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2022-05-26
Occhi su Putin, però intanto la Cina si pappa l’Italia con l’aiuto del Pd
Ansa
Chi frequenta i russi in Italia sta diventando radioattivo. L’Ue, su spinta americana, si prepara a un nuovo regime di sanzioni. L’obiettivo è mettere fuori legge non tanto i russi, ma anche chi li incontra e chi ci fa affari. La guerra fatta in questo modo ha cambiato gli equilibri e i business di grandi aziende. Alcune costrette a tagliarsi un braccio con gravi perdite. E additate dalla politica, che di fronte alla tutela dei diritti umani vuole una presa di posizione drastica. Peccato, che la diffusione di video arrivati pure in Italia che testimoniano le violenze cinesi nello Xinjiang e la sistematica violazione e repressione degli uiguri non abbia destato grande sdegno. Anzi per lo più la politica, soprattutto a sinistra, ha cercato di coprire l’eco proveniente dall’Asia alzando la voce contro la dittatura russa.
In Germania la fuga di notizia proveniente dalle carceri dello Xinjang è stata immediatamente raccolta dal ministero degli Esteri, Annalena Baerbock, che ha tenuto il punto con il collega cinese. Le aziende come Volkwagen o Basf hanno preferito tacere. Da noi si è rimasti al livello zero della presa di coscienza. Segno che gli asset e i legami con la Cina sono assai forti. Ed estremamente pericolosi. Molto più rispetto alle infiltrazioni russe che non giungeranno mai al livello di penetrazione mostrato da Pechino. Innanzitutto, non si sono solo i tedeschi a lavorare nella terra degli uiguri, ma anche tante società italiane. Una di questa dava lavoro all’ex ministro delle Infrastrutture, la piddina Paola De Micheli, la quale circa due anni fa confidava a Sette del Corriere della Sera di sapere distinguere un concentrato di pomodoro italiano da uno cinese con un solo sguardo. «Il concentrato cinese si riconosce dal colore. Quindi meglio fare la prova senza benda». Dei cinesi lei è stata pure consulente, suggeriva l’intervistatore. «Ho vissuto tre mesi da sola nello Xinjiang. Ricordo un viaggio in cuccetta al confine con il Kazakistan. Dovevo certificare un lotto di pomodori. Nello scompartimento ero l’unica donna. Temendo che mi aggredissero chiamavo mia madre col cellulare bisbigliando e dicevo il rosario». Si è trovata così bene nel Nord Ovest della Cina che poi da ministro incontrò al fianco di Fabrizio Pagani più di una volta i rappresentanti di China Merchants interessati - o almeno così sembravano - ad entrare in Atlantia e risolvere l’enorme grana di Autostrade travolta dal crollo del ponte Morandi. Perché a sostenere la presenza cinese in Italia non c’è solo Beppe Grillo che entra ed esce spesso dall’ambasciata a Roma, oppure Michele Geraci, ex sottosegretario leghista del governo gialloblu, ma numerosi esponenti della sinistra. A dicembre del 2018 Tencent, Cgtn e il conglomerato della tv pubblica Cctv organizzò a Pechino un grande meeting sull’intelligenza artificiale nell’editoria e nei social. Collegato da Bologna a dare un saluto e un augurio di buon lavoro c’era Romano Prodi che parlava come ex premier e come pensatore italiano. Ma la penetrazione cinese in Italia funzione perché è silenziosa e ama avere a che fare con le figure intermedie che gestiscono la macchina pubblica. Non è un caso che sotto il periodo del Conte Uno e del Conte bis ministeri e dipartimenti siano stati inondati di telecamere cinesi. Inutile dire che, là dove mancavano, il Covid ha contribuito a colmare le lacune. Nel 2021 fu svelata la presenza di 19 termoscanner agli ingressi di Palazzo Chigi prodotti e installati dalla Dahua Technology, costola italiana dell’omonima azienda di Hangzhou. Quest’ultima è dal marzo 2020 nella black list della Casa Bianca. Già nell’ottobre del 2019, un anno prima dell’acquisto effettuato da Giuseppe Conte, l’esecutivo di Donald Trump aveva inserito l’azienda di Hangzhou in un’altra lista. In pratica The Donald proibì a Dahua di acquistare o commerciare tecnologia americana perché ritenuta colpevole di aver partecipato allo sterminio di massa degli uiguri.
Telecamere cinesi sono presenti anche in Parlamento e in numerose Procure. Guarda caso quando l’Aula dovette affrontare una mozione per definire quello degli uiguri un genocidio, metà maggioranza andò dietro alle perplessità di Lia Quartapelle che da responsabile degli Esteri del Pd si disse dubbiosa sulla legittimità del termine genocidio troppo tecnico e poco applicabile. Chissà come mai. D’altronde è sempre a un partito come il Pd che si deve il colpo di genio di Cdp Reti. Ai tempi di Matteo Renzi, per la precisione il 30 luglio del 2014, Cdp presieduta da Franco Bassanini approva la cessione del 35% della holding che controlla Snam, Italgas e Terna a China State Grid.
I cinesi versano circa due miliardi, ma sarebbero stati anche meno se gli advisor di Lazard non fossero intervenuti, ed entrano nel cda con un esponente. L’investimento è stato ripagato con i dividendi delle aziende partecipate e adesso l’ospite è così ingombrante che nemmeno il governo Draghi sa come mandarlo via. Si vocifera addirittura di fondere Snam e Terna pur di sciogliere la holding e diluire la presenza di Pechino. E sarebbe solo uno dei temi caldi perché la tecnologia 5G è sempre a rischio e ci sono i porti che ancora oggi gestiti dal network di Graziano Delrio che va a lezione di cinese nel caso di dovessero riaprire le porte agli emissari di Xi.
Le grinfie del Dragone. Telecamere, porti e tecnologia
Quel che resta della Via della seta, almeno in Italia, non è poco. Anche dopo che il governo di Mario Draghi ha lasciato cadere nel vuoto gli accordi del marzo 2019 firmati da Giuseppe Conte con il presidente Xi Jinping, la presenza delle industrie e dei capitali cinesi nella Penisola non è minimamente calata. Dalle macchine sportive ai server e alle «saponette» per internet, passando per le infrastrutture elettriche, i porti e i sistemi di telesorveglianza negli uffici pubblici, le aziende di Pechino continuano a prosperare in Italia. Come in Francia e Germania, del resto. Ma da noi è soltanto da quando a Palazzo Chigi c’è Draghi che si fa attenzione a che la penetrazione dei colossi cinesi, spesso di proprietà del partito-stato Pcc, non abbia carattere predatorio. Ora l’aumento della tensione tra Washington e Pechino accende un nuovo faro anche sull’Italia, che dai tempi di Romano Prodi e fino a Beppe Grillo ha sempre avuto un debole per la Cina.
Secondo le Dogane di Pechino, nel primo trimestre di quest’anno l’interscambio tra Italia e Cina è aumentato del 17% rispetto a un anno prima. Ma occhio agli squilibri della bilancia commerciale. Le importazioni italiane sono aumentate del 38% e quelle di Pechino sono scese dell’8%. In tutto il 2021, si sono toccati i 54 miliardi di euro (+20,1% sul 2020 e +21,4% sul 2019), con l’Italia che ha esportato merci per 15,5 miliardi e ne ha importate per 38,5. In Italia, il Dragone ha una comunità di oltre 300.000 persone che produce, consuma e trasferisce denaro con la massima riservatezza, ma ha anche una florida presenza industriale e commerciale.
Nonostante i ritardi, il prossimo anno la joint venture sino-americana Silk Faw dovrebbe lanciare da Reggio Emilia la «S9», ovvero la prima supercar interamente elettrica. La risposta cinese alla Ferrari non è un fungo spuntato dal nulla nel rinomato distretto dell’automotive emiliano, ma fa parte di un progetto da un miliardo di investimenti e almeno mille posti di lavoro. Faw, 130.000 dipendenti e oltre 3,5 milioni di auto vendute lo scorso anno, in realtà ha mancato di un soffio il colpo grosso: Iveco. Gli Agnelli Elkann, un anno fa, stavano per vendere ai cinesi per tre miliardi di dollari la controllata di Cnh che produce camion e veicoli commerciali, insieme ai motori della Fiat Power Train. Senza usare il potere veto del golden power, ma con una decisa moral suasion, Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti hanno fatto capire a John Elkann che non era il caso. Iveco è stata quindi separata da trattori e macchine movimento terra e quotata in Borsa (dove ha perso quasi il 50% in soli cinque mesi), ma sarebbe stato davvero imbarazzante, dopo l’invasione dell’Ucraina, sbandierare le nuove commesse militari ottenute da Torino se il padrone fosse stato cinese.
Uno stop che ha fatto più discutere è stato quello imposto a Huawei e Zte sullo sviluppo del 5G. Lo decise Conte, dopo inenarrabili polemiche e ritardi, per motivi di sicurezza nazionale ben spiegati anche dal Regno Unito di Boris Johnson. Ma i due colossi cinesi sono comunque ben piazzati in Italia, dove vendono smartphone, sistemi di rete, tablet e computer. Huawei, formalmente privata, fattura nella Penisola oltre un miliardo l’anno e ha circa 800 dipendenti. La statale Zte invece è arrivata nel 2005 e nel 2019 aveva ricavi per oltre 250 milioni, frutto anche di un centro ricerche impiantato all’Aquila e di molti contratti per portare internet in varie amministrazioni locali. Entrambe le aziende sono considerate, almeno in Italia, dei datori di lavoro modello. E hanno lobbisti di primo livello.
Ma se prima o poi un telefonino cinese può capitare in mano a tutti, non è certo un fatto di dominio popolare che il 35% della rete elettrica italiana sia in mano a Pechino, che attraverso China State Grid ha il 35% di Cdp Reti. L’operazione è del 2014 ed è responsabilità di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, ovvero Pd al 100% (almeno all’epoca). Dove i capitali cinesi hanno dovuto un po’ fermarsi è in un settore strategico come quello dei porti. Oggi parla ufficialmente cinese il 49% di Vado Ligure (Savona), terminal gigantesco per ogni tipo di merce, dalle auto agli alimentari. Lo stesso governo Renzi aveva pensato di allearsi con Pechino anche per gestire i porti di Venezia, Trieste e Genova, ma l’accordo non è mai decollato davvero. Idem per Taranto, con i capitali cinesi che dopo lunghe trattative hanno preferito fare rotta sul Pireo, ma che in realtà aspettano solo che a Palazzo Chigi torni un Conte.
È invece del 2017, governo di Paolo Gentiloni, la spensierata gara Consip che ha affidato ai cinesi di HikVision la fornitura di un migliaio di telecamere in oltre 130 Procure. Il colosso cinese della telesorveglianza viene ciclicamente messo al bando dalle autorità Usa perché naturalmente è il fornitore anche dell’esercito cinese, che usa le sue apparecchiature per controllare, ad esempio, la minoranza degli uiguiri.
Alla fine, almeno per ora, il golden power è stato usato da Draghi solo per bloccare la vendita delle preziose sementi della romagnola Verisem (controllata da un fondo Usa) agli svizzeri di Syngenta, che nel 2017 è finita in mani cinesi. Il mese scorso il Tar del Lazio ha respinto il ricorso di Syngenta contro la decisione di Palazzo Chigi, ma la sovranità alimentare ed economica italiana è comunque un obiettivo. Nel mirino di una Cina che ha fatto incetta di terreni agricoli in mezza Africa e che ha un track record di tutto rispetto nell’espandersi dove mancano i capitali e le classi politiche sono più corrotte.
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Non c’è paragone tra le infiltrazioni di Pechino e quelle del Cremlino, ma nessuno ci bada, neppure di fronte alle prove delle atrocità sugli uiguri. Basta avere gli amici giusti.Le grinfie del Dragone: telecamere, porti e tecnologia. Pechino possiede anche il 35% della nostra rete elettrica, oltre ad avere interessi nell’automotive e nella telefonia.Lo speciale contiene due articoli.Chi frequenta i russi in Italia sta diventando radioattivo. L’Ue, su spinta americana, si prepara a un nuovo regime di sanzioni. L’obiettivo è mettere fuori legge non tanto i russi, ma anche chi li incontra e chi ci fa affari. La guerra fatta in questo modo ha cambiato gli equilibri e i business di grandi aziende. Alcune costrette a tagliarsi un braccio con gravi perdite. E additate dalla politica, che di fronte alla tutela dei diritti umani vuole una presa di posizione drastica. Peccato, che la diffusione di video arrivati pure in Italia che testimoniano le violenze cinesi nello Xinjiang e la sistematica violazione e repressione degli uiguri non abbia destato grande sdegno. Anzi per lo più la politica, soprattutto a sinistra, ha cercato di coprire l’eco proveniente dall’Asia alzando la voce contro la dittatura russa. In Germania la fuga di notizia proveniente dalle carceri dello Xinjang è stata immediatamente raccolta dal ministero degli Esteri, Annalena Baerbock, che ha tenuto il punto con il collega cinese. Le aziende come Volkwagen o Basf hanno preferito tacere. Da noi si è rimasti al livello zero della presa di coscienza. Segno che gli asset e i legami con la Cina sono assai forti. Ed estremamente pericolosi. Molto più rispetto alle infiltrazioni russe che non giungeranno mai al livello di penetrazione mostrato da Pechino. Innanzitutto, non si sono solo i tedeschi a lavorare nella terra degli uiguri, ma anche tante società italiane. Una di questa dava lavoro all’ex ministro delle Infrastrutture, la piddina Paola De Micheli, la quale circa due anni fa confidava a Sette del Corriere della Sera di sapere distinguere un concentrato di pomodoro italiano da uno cinese con un solo sguardo. «Il concentrato cinese si riconosce dal colore. Quindi meglio fare la prova senza benda». Dei cinesi lei è stata pure consulente, suggeriva l’intervistatore. «Ho vissuto tre mesi da sola nello Xinjiang. Ricordo un viaggio in cuccetta al confine con il Kazakistan. Dovevo certificare un lotto di pomodori. Nello scompartimento ero l’unica donna. Temendo che mi aggredissero chiamavo mia madre col cellulare bisbigliando e dicevo il rosario». Si è trovata così bene nel Nord Ovest della Cina che poi da ministro incontrò al fianco di Fabrizio Pagani più di una volta i rappresentanti di China Merchants interessati - o almeno così sembravano - ad entrare in Atlantia e risolvere l’enorme grana di Autostrade travolta dal crollo del ponte Morandi. Perché a sostenere la presenza cinese in Italia non c’è solo Beppe Grillo che entra ed esce spesso dall’ambasciata a Roma, oppure Michele Geraci, ex sottosegretario leghista del governo gialloblu, ma numerosi esponenti della sinistra. A dicembre del 2018 Tencent, Cgtn e il conglomerato della tv pubblica Cctv organizzò a Pechino un grande meeting sull’intelligenza artificiale nell’editoria e nei social. Collegato da Bologna a dare un saluto e un augurio di buon lavoro c’era Romano Prodi che parlava come ex premier e come pensatore italiano. Ma la penetrazione cinese in Italia funzione perché è silenziosa e ama avere a che fare con le figure intermedie che gestiscono la macchina pubblica. Non è un caso che sotto il periodo del Conte Uno e del Conte bis ministeri e dipartimenti siano stati inondati di telecamere cinesi. Inutile dire che, là dove mancavano, il Covid ha contribuito a colmare le lacune. Nel 2021 fu svelata la presenza di 19 termoscanner agli ingressi di Palazzo Chigi prodotti e installati dalla Dahua Technology, costola italiana dell’omonima azienda di Hangzhou. Quest’ultima è dal marzo 2020 nella black list della Casa Bianca. Già nell’ottobre del 2019, un anno prima dell’acquisto effettuato da Giuseppe Conte, l’esecutivo di Donald Trump aveva inserito l’azienda di Hangzhou in un’altra lista. In pratica The Donald proibì a Dahua di acquistare o commerciare tecnologia americana perché ritenuta colpevole di aver partecipato allo sterminio di massa degli uiguri. Telecamere cinesi sono presenti anche in Parlamento e in numerose Procure. Guarda caso quando l’Aula dovette affrontare una mozione per definire quello degli uiguri un genocidio, metà maggioranza andò dietro alle perplessità di Lia Quartapelle che da responsabile degli Esteri del Pd si disse dubbiosa sulla legittimità del termine genocidio troppo tecnico e poco applicabile. Chissà come mai. D’altronde è sempre a un partito come il Pd che si deve il colpo di genio di Cdp Reti. Ai tempi di Matteo Renzi, per la precisione il 30 luglio del 2014, Cdp presieduta da Franco Bassanini approva la cessione del 35% della holding che controlla Snam, Italgas e Terna a China State Grid. I cinesi versano circa due miliardi, ma sarebbero stati anche meno se gli advisor di Lazard non fossero intervenuti, ed entrano nel cda con un esponente. L’investimento è stato ripagato con i dividendi delle aziende partecipate e adesso l’ospite è così ingombrante che nemmeno il governo Draghi sa come mandarlo via. Si vocifera addirittura di fondere Snam e Terna pur di sciogliere la holding e diluire la presenza di Pechino. E sarebbe solo uno dei temi caldi perché la tecnologia 5G è sempre a rischio e ci sono i porti che ancora oggi gestiti dal network di Graziano Delrio che va a lezione di cinese nel caso di dovessero riaprire le porte agli emissari di Xi. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/occhi-putin-cina-pappa-italia-2657390842.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-grinfie-del-dragone-telecamere-porti-e-tecnologia" data-post-id="2657390842" data-published-at="1653508258" data-use-pagination="False"> Le grinfie del Dragone. Telecamere, porti e tecnologia Quel che resta della Via della seta, almeno in Italia, non è poco. Anche dopo che il governo di Mario Draghi ha lasciato cadere nel vuoto gli accordi del marzo 2019 firmati da Giuseppe Conte con il presidente Xi Jinping, la presenza delle industrie e dei capitali cinesi nella Penisola non è minimamente calata. Dalle macchine sportive ai server e alle «saponette» per internet, passando per le infrastrutture elettriche, i porti e i sistemi di telesorveglianza negli uffici pubblici, le aziende di Pechino continuano a prosperare in Italia. Come in Francia e Germania, del resto. Ma da noi è soltanto da quando a Palazzo Chigi c’è Draghi che si fa attenzione a che la penetrazione dei colossi cinesi, spesso di proprietà del partito-stato Pcc, non abbia carattere predatorio. Ora l’aumento della tensione tra Washington e Pechino accende un nuovo faro anche sull’Italia, che dai tempi di Romano Prodi e fino a Beppe Grillo ha sempre avuto un debole per la Cina. Secondo le Dogane di Pechino, nel primo trimestre di quest’anno l’interscambio tra Italia e Cina è aumentato del 17% rispetto a un anno prima. Ma occhio agli squilibri della bilancia commerciale. Le importazioni italiane sono aumentate del 38% e quelle di Pechino sono scese dell’8%. In tutto il 2021, si sono toccati i 54 miliardi di euro (+20,1% sul 2020 e +21,4% sul 2019), con l’Italia che ha esportato merci per 15,5 miliardi e ne ha importate per 38,5. In Italia, il Dragone ha una comunità di oltre 300.000 persone che produce, consuma e trasferisce denaro con la massima riservatezza, ma ha anche una florida presenza industriale e commerciale. Nonostante i ritardi, il prossimo anno la joint venture sino-americana Silk Faw dovrebbe lanciare da Reggio Emilia la «S9», ovvero la prima supercar interamente elettrica. La risposta cinese alla Ferrari non è un fungo spuntato dal nulla nel rinomato distretto dell’automotive emiliano, ma fa parte di un progetto da un miliardo di investimenti e almeno mille posti di lavoro. Faw, 130.000 dipendenti e oltre 3,5 milioni di auto vendute lo scorso anno, in realtà ha mancato di un soffio il colpo grosso: Iveco. Gli Agnelli Elkann, un anno fa, stavano per vendere ai cinesi per tre miliardi di dollari la controllata di Cnh che produce camion e veicoli commerciali, insieme ai motori della Fiat Power Train. Senza usare il potere veto del golden power, ma con una decisa moral suasion, Mario Draghi e Giancarlo Giorgetti hanno fatto capire a John Elkann che non era il caso. Iveco è stata quindi separata da trattori e macchine movimento terra e quotata in Borsa (dove ha perso quasi il 50% in soli cinque mesi), ma sarebbe stato davvero imbarazzante, dopo l’invasione dell’Ucraina, sbandierare le nuove commesse militari ottenute da Torino se il padrone fosse stato cinese. Uno stop che ha fatto più discutere è stato quello imposto a Huawei e Zte sullo sviluppo del 5G. Lo decise Conte, dopo inenarrabili polemiche e ritardi, per motivi di sicurezza nazionale ben spiegati anche dal Regno Unito di Boris Johnson. Ma i due colossi cinesi sono comunque ben piazzati in Italia, dove vendono smartphone, sistemi di rete, tablet e computer. Huawei, formalmente privata, fattura nella Penisola oltre un miliardo l’anno e ha circa 800 dipendenti. La statale Zte invece è arrivata nel 2005 e nel 2019 aveva ricavi per oltre 250 milioni, frutto anche di un centro ricerche impiantato all’Aquila e di molti contratti per portare internet in varie amministrazioni locali. Entrambe le aziende sono considerate, almeno in Italia, dei datori di lavoro modello. E hanno lobbisti di primo livello. Ma se prima o poi un telefonino cinese può capitare in mano a tutti, non è certo un fatto di dominio popolare che il 35% della rete elettrica italiana sia in mano a Pechino, che attraverso China State Grid ha il 35% di Cdp Reti. L’operazione è del 2014 ed è responsabilità di Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, ovvero Pd al 100% (almeno all’epoca). Dove i capitali cinesi hanno dovuto un po’ fermarsi è in un settore strategico come quello dei porti. Oggi parla ufficialmente cinese il 49% di Vado Ligure (Savona), terminal gigantesco per ogni tipo di merce, dalle auto agli alimentari. Lo stesso governo Renzi aveva pensato di allearsi con Pechino anche per gestire i porti di Venezia, Trieste e Genova, ma l’accordo non è mai decollato davvero. Idem per Taranto, con i capitali cinesi che dopo lunghe trattative hanno preferito fare rotta sul Pireo, ma che in realtà aspettano solo che a Palazzo Chigi torni un Conte. È invece del 2017, governo di Paolo Gentiloni, la spensierata gara Consip che ha affidato ai cinesi di HikVision la fornitura di un migliaio di telecamere in oltre 130 Procure. Il colosso cinese della telesorveglianza viene ciclicamente messo al bando dalle autorità Usa perché naturalmente è il fornitore anche dell’esercito cinese, che usa le sue apparecchiature per controllare, ad esempio, la minoranza degli uiguiri. Alla fine, almeno per ora, il golden power è stato usato da Draghi solo per bloccare la vendita delle preziose sementi della romagnola Verisem (controllata da un fondo Usa) agli svizzeri di Syngenta, che nel 2017 è finita in mani cinesi. Il mese scorso il Tar del Lazio ha respinto il ricorso di Syngenta contro la decisione di Palazzo Chigi, ma la sovranità alimentare ed economica italiana è comunque un obiettivo. Nel mirino di una Cina che ha fatto incetta di terreni agricoli in mezza Africa e che ha un track record di tutto rispetto nell’espandersi dove mancano i capitali e le classi politiche sono più corrotte.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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Il premier, intervenendo alla prima edizione dei Margaret Thatcher Awards, evento organizzato all’Acquario Romano dalla fondazione New Direction, il think tank dei Conservatori europei: «Non si può rispettare gli altri se non si cerca di capirli, ma non si può chiedere rispetto se non si difende ciò che si è e non si cerca di dimostrarlo. Questo è il lavoro che ogni conservatore fa, ed è per questo che voglio ringraziarvi per combattere in un campo in cui sappiamo che non è facile combattere. Sappiamo di essere dalla parte giusta della storia».
«Grazie per questo premio» – ha detto ancora la premier – «che mi ha riportato alla mente le parole di un grande pensatore caro a tutti i conservatori, Sir Roger Scruton, il quale disse: “Il conservatorismo è l’istinto di aggrapparsi a ciò che amiamo per proteggerlo dal degrado e dalla violenza, e costruire la nostra vita attorno ad esso”. Essere conservatori significa difendere ciò che si ama».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
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