatore uscente), il cui figlio lavorava insieme a Giovanni De Luca. Oliverio, sostiene il pentito con cadenza calabrese, avrebbe anche promesso che «come andava presidente gli avrebbe dato un posto [...] avrebbe messo a disposizione a me, al figlio e a Giovanni (De Luca, ndr) questa struttura che era già realizzata a San Giovanni in Fiore». Secondo il collaboratore di giustizia, insomma, «Oliverio era ben felice di poter dare una mano se fosse andato, diciamo, perché ancora non era stato eletto». In cambio, Giglio e compari avrebbero dovuto raccogliere voti per lui. Come? Organizzando un'assemblea nell'agriturismo dell'ex esponente della mala che ha deciso di vuotare il sacco. «Non le nascondo», dice l'ex 'ndranghetista al magistrato, «che doveva esserci una riunione nel mio ristorante per raccogliergli i voti, ma io dovevo partire e non c'ero. Gli avrei messo a disposizione comunque il ristorante». Il pentito alla fine del verbale ha precisato di non aver «mai visto Oliverio». Il difensore del politico, l'avvocato Vincenzo Belvedere, ha subito precisato che pur se «sembra ovvio, è doveroso ribadirlo, Oliverio non ha mai visto Grande Aracri, tantomeno cugini o parenti». Non solo: secondo l'avvocato, «disconosce completamente la vicenda». E riduce la questione, confortato dall'assenza di avvisi di garanzia nei confronti del governatore uscente, a una «boutade del narrato de relato (per sentito dire, ndr) del collaboratore». Insomma, il pentito avrebbe riferito delle storie che gli erano state raccontate. La prova, secondo l'avvocato di Oliverio, sarebbe da ricercare nel fatto «che un centro migranti, acennata contropartita in favore dei voti, non sia mai gestito dalle Regioni, tantomeno la nostra, in quanto la gestione è stata sempre di esclusiva competenza del ministero degli Interni». Ma quello di Oliverio e degli interessi della 'ndrangheta per i centri d'accoglienza dei migranti non è l'unico dettaglio saltato fuori dall'inchiesta di Catanzaro a creare uno stato di disagio tra i dem. Nel fascicolo ci sono le accuse all'ex vicepresidente della Regione Calabria Nicola Adamo, marito della deputata Pd Enza Bruno Bossio, vicinissima al governatore Oliverio. Adamo era in contatto, secondo gli investigatori, con il presidente di una piccola banca di credito cooperativo calabrese, la Bcc del Crotonese, Ottavio Rizzuto (che si è dimesso), definito «l'anello di congiunzione tra gli ambienti della politica e quelli della imprenditoria mafiosa». Tanto che si è ritrovato agli arresti con un'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo gli inquirenti che accusano Adamo (ma anche un altro ex consigliere regionale, Pino Tursi Prato, già condannato per concorso esterno e indagato anche nell'inchiesta che ha portato l'altro giorno all'arresto del presidente della seconda sezione penale della Corte d'appello di Catanzaro) di traffico di influenze, il politico era «interessato a espandere» il consenso nell'area del Crotonese. Rizzuto, con linguaggio che gli investigatori definiscono «inequivocabilmente esplicito», in una conversazione intercettata dice di essere stato chiamato a Cosenza «da Pino Tursi Prato, Nicola Adamo e dalla moglie Enza Bruno Bossio». Secondo gli investigatori Rizzuto chiedeva «garanzie e rassicurazioni». Ecco le sue parole: «Io l'ho fatto sempre nella mia vita, ci ho detto, guardate che io, quando prendiamo impegni, se si deve sottoscrivere una cosa è poi campo mio a mantenere la cosa». Rizzuto, insomma, si definiva come una persona di parola, che avrebbe mantenuto gli impegni se avessero fatto lo stesso quelli che indicava come suoi interlocutori. Anche in questo caso non ci sono riscontri dell'esistenza dell'incontro tra Rizzuto e i tre politici. E gli investigatori lo sottolineano. Ma l'ordigno, visto che l'inchiesta mira a provare i tentativi di gestire soldi pubblici in cambio di voti, ormai è deflagrato, creando scompiglio, ancora una volta, nel centrosinistra calabrese.
Jose Mourinho (Getty Images)