
<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/oggi-in-edicola-2670662036.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="particle-1" data-post-id="2670662036" data-published-at="1734918397" data-use-pagination="False">
Romano Prodi (Ansa)
Trump rimette all’angolo i leader del continente: «Sono deboli e politicamente corretti, guidano Paesi decadenti». Secondo l’ex premier, invece, Bruxelles sarebbe «succube di Orbán». La sua soluzione? «Tornare all’asse franco-tedesco».
Chissà se alla Warthon School of Pennsylvania dove ha studiato c’era un corso di latino, comunque Donald Trump ha capito che «repetita iuvant». Non ha fatto passare neppure 24 ore dal suo monito all’Europa («Tra vent’anni rischiate di sparire») che ha rincarato con una intervista a Politico, il network più influente di qua e di là dell’Atlantico, il suo giudizio: «Penso che i leader europei siano deboli, e vogliono essere così politicamente corretti», ha detto, «non sanno cosa fare. L’Europa non sa cosa fare». La botta è dura, ma guardando la foto di Volodymir Zelensky con i cosiddetti «volenterosi» si fa fatica a dare torto al presidente americano.
Emmanuel Macron secondo i sondaggi non va oltre l’11% dei consensi in Francia dove da mesi di fatto non c’è un governo, Keir Starmer in Gran Bretagna è definito un premier zombie e anche Friedrich Merz a Berlino non se la passa benissimo: l’opinione pubblica guarda sempre più a destra verso Afd. Se ne sono accorti tutti tranne Romano Prodi, con al seguito Mario Monti, che ieri ha trovato modo di dire che l’Europa per rilanciarsi deve ripartire dall’asse franco-tedesco. Sta di fatto che Zelensky è il più traballante di tutti e Donald Trump lo ha brutalmente incalzato dicendo che da troppo tempo in Ucraina non si vota, gli unici due capi di governo o di Stato che stanno saldi ai loro posti li ha trovati a Roma: Giorgia Meloni e Leone XIV. È una notazione che viene spontanea ascoltando Trump sferzare i leader europei e il presidente ucraino: «Stanno usando la guerra per non indire le elezioni, ma penso che il popolo ucraino dovrebbe avere questa scelta. E forse vincerebbe Zelensky. Non so chi vincerebbe. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia».
Tornando sull’Europa a Politico il presidente americano ha confidato: «I leader europei parlano, ma non producono e la guerra continua all’infinito. Guidano Paesi decadenti, città come Londra o Parigi sono sovraccariche per via della massiccia e incontrollata immigrazione dal Medio Oriente e dall’Africa». Viene in mente un saggio di cinquant’ anni fa, lo scrisse Raymond Aron e si intitolava In difesa di un’Europa decadente. Ma ci sta che nessuno se ne ricordi. Trump per spiegare la decadenza se l’è presa col sindaco mussulmano di Londra Sadiq Khan, che «è un disastro», eletto solo perché «sono arrivate così tante persone immigrate che ora votano per lui». È il tema della perdita dell’identità europea. Che va fermata comunque, pena la perdita dell’Europa stessa. Per farlo Trump è pronto a sostenere candidati che abbiano la sua stessa visione anche a costo di crisi diplomatiche con chi oggi è al potere in Europa. Per spargere un altro po’ di sale sulle ferite di Bruxelles Donald Trump afferma: «Ho già appoggiato persone che molti europei non amano. Ho appoggiato Viktor Orbán». Quanto a Zelensky: «È come P.T. Barnum del circo: un showman in grado di vendere qualsiasi cosa in qualsiasi momento». A fronte di un attacco così forte ci si aspetta una reazione puntuta dell’Ue, invece nulla. Forse a palazzo Berlaymont non conoscono l’antico adagio: chi tace acconsente. Tocca così alla portavoce di Ursula von der Leyen, Paula Pinho abbozzare: «Mi asterrò dal commentare, se non per confermare che siamo molto soddisfatti e grati di avere leader eccellenti a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, di cui siamo davvero orgogliosi, che può guidarci nelle molte sfide che il mondo deve affrontare». Su Zelensky ha replicato Anita Hipper portavoce della Commissione: «Questi sono tempi eccezionali, Zelensky è un leader democraticamente eletto». Poco d’altro. Kaja Kallas – alto rappresentante per la politica estera – commenta a mezza bocca: «Riguardo agli attacchi Usa contro strategia e modello europei dobbiamo dovremmo essere più sicuri di noi stessi». Prova a far finta di menar le mani Antonio Costa presidente del Consiglio europeo che dice: «Dobbiamo prendere atto delle accuse e agire di conseguenza». Che non si sa esattamente cosa voglia dire come le parole di Donald Tusk – premier polacco, l’ unico a replicare a Trump – che respinge al mittente le accuse americane. Per il resto è imbarazzato silenzio.
Rotto però in Italia da due reduci della grande Europa (a loro dire). Sono Romano Prodi e Mario Monti, premiati ieri dall’Ispi in tandem in via eccezionale. È stato Romano Prodi ad accusare Donald Trump di «disprezzare l’Europa» e a sostenere che «i recenti avvenimenti fanno capire che la nostra debolezza rende facile il compito di un presidente che sta voltando le spalle alla storia del suo stesso Paese, odia la democrazia e vede il futuro del mondo in un rapporto diretto tra oligarchi o dittatori o chiamateli poteri assoluti». Ovviamente i tempi belli erano quelli di quando lui era presidente della Commissione europea, poi quando la Francia ha deciso di bloccare la Costituzione l’Europa si è piano piano smarrita. «L’Europa in questi anni ha finito per odiare se stessa, succube di Orbán e dei suoi veti (ecco perché serve smontare l’unanimità, ndr), resa più fragile da debolezza del motore franco-tedesco che ha sempre retto l’Europa, tradizionalmente aiutato dall’Italia». Ma è dall’asse franco-tedesco che si deve ripartire. Non siamo su Scherzi a parte; lo pensa anche Mario Monti che ha svelato un segreto. Quando Prodi lo chiamò per rinnovargli l’incarico da commissario europeo lo convocò in un piccolo ristorante cinese. E questo spiega molto di Romano Prodi, delle sue predilezioni e forse anche del perché l’Europa è messa così e Trump la maltratta.
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Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer del gruppo di telecomunicazioni Wind Tre
Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer di Wind Tre: «Il Paese non può rischiare di rallentare lo sviluppo digitale. La nostra industria è energivora e strategica: merita attenzione e un quadro regolatorio che favorisca gli investimenti».
«L’Italia merita un vero piano industriale per le telecomunicazioni: lo sviluppo digitale non può essere interrotto o rallentato». A dirlo alla Verità è Maurizio Sedita, Chief Commercial Officer di Wind Tre. «Il settore delle tlc - prosegue – è diventato un’infrastruttura critica per la competitività del Paese, ma allo stesso tempo rimane tra i meno compresi e tutelati. La nostra è un’industria energivora, strategica e abilitante. Merita più attenzione e deve essere riconosciuta come tale, perché senza reti performanti non esiste innovazione digitale, né per le imprese né per la Pubblica Amministrazione. Il nostro già lo facciamo, investiamo e tanto. Anche in Europa serve un maggiore interesse verso la nostra industria».
Sedita, Wind Tre è il primo operatore italiano – e tra i primi in Europa – a lanciare il 5G Standalone. Che cosa rappresenta questo passaggio e perché è così innovativo?
«Il 5G Standalone è una rete completamente autonoma dal 4G, pensata per offrire prestazioni garantite, sicurezza avanzata e soprattutto configurabilità dinamica. Non è una semplice evoluzione tecnologica: è un’infrastruttura progettata per abilitare applicazioni critiche, nelle quali la continuità del servizio è essenziale. Questa tecnologia ci permette di fornire alle imprese una sorta di corsia privilegiata, anche in contesti di massimo affollamento. Lo abbiamo dimostrato durante un grande evento sportivo con oltre 90.000 persone, creando una slice dedicata per la trasmissione video live in alta definizione. Il nostro vantaggio competitivo nasce da un network tra i più capillari in Italia, con oltre 21.000 siti».
Perché il 5G Stand alone è strategico per il Paese?
«Perché è la piattaforma abilitante di servizi essenziali per la sanità, la sicurezza, la logistica, l’industria 4.0, i trasporti e la Pubblica Amministrazione. L’Italia ha bisogno di infrastrutture digitali affidabili e moderne. In un contesto europeo che fatica a competere sul digitale, il 5G Stand Alone permette al Paese di fare un salto in avanti e di rendere accessibili tecnologie avanzate anche alle pmi, che sono la vera ossatura del nostro sistema produttivo. Wind Tre vuole essere un abilitatore della competitività nazionale, mettendo a disposizione infrastrutture performanti e soluzioni concrete».
Quali settori beneficeranno maggiormente del 5G Stand alone?
«Chiunque abbia bisogno di continuità, sicurezza, bassa latenza e configurabilità. Penso in particolare all’industria, con robotica, automazione e sensoristica. E poi logistica, con monitoraggio in real time e ottimizzazione degli hub. Sanità, con telemedicina avanzata e gestione digitale delle strutture. Porti e trasporti, dove la comunicazione mission critical è fondamentale. Broadcast, con trasmissioni live ad altissima qualità. Il 5G è la rete che permette di far funzionare tutto questo con garanzie e non più “al meglio delle possibilità”».
Quali sono le caratteristiche distintive del 5G Stand Alone per imprese e Pa?
«Tre in particolare. Prestazioni garantite: ovvero bassa latenza, continuità del servizio, sicurezza end-to-end. Poi Network slicing: possiamo creare porzioni virtuali della rete dedicate a singoli clienti o applicazioni, anche temporanee. Infine Mobile Private Network virtuali: reti private digitali per sanità, industria, logistica, porti, sicurezza. Queste soluzioni sono scalabili, senza oneri gestionali per le imprese, con un livello di sicurezza molto elevato e con protezione dei dati».
Quanto è estesa oggi la vostra copertura 5G Stand Alone?
«La rete 5G Stand Alone copre già l’80% della popolazione italiana, e cresce ogni mese. Gli investimenti continui – circa 800 milioni di euro l’anno – ci permettono di offrire un’infrastruttura tra le più moderne e affidabili del Paese».
Negli ultimi anni Wind Tre ha vissuto una trasformazione profonda. Qual è la vostra nuova visione strategica?
«Dopo la fusione del 2017 tra Wind e H3G eravamo un operatore principalmente consumer, focalizzato sulla connettività mobile e fissa. Oggi siamo un’azienda completamente diversa. Abbiamo investito nella rete, potenziandola grazie anche all’acquisizione di OpNet, siamo entrati nei mercati dell'energia e delle assicurazioni, abbiamo lanciato servizi di protezione e videosorveglianza con il nuovo “Casa e negozio protetti” powered by Protecta, e soprattutto abbiamo accelerato sul B2B: ICT, cybersecurity, cloud e data center. Negli ultimi 3-4 anni siamo cresciuti al doppio della velocità del mercato. Questo è stato possibile perché abbiamo scelto una strategia basata sull’ascolto e sulla vicinanza ai clienti, che chiamiamo #OPEN».
Cosa rappresenta il concept #OPEN per Wind Tre?
«#OPEN non è uno slogan: è un metodo di lavoro. Significa essere aperti all’ascolto, capire i bisogni delle imprese prima di proporre soluzioni, evitare di offrire servizi inutili o sovradimensionati. La prova più concreta è che molte aziende hanno scelto di raccontare questa visione con noi: nello spot “La porta del futuro è OPEN” sono protagonisti proprio i nostri clienti».
Qual è oggi il posizionamento di Wind Tre nel mercato B2B?
«Il mercato italiano è molto frammentato: poche grandi aziende e una miriade di pmi e micro-imprese. È qui che vogliamo fare la differenza. Oggi non siamo più un operatore telco tradizionale: siamo un partner tecnologico in grado di offrire connettività, cloud, sicurezza, data center, soluzioni verticali per sanità, media, industria e Pa».
Gli investimenti tecnologici costano, così come le frequenze. Quali sono i temi cruciali nel dialogo con il governo e le istituzioni?
«Il settore telco è fondamentale per l’intero sistema Paese, ma deve essere sostenuto in modo adeguato. Il costo delle frequenze è enorme: in Italia abbiamo pagato il prezzo unitario più elevato in Europa – tra 6 e 7 miliardi in totale con una maxi-rata finale nel 2022 – e oggi è in corso un confronto per il rinnovo delle licenze nel 2029. Servono regole chiare per non compromettere la capacità di investimento delle aziende. Siamo un’azienda energivora, come tutte le grandi infrastrutture, e proprio per questo il settore merita attenzione e riconoscimento. Con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy abbiamo fatto un primo importante passo avanti sull’innalzamento dei limiti elettromagnetici: passare da 6 a 15 volt per metro è stato un primo step significativo per migliorare la copertura indoor e favorire lo sviluppo del 5G, mantenendo il controllo sulle emissioni. Ma serve un passo ulteriore: un piano industriale nazionale per le telecomunicazioni. Lo sviluppo digitale dell’Italia non può essere lasciato all’improvvisazione».
Anche perché ci sono posti di lavoro in ballo… Qual è l’impatto di Wind Tre sul territorio in termini economici e occupazionali?
«Wind Tre conta 7.000 dipendenti diretti e genera lavoro indiretto per decine di migliaia di persone. La nostra presenza commerciale è capillare: 750 negozi in franchising, 4.000 punti vendita, una rete di agenzie con quasi 2.000 professionisti nel B2B».
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Giorgio Almirante (Ansa). Nel riquadro la copertina del libro di Filippo Giardini «Sigonella vista da destra»
Il saggio di Filippo Giardini studia l’episodio di Sigonella dalla prospettiva di Almirante.
C’è un equivoco di fondo sulla storia recente della politica italiana a proposito della questione palestinese e di Israele. L’equivoco è che il Msi, il Movimento sociale italiano, sia rimasto in freezer fino ai primi anni Novanta. In realtà negli anni Ottanta il partito di Giorgio Almirante preferì ignorare le aperture di Craxi, presidente del consiglio, e rimanere nel proprio «splendido isolamento». Il banco di prova in particolare - ed ecco cosa c’entra la questione palestinese - fu la vicenda di Sigonella, la prima crisi di governo scatenata da un tema di politica estera, e i cui riflessi arrivano fino ad oggi.
Ora un saggio, in libreria in questi giorni, di un giovane storico (25 anni), Filippo Giardini, Sigonella vista da destra, sottotitolo Atlantismo e dialogo interpartitico nel neofascismo italiano dal dopoguerra agli anni Ottanta (Settimo Sigillo, euro 33), ricostruisce fatti e antefatti, dalla nascita del Msi agli anni Ottanta, con vari retroscena e diverse sorprese.
Il 10 ottobre 1985 il presidente del consiglio Bettino Craxi, d’accordo con il ministero degli Esteri Giulio Andreotti e tra le proteste del ministro della Difesa Giovanni Spadolini, non esita a schierare con il mitra spianato 50 carabinieri contro 50 marines attorno al boeing con a bordo i quattro palestinesi sequestratori della nave da crociera Achille Lauro (che vengono consegnati ai magistrati italiani), fatto atterrare dai caccia americani nella base - Nato non Usa - di Sigonella in Sicilia. Il 12 il boeing egiziano che trasporta Abu Abbas, inviato di Arafat per risolvere il sequestro della Lauro ma anche leader del Fronte di liberazione della Palestina ovvero l’organizzazione che ha effettuato l’attacco, con le stesse modalità viene fatto atterrare a Ciampino, ma le autorità italiane rifiutano di consegnarlo agli americani.
Per farla breve il Msi-Dn nelle esternazioni ufficiali è il partito più filosionista, dopo il Pri di Spadolini, più filoatlantico o meglio più filoamericano del parlamento italiano. Anche se questo provoca «la spaccatura tra la maggioranza fedele al segretario», annota Filippo Giardini. Le valutazioni attorno al caso Sigonella, secondo l’autore, sono «il momento in cui si incrinò l’assolutismo varato da Almirante tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta». Viene visto come un cedimento agli oppositori interni l’ordine del giorno che il 27 ottobre 1985 il Comitato centrale del partito approva «a larga maggioranza», proposto dalla «voce fuori dal coro» Giuseppe «Beppe» Niccolai, in cui si ribadisce senza mezzi termini «l’insopprimibile diritto a una patria, sia per gli israeliani che per i palestinesi».
Oltre le «eresie» che hanno attraversato la frastagliata area negli anni Sessanta e Settanta, come l’Organizzazione di lotta di popolo (che nella sigla addirittura richiama l’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), Giovane Europa e diverse altre dichiaratamente antisioniste e filopalestinesi, ora il tema impatta su base e dirigenti. Nella vicenda dell’Achille Lauro la posizione ufficiale dei vertici del Msi è quella del partito della fermezza.
Per Pino Romualdi, storico leader missino, il vero errore del presidente Usa Ronald Reagan «non è stato quello di violare lo spazio aereo italiano ma di non averlo fatto con maggiore decisione». Mario Tedeschi dalle colonne del Borghese accusa Craxi di farsela «con un personaggio come Arafat: mentitore abituale, capo notorio di bande di terroristi e assassini». Giorgio Almirante al Comitato centrale del 27 ottobre ufficializza queste posizioni, compiacendosi di aver «smitizzato il presunto neonazionalismo di Craxi» e conferma la parità vigente tra alleati, grazie anche alla battaglia condotta dai neofascisti ai tempi dell’adesione al Patto atlantico. Eppure nell’ordine del giorno approvato «a larga maggioranza» Beppe Niccolai, in nome dei principi fondativi del Msi-Dn, è riuscito a infilare, oltre al diritto alla Patria anche per i palestinesi e alla «più dura condanna dei terroristi arabi», l’affermazione per cui il partito «rivendica la piena dignità della nostra presenza paritaria nell’Alleanza atlantica, come nazione indipendente non a sovranità limitata». «La sovranità limitata è in realtà» spiegherà Niccolai, «la condizione del nostro Paese».
Tutti temi che sono nel Dna del partito e dell’area di riferimento. Ora vengono sviscerati da Filippo Giardini, con uno sguardo fresco che non guasta mai. Di certo, chi pensasse che in questi mesi di fronte alla tragedia di Gaza e dei territori occupati il governo Meloni abbia navigato a vista e in modo improvvisato, si sbaglia di grosso. La sua politica segue il solco segnato dalla destra in Italia fin dal dopoguerra.
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La «Bild» svela l’ultimo scandalo di Bruxelles: i cittadini subiscono regole rigidissime e politiche demenziali, i funzionari godono di una scala mobile che dal 2022 ha portato incrementi del 22,8%. Compresi i pensionati.
Non è vero che la Ue non serve a niente. E neppure che di questo passo, se non cambia qualche cosa, fila dritta verso il crac, come peraltro ha spiegato perfino Mario Draghi prima di Donald Trump. L’Unione europea serve a fare ricchi i suoi funzionari, i quali non corrono certo il pericolo di andare in bancarotta. Anzi, secondo quanto rivelato dal quotidiano tedesco Bild (di proprietà del gruppo Springer, è il giornale più venduto e letto d’Europa) anche questo Natale i burocrati di Bruxelles hanno motivo per fregarsi le mani, rallegrandosi per aver ottenuto l’ottavo aumento di stipendio in tre anni. Ne beneficeranno tutti i 67.000 dipendenti dell’Unione, sia quelli in servizio che quelli in pensione, i quali si vedranno riconosciuti retroattivamente, con calcolo dal 1° luglio, un aumento di stipendio del 3%. In totale, dal 2022 a oggi, fa il 22,8% in più, per un costo aggiuntivo del solo ultimo incremento di 365 milioni di euro all’anno.
Mica male, considerando che la maggior parte dei lavoratori italiani deve invece fare i conti con una perdita del potere d’acquisto del proprio stipendio che non è affatto compensata da incrementi salariali. Nel 2024, i dipendenti della Ue avrebbero dovuto ricevere aumenti dell’8,5%, ma il «regalo» era sembrato fin troppo generoso, al punto che anche la Commissione guidata da Ursula von der Leyen aveva invitato a moderare le pretese, contenendo la crescita degli emolumenti nel 7,3%. Ma poi, ad aprile scorso, ecco il conguaglio, con un riconoscimento supplementare per tutto il 2024 di un 1,2%.
La causa di questi continui aggiornamenti di stipendio è la temutissima inflazione, che da noi, e più in generale in tutta Europa, si vuole tenere bassa a colpi di aumento dei tassi d’interesse. Ma a Bruxelles è rincorsa da una specie di scala mobile, che consente di tenere il passo con il carovita. L’ufficio statistico europeo, noto come Eurostat, infatti, tiene d’occhio i rincari tra Bruxelles e il Lussemburgo e poi aggiorna gli stipendi, affinché il potere d’acquisto degli euroburocrati non subisca alcun calo. Per la Bce l’inflazione va combattuta in tutti i modi, anche appunto raffreddando i consumi con una decrescita infelice degli stipendi, ma se si tratta dei funzionari della Ue il discorso non vale: per loro scatta il salvagente dell’adeguamento salariale, affinché non debbano tirare troppo la cinghia come fanno tutti i comuni mortali che, risiedendo in Europa, sono tenuti a fare i conti con le politiche demenziali dell’Unione in materia di transizione ambientale, riarmo e burocrazia.
Vi state chiedendo che cosa guadagni un funzionario della Ue? La Bild ha provveduto a calcolare quanto incassino i dipendenti in servizio a palazzo Berlaymont e negli uffici connessi. Al gradino più basso, escluse le indennità esentasse, un commesso si metterà in tasca 3.750 euro, 110 dei quali sono frutto dell’ultimo aumento. Per chi invece ricopre funzioni più elevate, gli emolumenti sono ancor più generosi e si può arrivare anche a 25.986 euro, 760 dei quali si aggiungeranno con lo stipendio di dicembre ma moltiplicati per sei per consentire al burocrate di percepire pure gli arretrati accumulati da luglio in poi.
A questo punto immagino che molti di voi si stiano chiedendo quanto diamo a Ursula von der Leyen, se chi le sta intorno nell’olimpo di Bruxelles sfiora i 26.000 euro al mese. La risposta l’ha data sempre la Bild, calcolando che, grazie all’ultimo aumento di 1.000 euro al mese, la presidente della Ue è giunta a sfiorare i 36.000 euro: 35.800 per l’esattezza. E i commissari? Anche con loro l’Unione è generosa: 850 euro di «aggiornamento» per un totale 29.250 euro.
Riepilogando, l’Europa dei parametri di Maastricht, che fissa paletti inviolabili circa la spesa pubblica, funziona solo per i sudditi della Ue, mentre per i signori di Bruxelles non conta e questo fa capire che, se non si inverte la rotta, la barca dell’Unione prima o poi finirà per schiantarsi sugli scogli della realtà.
Dimenticavo: come dicevo, gli aumenti di cui sopra andranno a beneficio anche di 30.000 pensionati. Tanto per farvi capire su che razza di bomba siamo seduti, oggi il costo dei funzionari Ue a riposo è pari a 2,4 miliardi l’anno, ma nel 2045 questi signori ci costeranno 3,2 miliardi. Sempre che Eurostat non adegui al rialzo gli stipendi del 22% come ha fatto nell’ultimo triennio.
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