
Oltre quarant'anni (e molta denatalità) dopo la legge sul divorzio, vengono meno la persecuzione e il bando sociale verso il genitore maschio. Ma si rafforza il tentativo di chiuderlo in una gabbia di regole lontane dai suoi veri compiti. Che sono virilità e autorità.I figli del divorzio (varato nel 1978) hanno ormai più di quarant'anni. E molti di loro si sono a loro volta separati e divorziati. Per la verità meno frequentemente dei loro genitori, ma semplicemente perché, dopo quello che hanno passato in famiglia, avevano meno voglia di sposarsi. Il divorzio, infatti, smentendo quei legislatori ottimisti, non ha creato famiglie meno conflittuali, ma soltanto meno numerose, riducendo drasticamente anche le nascite e contribuendo a fare dell'Italia uno dei Paesi con la più bassa natalità del mondo sviluppato. Da quando la prima generazione dopo il divorzio ha avuto trent'anni, il tasso di fecondità italiano ha cominciato a scendere e non ha più smesso. La liquidazione della famiglia ha coinciso con quella della fecondità nazionale, oggi ai minimi di sempre.In questa situazione, come stanno i padri? Qualche indicazione è uscita ieri dal convegno su «Il padre e l'educazione dei figli, oltre la separazione», tenuto dai Papà separati Milano nel trentesimo anno di attività, con testimonianze anche di figli ormai adulti e le ricche esperienze di paternità della Comunità di San Patrignano.Si tratta di un popolo di ormai milioni di persone tra figli e padri (più di 2 milioni di bambini solo negli ultimi 10 anni), che stanno attraversando la distruzione degli affetti, delle risorse finanziarie e in più l'isolamento da parte della maggioranza delle istituzioni. Queste hanno trattato a lungo i padri come i maggiori responsabili di un attacco di cui in realtà erano le principali vittime: da tempo la fine del matrimonio è chiesta due volte su tre dalla donne. I sopravvissuti fanno ora i bilanci e i programmi per il futuro.Non sarà semplice, visto che siamo stati l'ultimo Paese d'Europa a darci una legge che regoli i rapporti tra i genitori riguardo ai figli del matrimonio, dove poi l'attuale ministro per le Pari opportunità e la famiglia, Elena Bonetti, si è dichiarata fiera di aver chiuso in un cassetto il disegno di legge che ne prevedeva l'aggiornamento in linea con le attuali direttive internazionali. L'«eversiva» proposta del senatore Simone Pillon, con una serie di cautele, restituiva con procedure piuttosto agili la gestione del rapporto con i figli alla responsabilità dei genitori; come si sta del resto facendo in tutto il mondo sviluppato, con conseguente caduta della litigiosità e aumento degli accordi extra giudiziali e del benessere dei figli coinvolti. Così facendo però urtava gli interessi delle potenti consorterie di avvocati che da più di quarant'anni hanno l'appalto dell'intero settore, e dei politici che sulla «fabbrica dei divorzi» hanno costruito la proprie clientele elettorali. Col risultato che il testo, che osava oltretutto prevedere per i figli tempi di soggiorno simili presso madre e padre (come raccomandato dal Consiglio d'Europa), è ora sequestrato nel cassetto del ministro giuseppino alle Diseguali opportunità.Arroganza dei ministri a parte, tuttavia, la situazione è mutata. In parte perché è così dovunque: le ferite affettive ed economiche nei vari Paesi della «rivolta contro i padri» degli anni Settanta e della loro cacciata dalla famiglia sono state tali che - salvo gli scomposti cartelli fuori tempo dell'onorevole Monica Cirinnà - l'aria è cambiata. Anche per il fatto elementare che senza coppia e senza bambini la società si spegne. Lo Stato ha bisogno dei padri e dei figli come delle madri: la decostruzione è finita, come la ricreazione. Si aprono tuttavia sfide di tipo nuovo.È innanzitutto urgente liberarsi dallo sguardo e linguaggio burocratico e sociologico che oggi soffoca nel suo pervasivo abbraccio qualsiasi aspetto dell'esistenza umana (è la «società burocratica» prevista da Max Weber fin dall'inizio del Novecento), istituendo per ogni vissuto umano funzionari («ortopedici dell'anima» li chiamò Michel Foucault) che soffocano gli aspetti vitali della questione affrontata. È questo un problema che la generazione dei loro padri, prime vittime del divorzio, non avevano. Quei padri, dal giorno in cui la moglie diceva basta, seguito subito dalla perdita della casa, dei figli, e spesso del lavoro per la successiva crisi esistenziale, dovevano solo riuscire a sopravvivere, senza lasciare spazio a depressioni o aggressività (contro sé o contro altri), e dedicarsi a una dura, elementare lotta per la sopravvivenza. Un'esperienza tremenda ma chiara e, se ce la facevi, produttrice anche di forza; non c'era spazio per conformismi e concetti astrusi.Adesso la persecuzione e il bando sociale sono diminuiti, ma è diventato ancora più forte il tentativo di inglobarti in una gabbia di comportamenti prescritti, spesso lontana sia dalla paternità che dalla maschilità. Per esempio, oggi qualsiasi discussione su padre e paternità finisce sulla questione del «ruolo» paterno. Ma il ruolo è il «rotolo» che si dava agli attori nel teatro latino, con scritta sopra la parte. E il padre non è un attore, ma il rappresentante di fronte ai figli della libertà, della spontaneità e della capacità di onorarla, cercandola dentro di sé ed esprimendola. Theodor Adorno, fondatore della Scuola di Francoforte (ultimo guizzo vitale del post marxismo), diceva che l'insistenza sul ruolo era il primo passo verso l'alienazione, la perdita del sé: aveva ragione.Paternità (e naturalmente maternità) non sono dei «ruoli», interpretazioni di parti assegnate dalla società, ma modi di essere, forme dell'esistenza, designate dall'ordine naturale e simbolico. Quindi vicine al Sacro, territorio oggi proprio per questo accuratamente evitato dalle scienze sociali. Il padre non è un manager, ma colui che può aiutare i figli (anche con l'esempio) a riconoscere il proprio Sé, le proprie forze, senza lasciarsi affascinare da ruoli e «recitazioni». Anche Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, diffidava del culto del ruolo, perché sapeva che la maggior parte dei disturbi psichici sono appunto indotti dalle stereotipie suggerite dall'esterno. Il vero folle è il conformista.È solo approfondendo il proprio essere padri nel mondo senza smarrirci in una manualistica pseudo paterna che diventiamo davvero padri e ci possiamo difendere dagli attacchi delle burocrazie di ogni regime, che il padre non lo amano mai. Proprio perché, scriveva Charles Péguy, «oggi c'è un solo avventuriero al mondo: è il padre di famiglia», con il suo coraggio di crescere i figli, in un mondo moderno in cui ognuno pensa solo a sé stesso. Da quando fa iniziare la vita del figlio, fecondando l'ovulo materno , il padre diventa, infatti, essenzialmente dono: nella «virtù che dona» c'è tutta la paternità, la maschilità e la sostanza della sua vita. È questo il patrimonio che ogni padre deve riconoscere e sviluppare dentro di sé. Dopo, ogni ostacolo è superabile. Anche le infinite disquisizioni su paternità e autorità vanno ricondotte a questo. Al padre interessa solo l'autorità che viene da augeo (faccio crescere), indispensabile per lo sviluppo dei figli. Il gusto del potere non è la sua passione: ha molto altro da fare.
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