2022-05-26
Occhi su Putin, però intanto la Cina si pappa l’Italia con l’aiuto del Pd
Non c’è paragone tra le infiltrazioni di Pechino e quelle del Cremlino, ma nessuno ci bada, neppure di fronte alle prove delle atrocità sugli uiguri. Basta avere gli amici giusti.Le grinfie del Dragone: telecamere, porti e tecnologia. Pechino possiede anche il 35% della nostra rete elettrica, oltre ad avere interessi nell’automotive e nella telefonia.Lo speciale contiene due articoli.Chi frequenta i russi in Italia sta diventando radioattivo. L’Ue, su spinta americana, si prepara a un nuovo regime di sanzioni. L’obiettivo è mettere fuori legge non tanto i russi, ma anche chi li incontra e chi ci fa affari. La guerra fatta in questo modo ha cambiato gli equilibri e i business di grandi aziende. Alcune costrette a tagliarsi un braccio con gravi perdite. E additate dalla politica, che di fronte alla tutela dei diritti umani vuole una presa di posizione drastica. Peccato, che la diffusione di video arrivati pure in Italia che testimoniano le violenze cinesi nello Xinjiang e la sistematica violazione e repressione degli uiguri non abbia destato grande sdegno. Anzi per lo più la politica, soprattutto a sinistra, ha cercato di coprire l’eco proveniente dall’Asia alzando la voce contro la dittatura russa. In Germania la fuga di notizia proveniente dalle carceri dello Xinjang è stata immediatamente raccolta dal ministero degli Esteri, Annalena Baerbock, che ha tenuto il punto con il collega cinese. Le aziende come Volkwagen o Basf hanno preferito tacere. Da noi si è rimasti al livello zero della presa di coscienza. Segno che gli asset e i legami con la Cina sono assai forti. Ed estremamente pericolosi. Molto più rispetto alle infiltrazioni russe che non giungeranno mai al livello di penetrazione mostrato da Pechino. Innanzitutto, non si sono solo i tedeschi a lavorare nella terra degli uiguri, ma anche tante società italiane. Una di questa dava lavoro all’ex ministro delle Infrastrutture, la piddina Paola De Micheli, la quale circa due anni fa confidava a Sette del Corriere della Sera di sapere distinguere un concentrato di pomodoro italiano da uno cinese con un solo sguardo. «Il concentrato cinese si riconosce dal colore. Quindi meglio fare la prova senza benda». Dei cinesi lei è stata pure consulente, suggeriva l’intervistatore. «Ho vissuto tre mesi da sola nello Xinjiang. Ricordo un viaggio in cuccetta al confine con il Kazakistan. Dovevo certificare un lotto di pomodori. Nello scompartimento ero l’unica donna. Temendo che mi aggredissero chiamavo mia madre col cellulare bisbigliando e dicevo il rosario». Si è trovata così bene nel Nord Ovest della Cina che poi da ministro incontrò al fianco di Fabrizio Pagani più di una volta i rappresentanti di China Merchants interessati - o almeno così sembravano - ad entrare in Atlantia e risolvere l’enorme grana di Autostrade travolta dal crollo del ponte Morandi. Perché a sostenere la presenza cinese in Italia non c’è solo Beppe Grillo che entra ed esce spesso dall’ambasciata a Roma, oppure Michele Geraci, ex sottosegretario leghista del governo gialloblu, ma numerosi esponenti della sinistra. A dicembre del 2018 Tencent, Cgtn e il conglomerato della tv pubblica Cctv organizzò a Pechino un grande meeting sull’intelligenza artificiale nell’editoria e nei social. Collegato da Bologna a dare un saluto e un augurio di buon lavoro c’era Romano Prodi che parlava come ex premier e come pensatore italiano. Ma la penetrazione cinese in Italia funzione perché è silenziosa e ama avere a che fare con le figure intermedie che gestiscono la macchina pubblica. Non è un caso che sotto il periodo del Conte Uno e del Conte bis ministeri e dipartimenti siano stati inondati di telecamere cinesi. Inutile dire che, là dove mancavano, il Covid ha contribuito a colmare le lacune. Nel 2021 fu svelata la presenza di 19 termoscanner agli ingressi di Palazzo Chigi prodotti e installati dalla Dahua Technology, costola italiana dell’omonima azienda di Hangzhou. Quest’ultima è dal marzo 2020 nella black list della Casa Bianca. Già nell’ottobre del 2019, un anno prima dell’acquisto effettuato da Giuseppe Conte, l’esecutivo di Donald Trump aveva inserito l’azienda di Hangzhou in un’altra lista. In pratica The Donald proibì a Dahua di acquistare o commerciare tecnologia americana perché ritenuta colpevole di aver partecipato allo sterminio di massa degli uiguri. Telecamere cinesi sono presenti anche in Parlamento e in numerose Procure. Guarda caso quando l’Aula dovette affrontare una mozione per definire quello degli uiguri un genocidio, metà maggioranza andò dietro alle perplessità di Lia Quartapelle che da responsabile degli Esteri del Pd si disse dubbiosa sulla legittimità del termine genocidio troppo tecnico e poco applicabile. Chissà come mai. D’altronde è sempre a un partito come il Pd che si deve il colpo di genio di Cdp Reti. Ai tempi di Matteo Renzi, per la precisione il 30 luglio del 2014, Cdp presieduta da Franco Bassanini approva la cessione del 35% della holding che controlla Snam, Italgas e Terna a China State Grid. I cinesi versano circa due miliardi, ma sarebbero stati anche meno se gli advisor di Lazard non fossero intervenuti, ed entrano nel cda con un esponente. L’investimento è stato ripagato con i dividendi delle aziende partecipate e adesso l’ospite è così ingombrante che nemmeno il governo Draghi sa come mandarlo via. Si vocifera addirittura di fondere Snam e Terna pur di sciogliere la holding e diluire la presenza di Pechino. E sarebbe solo uno dei temi caldi perché la tecnologia 5G è sempre a rischio e ci sono i porti che ancora oggi gestiti dal network di Graziano Delrio che va a lezione di cinese nel caso di dovessero riaprire le porte agli emissari di Xi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/occhi-putin-cina-pappa-italia-2657390842.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-grinfie-del-dragone-telecamere-porti-e-tecnologia" data-post-id="2657390842" data-published-at="1653508258" data-use-pagination="False"> Le grinfie del Dragone. Telecamere, porti e tecnologia Quel che resta della Via della seta, almeno in Italia, non è poco. Anche dopo che il governo di Mario Draghi ha lasciato cadere nel vuoto gli accordi del marzo 2019 firmati da Giuseppe Conte con il presidente Xi Jinping, la presenza delle industrie e dei capitali cinesi nella Penisola non è minimamente calata. Dalle macchine sportive ai server e alle «saponette» per internet, passando per le infrastrutture elettriche, i porti e i sistemi di telesorveglianza negli uffici pubblici, le aziende di Pechino continuano a prosperare in Italia. Come in Francia e Germania, del resto. Ma da noi è soltanto da quando a Palazzo Chigi c’è Draghi che si fa attenzione a che la penetrazione dei colossi cinesi, spesso di proprietà del partito-stato Pcc, non abbia carattere predatorio. Ora l’aumento della tensione tra Washington e Pechino accende un nuovo faro anche sull’Italia, che dai tempi di Romano Prodi e fino a Beppe Grillo ha sempre avuto un debole per la Cina. Secondo le Dogane di Pechino, nel primo trimestre di quest’anno l’interscambio tra Italia e Cina è aumentato del 17% rispetto a un anno prima. Ma occhio agli squilibri della bilancia commerciale. Le importazioni italiane sono aumentate del 38% e quelle di Pechino sono scese dell’8%. In tutto il 2021, si sono toccati i 54 miliardi di euro (+20,1% sul 2020 e +21,4% sul 2019), con l’Italia che ha esportato merci per 15,5 miliardi e ne ha importate per 38,5. In Italia, il Dragone ha una comunità di oltre 300.000 persone che produce, consuma e trasferisce denaro con la massima riservatezza, ma ha anche una florida presenza industriale e commerciale. Nonostante i ritardi, il prossimo anno la joint venture sino-americana Silk Faw dovrebbe lanciare da Reggio Emilia la «S9», ovvero la prima supercar interamente elettrica. La risposta cinese alla Ferrari non è un fungo spuntato dal nulla nel rinomato distretto dell’automotive emiliano, ma fa parte di un progetto da un miliardo di investimenti e almeno mille posti di lavoro. Faw, 130.000 dipendenti e oltre 3,5 milioni di auto vendute lo scorso anno, in realtà ha mancato di un soffio il colpo grosso: Iveco. Gli Agnelli Elkann, un anno fa, stavano per vendere ai cinesi per tre miliardi di dollari la controllata di Cnh che produce camion e veicoli commerciali, insieme ai motori della Fiat Power Train. Senza usare il potere veto del golden power, ma con una decisa moral suasion, Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti hanno fatto capire a John Elkann che non era il caso. Iveco è stata quindi separata da trattori e macchine movimento terra e quotata in Borsa (dove ha perso quasi il 50% in soli cinque mesi), ma sarebbe stato davvero imbarazzante, dopo l’invasione dell’Ucraina, sbandierare le nuove commesse militari ottenute da Torino se il padrone fosse stato cinese. Uno stop che ha fatto più discutere è stato quello imposto a Huawei e Zte sullo sviluppo del 5G. Lo decise Conte, dopo inenarrabili polemiche e ritardi, per motivi di sicurezza nazionale ben spiegati anche dal Regno Unito di Boris Johnson. Ma i due colossi cinesi sono comunque ben piazzati in Italia, dove vendono smartphone, sistemi di rete, tablet e computer. Huawei, formalmente privata, fattura nella Penisola oltre un miliardo l’anno e ha circa 800 dipendenti. La statale Zte invece è arrivata nel 2005 e nel 2019 aveva ricavi per oltre 250 milioni, frutto anche di un centro ricerche impiantato all’Aquila e di molti contratti per portare internet in varie amministrazioni locali. Entrambe le aziende sono considerate, almeno in Italia, dei datori di lavoro modello. E hanno lobbisti di primo livello. Ma se prima o poi un telefonino cinese può capitare in mano a tutti, non è certo un fatto di dominio popolare che il 35% della rete elettrica italiana sia in mano a Pechino, che attraverso China State Grid ha il 35% di Cdp Reti. L’operazione è del 2014 ed è responsabilità di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, ovvero Pd al 100% (almeno all’epoca). Dove i capitali cinesi hanno dovuto un po’ fermarsi è in un settore strategico come quello dei porti. Oggi parla ufficialmente cinese il 49% di Vado Ligure (Savona), terminal gigantesco per ogni tipo di merce, dalle auto agli alimentari. Lo stesso governo Renzi aveva pensato di allearsi con Pechino anche per gestire i porti di Venezia, Trieste e Genova, ma l’accordo non è mai decollato davvero. Idem per Taranto, con i capitali cinesi che dopo lunghe trattative hanno preferito fare rotta sul Pireo, ma che in realtà aspettano solo che a Palazzo Chigi torni un Conte. È invece del 2017, governo di Paolo Gentiloni, la spensierata gara Consip che ha affidato ai cinesi di HikVision la fornitura di un migliaio di telecamere in oltre 130 Procure. Il colosso cinese della telesorveglianza viene ciclicamente messo al bando dalle autorità Usa perché naturalmente è il fornitore anche dell’esercito cinese, che usa le sue apparecchiature per controllare, ad esempio, la minoranza degli uiguiri. Alla fine, almeno per ora, il golden power è stato usato da Draghi solo per bloccare la vendita delle preziose sementi della romagnola Verisem (controllata da un fondo Usa) agli svizzeri di Syngenta, che nel 2017 è finita in mani cinesi. Il mese scorso il Tar del Lazio ha respinto il ricorso di Syngenta contro la decisione di Palazzo Chigi, ma la sovranità alimentare ed economica italiana è comunque un obiettivo. Nel mirino di una Cina che ha fatto incetta di terreni agricoli in mezza Africa e che ha un track record di tutto rispetto nell’espandersi dove mancano i capitali e le classi politiche sono più corrotte.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)