Giancarlo Giorgetti e Christine Lagarde (Ansa)
Lettera del Mef alla Bce dopo le critiche all’emendamento sulle riserve auree «di proprietà del popolo»: i lingotti non finanzieranno la spesa pubblica. Intanto il governo conferma più risorse per difesa e sicurezza.
Sono sempre le riserve auree della Banca d’Italia a tenere banco nella discussione sulla legge di bilancio. Dopo il nuovo altolà della Bce che è tornata a chiedere al governo di chiarire quale sia «la concreta finalità della proposta di disposizione rivista», il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti è intervenuto a placare le acque garantendo a Francoforte l’invio di «tutti i chiarimenti necessari» e dicendosi «fiducioso che tutto si risolva».
La Banca centrale europea riconosce «alcune novità (nel testo riformulato) che vanno incontro alle osservazioni precedenti», in particolare «il rispetto degli articoli del Trattato sulla gestione delle riserve auree dei Paesi, ma restano i dubbi sulla finalità della norma». Secondo indiscrezioni, Giorgetti intenderebbe segnalare al presidente dell’istituto centrale europeo, Christine Lagarde, che l’emendamento non è volto a spianare la strada al trasferimento dell’oro o di altre riserve in valuta fuori dal bilancio di Bankitalia escludendo una massa che aggirerebbe il divieto per le banche centrali di finanziare il settore pubblico.
Il senatore della Lega, Claudio Borghi, uno dei relatori della manovra, intanto incalza: «Vediamo chi si stufa prima. Basterebbe domandarsi a che titolo la Bce si mette a sindacare su cose che non sono conferite alla Banca centrale». Poi ribadisce che «non esiste la possibilità e nessuno ha mai detto che vuole utilizzare le riserve auree, anzi io avrei comprato altro oro».
Questo intoppo rischia di complicare l’iter della manovra, proprio mentre i lavori in Senato si apprestano a entrare nel vivo, con il pacchetto di emendamenti del governo atteso per domani. «Saranno pochissimi, verranno prediletti quelli parlamentari», ha spiegato il senatore di Fdi, Guido Liris, uno dei relatori della legge di bilancio, e ha previsto che la votazione in commissione Bilancio del Senato potrebbe essere fissata per il prossimo fine settimana con l’auspicio di far approvare il testo in Aula da martedì 16 dicembre.
La formulazione definitiva delle modifiche è strettamente legata all’esito del lavoro sulle coperture. Il primo dossier sul tavolo del Mef è quello delle banche e assicurazioni: va messo nero su bianco l’accordo raggiunto nei giorni scorsi per un contributo di 600 milioni in due anni, che dovrebbe tradursi in un’ulteriore riduzione della deducibilità delle perdite pregresse. A impattare sulle assicurazioni c’è anche l’incremento - previsto da un emendamento di Fdi - dell’aliquota sulla polizza Rc auto per infortunio del conducente. Altre risorse sono attese dall’aumento graduale della Tobin tax, dalla tassa sui pacchi e dalla rivalutazione dei terreni. Ancora incerto il destino della tassazione agevolata dell’oro da investimento. Sono attese correzioni alla misura sulla cedolare secca per gli affitti brevi a uso turistico. C’è un accordo ampio sul ritorno all’aliquota del 21% per il primo immobile locato e la riduzione da 5 a 3 del numero di immobili da cui scatta l’attività di impresa che prevede un diverso trattamento fiscale.
Si lavora anche sulla norma sui dividendi (la stretta verrebbe limitata alle partecipazioni sotto il 5%), sull’esclusione delle holding industriali dall’aumento dell’Irap, sullo stop al divieto di portare in compensazione i crediti e sull’allargamento dell’esenzione Isee sulla prima casa.
Si stanno valutando le detrazioni per i libri e la stabilizzazione triennale dell’iperammortamento. «Sulle banche mi pare si sia arrivati a un accordo. L’orientamento è quello di arrivare finalmente a un punto di incontro. Il governo decide ovviamente, ma stavolta c’è anche il consenso delle banche», ha affermato il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani.
In arrivo la conferma delle risorse aggiuntive per le forze dell’ordine stanziate negli anni scorsi. È quanto emerso nel corso dell’incontro tra il governo e le organizzazioni sindacali delle forze armate e del comparto sicurezza e soccorso pubblico. È stato ribadito anche che «nuovi spazi potranno liberarsi se si chiuderà positivamente la procedura europea sugli squilibri di bilancio».
Inoltre, per quanto riguarda il rinnovo dei contratti per il triennio 2025-2027, il governo ha ribadito l’impegno a una convocazione immediata dei sindacati. Durante l’incontro sono stati affrontati i temi della valorizzazione delle carriere, dell’età pensionabile e delle misure di previdenza dedicata, dei tempi di liquidazione del trattamento di fine servizio, del turn over e degli interventi volti a rafforzare ulteriormente la tutela e la sicurezza del personale.
Per fare il punto sui tempi e sull’iter della manovra, non è escluso un nuovo giro di riunioni con il governo. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo, ha ribadito che «le risorse sono quelle che abbiamo stanziato, la manovra deve chiudersi a 18,7 miliardi».
Continua a far discutere il raddoppio del tetto al contante, attualmente a 5.000 euro, con l’introduzione di una imposta di bollo di 500 euro ogni pagamento cash per importi tra 5.001 e 10.000 euro.
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Xi Jinping ed Emmanuel Macron (Ansa)
La norma salva-industria «Made in Europe» slitta al 2026 per il «no» di nove Stati. Ma sono le divergenze tra Francia e Germania sulla linea commerciale da tenere con Pechino che paralizzano il continente. Mentre Parigi parla di dazi, Berlino fa affari con Xi.
L’Unione europea è in pezzi. L’ultimo certificato di stato comatoso è il rinvio dell’iniziativa «Made in Europe», una proposta chiave per proteggere l’industria europea dalle politiche commerciali straniere, segnatamente cinesi. La norma, che mira a imporre un contenuto minimo di componentistica europea nei prodotti (con cifre vicine al 70% per prodotti come le automobili) e a stabilire criteri di preferenza negli appalti pubblici per le merci prodotte nel continente, doveva essere approvata questa settimana ma è stata posticipata a fine gennaio.
Il rinvio della discussione si è reso necessario per l’ostilità di un gruppo di Paesi. Nove Stati membri (Svezia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Irlanda, Malta, Portogallo e Slovacchia, capitanati dalla Repubblica Ceca) si sono, infatti, opposti alla deliberazione, esortando Bruxelles a procedere con la «massima cautela possibile», avvertendo che norme fuori misura rischierebbero di «soffocare l’innovazione» e di «violare accordi commerciali». Un documento ceco condiviso dai nove ministri dell’Industria ha avvertito che una tale politica dovrebbe essere considerata solo «l’ultima risorsa». Il costo di questa politica per le aziende Ue è stato stimato, nel non paper, in oltre 10 miliardi di euro all’anno a causa dell’obbligo di acquistare componenti europei più costosi. La norma non considererebbe «fatto in Europa» un prodotto solo assemblato nella regione ed è questo il problema soprattutto per Slovacchia e Cechia (ma sospettiamo anche per l’Ungheria). Da notare che il tentativo di frenare e indebolire la proposta non è venuto solo da alcuni Stati, ma anche dall’interno della Commissione, dove le direzioni generali Commercio ed Economia hanno espresso timori per l’impatto di queste misure sulla competitività e sull’utilizzo di fondi pubblici per acquisti interni.
La Germania, fino a poco tempo fa contrarissima all’iniziativa, nelle ultime settimane è apparsa più morbida, tanto che non figura tra i Paesi scettici. Ma una regia di Berlino, in casi come questo, è praticamente una certezza. Non sempre la Germania ha necessità di comparire esplicitamente. Il blocco temporaneo al «Made in Europe» è un vero e proprio sgambetto ai danni della Francia, che cerca di proteggere la propria manifattura dall’assalto delle merci cinesi. Proprio qui si innesta l’enorme spaccatura tra Francia e Germania, un contrasto stridente che nessuna conferenza stampa con i sorrisi tirati può dissimulare. Lo stallo unionale è frutto del divario tra la retorica allarmata della Francia e il contorto approccio della Germania alla questione cinese.
Il presidente francese Emmanuel Macron, appena sbarcato dall’aereo dopo tre giorni di visita a Xi Jinping in Cina, ha usato toni estremamente preoccupati per descrivere il ruolo marginale dell’Europa nel panorama globale, dove è «intrappolata tra Stati Uniti e Cina». Egli ha definito lo stato attuale come «lo scenario peggiore», in cui l’Europa è diventata il «mercato dell’aggiustamento» per la produzione cinese, in buona parte deviata dai dazi americani. Considerazione ovvia e assai tardiva. Dall’entourage di Xi Jinping, però, è filtrata una certa sorpresa dato che, durante i tre giorni di visita, i toni di Macron erano stati tutt’altro che bellicosi. Tornato all’Eliseo, Macron ha avvertito Pechino che, se non interverrà per correggere lo squilibrio commerciale giudicato «insostenibile», l’Ue potrebbe adottare «misure forti», inclusa l’imposizione di dazi. Per Parigi, la protezione dell’industria è una «questione di vita o di morte per l’industria europea».
Dall’altra parte, però, la Germania dà prova di profonde ambiguità. Nonostante si stia confrontando con una drammatica crisi industriale (con 23.900 fallimenti aziendali, il picco degli ultimi undici anni, e la perdita acquisita quest’anno di oltre 165.000 posti di lavoro nel solo settore manifatturiero), Berlino continua a privilegiare i rapporti bilaterali con Pechino. Mentre l’Unione è bloccata, il ministro degli Esteri, Johann Wadephul, e quello alle Finanze, Lars Klingbeil, si recano in Cina a poche settimane l’uno dall’altro per chiedere condizioni di favore, in particolare per le terre rare, essenziali per l’industria.
Probabilmente a Pechino non credono ai loro occhi, con questo via vai di ministri e presidenti europei che arrivano a chiedere questo e quello. Ma l’orientamento dei tedeschi è mantenere ed espandere le relazioni commerciali con la Cina, il loro «partner commerciale più importante», come ha detto Wadepuhl. Questa condotta confligge con gli obiettivi di riduzione del rischio di cui si parlava fino a qualche tempo fa a Bruxelles e di cui, come è facile notare, non si parla praticamente più. L’impegno, ora, è tutto rivolto a mostrare indignazione per la nuova strategia di Donald Trump verso l’Europa, a quanto sembra.
Certamente la spinta tedesca contrasta con le idee della Francia sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’enorme surplus cinese, che nei primi undici mesi dell’anno ha superato i mille miliardi di dollari. Il ripiegamento delle merci cinesi dagli Stati Uniti verso l’Europa era un effetto atteso, dopo l’aumento dei dazi americani verso Pechino. In otto mesi, l’Unione non ha fatto nulla per proteggersi e ora Parigi grida «Al fuoco!», mentre Berlino, ispiratrice dell’immobilismo di Commissione e Consiglio, punta ancora a ritagliare per sé uno status privilegiato.
Di fronte all’aggressiva politica commerciale cinese, l’Unione europea si ritrova in pezzi, congelata da Berlino che, intanto, fa affari e cerca accordi con Pechino.
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Romano Prodi (Ansa)
Trump rimette all’angolo i leader del continente: «Sono deboli e politicamente corretti, guidano Paesi decadenti». Secondo l’ex premier, invece, Bruxelles sarebbe «succube di Orbán». La sua soluzione? «Tornare all’asse franco-tedesco».
Chissà se alla Warthon School of Pennsylvania dove ha studiato c’era un corso di latino, comunque Donald Trump ha capito che «repetita iuvant». Non ha fatto passare neppure 24 ore dal suo monito all’Europa («Tra vent’anni rischiate di sparire») che ha rincarato con una intervista a Politico, il network più influente di qua e di là dell’Atlantico, il suo giudizio: «Penso che i leader europei siano deboli, e vogliono essere così politicamente corretti», ha detto, «non sanno cosa fare. L’Europa non sa cosa fare». La botta è dura, ma guardando la foto di Volodymir Zelensky con i cosiddetti «volenterosi» si fa fatica a dare torto al presidente americano.
Emmanuel Macron secondo i sondaggi non va oltre l’11% dei consensi in Francia dove da mesi di fatto non c’è un governo, Keir Starmer in Gran Bretagna è definito un premier zombie e anche Friedrich Merz a Berlino non se la passa benissimo: l’opinione pubblica guarda sempre più a destra verso Afd. Se ne sono accorti tutti tranne Romano Prodi, con al seguito Mario Monti, che ieri ha trovato modo di dire che l’Europa per rilanciarsi deve ripartire dall’asse franco-tedesco. Sta di fatto che Zelensky è il più traballante di tutti e Donald Trump lo ha brutalmente incalzato dicendo che da troppo tempo in Ucraina non si vota, gli unici due capi di governo o di Stato che stanno saldi ai loro posti li ha trovati a Roma: Giorgia Meloni e Leone XIV. È una notazione che viene spontanea ascoltando Trump sferzare i leader europei e il presidente ucraino: «Stanno usando la guerra per non indire le elezioni, ma penso che il popolo ucraino dovrebbe avere questa scelta. E forse vincerebbe Zelensky. Non so chi vincerebbe. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia».
Tornando sull’Europa a Politico il presidente americano ha confidato: «I leader europei parlano, ma non producono e la guerra continua all’infinito. Guidano Paesi decadenti, città come Londra o Parigi sono sovraccariche per via della massiccia e incontrollata immigrazione dal Medio Oriente e dall’Africa». Viene in mente un saggio di cinquant’ anni fa, lo scrisse Raymond Aron e si intitolava In difesa di un’Europa decadente. Ma ci sta che nessuno se ne ricordi. Trump per spiegare la decadenza se l’è presa col sindaco mussulmano di Londra Sadiq Khan, che «è un disastro», eletto solo perché «sono arrivate così tante persone immigrate che ora votano per lui». È il tema della perdita dell’identità europea. Che va fermata comunque, pena la perdita dell’Europa stessa. Per farlo Trump è pronto a sostenere candidati che abbiano la sua stessa visione anche a costo di crisi diplomatiche con chi oggi è al potere in Europa. Per spargere un altro po’ di sale sulle ferite di Bruxelles Donald Trump afferma: «Ho già appoggiato persone che molti europei non amano. Ho appoggiato Viktor Orbán». Quanto a Zelensky: «È come P.T. Barnum del circo: un showman in grado di vendere qualsiasi cosa in qualsiasi momento». A fronte di un attacco così forte ci si aspetta una reazione puntuta dell’Ue, invece nulla. Forse a palazzo Berlaymont non conoscono l’antico adagio: chi tace acconsente. Tocca così alla portavoce di Ursula von der Leyen, Paula Pinho abbozzare: «Mi asterrò dal commentare, se non per confermare che siamo molto soddisfatti e grati di avere leader eccellenti a partire dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, di cui siamo davvero orgogliosi, che può guidarci nelle molte sfide che il mondo deve affrontare». Su Zelensky ha replicato Anita Hipper portavoce della Commissione: «Questi sono tempi eccezionali, Zelensky è un leader democraticamente eletto». Poco d’altro. Kaja Kallas – alto rappresentante per la politica estera – commenta a mezza bocca: «Riguardo agli attacchi Usa contro strategia e modello europei dobbiamo dovremmo essere più sicuri di noi stessi». Prova a far finta di menar le mani Antonio Costa presidente del Consiglio europeo che dice: «Dobbiamo prendere atto delle accuse e agire di conseguenza». Che non si sa esattamente cosa voglia dire come le parole di Donald Tusk – premier polacco, l’ unico a replicare a Trump – che respinge al mittente le accuse americane. Per il resto è imbarazzato silenzio.
Rotto però in Italia da due reduci della grande Europa (a loro dire). Sono Romano Prodi e Mario Monti, premiati ieri dall’Ispi in tandem in via eccezionale. È stato Romano Prodi ad accusare Donald Trump di «disprezzare l’Europa» e a sostenere che «i recenti avvenimenti fanno capire che la nostra debolezza rende facile il compito di un presidente che sta voltando le spalle alla storia del suo stesso Paese, odia la democrazia e vede il futuro del mondo in un rapporto diretto tra oligarchi o dittatori o chiamateli poteri assoluti». Ovviamente i tempi belli erano quelli di quando lui era presidente della Commissione europea, poi quando la Francia ha deciso di bloccare la Costituzione l’Europa si è piano piano smarrita. «L’Europa in questi anni ha finito per odiare se stessa, succube di Orbán e dei suoi veti (ecco perché serve smontare l’unanimità, ndr), resa più fragile da debolezza del motore franco-tedesco che ha sempre retto l’Europa, tradizionalmente aiutato dall’Italia». Ma è dall’asse franco-tedesco che si deve ripartire. Non siamo su Scherzi a parte; lo pensa anche Mario Monti che ha svelato un segreto. Quando Prodi lo chiamò per rinnovargli l’incarico da commissario europeo lo convocò in un piccolo ristorante cinese. E questo spiega molto di Romano Prodi, delle sue predilezioni e forse anche del perché l’Europa è messa così e Trump la maltratta.
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