2020-05-17
Occhi di straniera nel bosco degli eremiti
Non si sa mai chi si incontra in certi posti. Come la bella donna dai lunghi capelli bianchi, segno di una decorosa anzianità, che vive in una baita finora disabitata. Forse sudamericana. Con un iride chiaro e l'altro nero che fissano con rabbia e orgoglio.Ci sono giorni nei quali il peso dei ricordi è inattuabile. Ci sono giorni nei quali quel che sei stato prende il posto di quel che potresti essere. Ci sono giorni nei quali il senso di questa vita tutta fatta di assenza, di speranze e di attese si presenta cristallino come un diamante perfettamente tagliato. Ci sono giorni nei quali il senso pieno delle tue scelte, delle tue convinzioni, svanisce e quel che resta è un desolante spazio vuoto, senza orizzonte, senza sole, senza direzione. Dicono che la consapevolezza e le scelte scaturite da profonde radici si ergano come titani fuori dalle acque dell'incertezza e delle casualità, ma è un'idea, non è l'instabile e fragile umanità. Un uomo per quanto determinato non è un'idea, non è nemmeno una montagna, anche se vi abita, anche se vi ci trova rifugio, anche se vi si adatta. Laddove esiste il giorno arriva la notte, e laddove esiste l'impermeabilità, prima o poi, arriva la pioggia. Zen, nella sua compiaciuta staticità, direbbe che sono lo yin e lo yang. Per me è soltanto la dura alternanza dello stare al mondo.Quando la desolante mattina di questo mondo stanco e appesantito si spalanca dentro questa mia testa provo ad allontanarla con la fatica del corpo. Il cammino, ad esempio, la legna da spaccare e tagliare e mettere via per un prossimo inverno. Ma non sempre ci riesco. Talvolta quel giorno deve semplicemente bruciare tutto quel che può bruciare. A certi incendi non esiste cura, non esiste limite, bisogna soltanto attendere che il loro destino si compia. Ed è proprio in una giornata come queste che decido di uscire per raggiungere la cima della montagna gemella, alta poche decine di metri meno di quella che domina questa montagna.Bisogna attraversare due boschi, i prati del pianoro degli Spé'c e risalire lungo le pietraie che conducono ai camini superiori del Monte Buono, gemello di questo nostro, il Monte Soprano. Nomi che un tempo i montanari e i viaggiatori conoscevano bene, oggi sono soltanto le cime dei Gemelli. Da quando il turismo è diventato archeologia i nomi dei sentieri, dei luoghi, così come i santi di certe chiese, hanno perso valore. Si sono trasformati in qualcosa di più vicino alla terra. Il cielo non è mai stato così lontano.Il passo è pesante. Troppi fantasmi vengono a trovarmi, in questo remoto pezzo del mondo dimenticato. Così esco e mi avvio attraverso il bosco. La pioggia è scesa per tutta la notte. Le foglie degli alberi sono cariche d'acqua, talora basta sfiorare un ramo per ritrovarsi completamente madidi, ma non è sudore, è soltanto acqua del cielo. Poco importa, si diventa meno schizzinosi quando ci si abitua alla vita degli animali. Le suole degli scarponi scalciano continuamente contro sassi immersi nel fango e ciuffi d'erba che sembrano galleggiare su uno stagno. Si fa fatica a camminare, sia in discesa, sia in salita, anche se superato il passo che unisce le larghe pance delle due montagne la pietra prende il posto del bosco. Ed è un bene, perché è meno faticoso scalare un sasso piuttosto che prestare la massima attenzione mentre si frana a valle come un'anguilla sopra uno scivolo di plastica.A mezzo cammino fra il passo e la prima delle cime dei campanili c'è una catapecchia abbandonata. La sua faccia stretta punta a mezzogiorno, riceve il sole in ogni periodo dell'anno, anche se in estate il calore è talmente opprimente da rendere, nelle ore torride, la vita impossibile. La porta è chiusa. O meglio, la lamiera che da qualche parte era probabilmente un tetto ora fa da confine all'ingresso della baita. Ci sono fiori di campo fioriti davanti a casa, fra il passaggio del sentiero e la base del muro. Che cura, pensa Immenso. Col suo passo pensante si avvicina, incuriosito. Con cautela, poiché non si sa mai chi si possa incontrare in questi posti. Ogni tanto qualcuno perisce prima del tempo. Armi da fuoco, lame, mani troppo forti. O troppo callose.«C'è qualcuno?», chiede ad alta voce l'uomo.Non riceve risposta ma da dentro provengono dei rumori. Sembrerebbero cassetti che si aprono e richiudono. Poi delle pentole toccate da un martello, o da un mestolo. La sua mano sbatte tre volte contro la lamiera, mentre il corpo si nasconde dietro il muro. La prudenza, pensa, male non farà.La lamiera si posta e raschia sulle pietre. Esce una donna dai lunghi capelli bianchi, raccolti in una coda meravigliosa, dritti segni di una decorosa anzianità. I suoi occhi chiari come il cielo lo fissano con rabbia e orgoglio. Una donna molto bella.«Salve» dice Immenso, sorpreso.«Ha bisogno di qualcosa?» le risponde una voce pacata e militare.«Tutti qui hanno bisogno di qualcosa» replica Immenso, cercando di fare a modo suo lo spiritoso. La donna non sembra cogliere l'ironia.«Io non ho bisogno di niente».«Io mi chiamo Immenso» ribatte l'uomo, allungando una mano.Lei lo fissa ancora e dopo una titubanza si sforza di contraccambiare il gesto. Si toccano per una frazione di secondo.«Lei fa sempre così?» chiede la donna.«Cosa intende?».«Infastidisce sempre gli altri… ospiti?».«Qui si preferisce la parola eremiti…».«Ne farà tesoro».«Comunque no, direi di no».Una coppia di falchi pellegrini si fa trasportare da un vento ascensionale sopra le loro teste. Sono due schizzi di colore che il sole annerisce. Le mani dei due riparano gli occhi. Uno dei due rapaci lancia il consueto richiamo che si ripete e sperde nella vallata. Il respiro di Immenso è ancora affannoso.«Questa baita è sempre stata disabitata» dice l'uomo.«Ora ci sono io».«Non ho capito come si chiama…».«Infatti non l'ho detto».Il corpo della donna è ben proporzionato. Una maglietta a maniche corte e bianca le fascia le braccia fino al gomito. Pelle leggermente pigmentata, sembrerebbe una sudamericana ma nel suo modo di parlare non si percepisce alcuna inflessione latina. Niente esse sibilanti da messicana o argentina, niente j ammorbidite da Rio de Janeiro. Da giovane i suoi capelli dovevano essere scuri, neri probabilmente, come uno dei due occhi. Già, gli occhi: prima Immenso aveva notato soltanto l'occhio glaciale, ma l'altro è diverso. Due poli così distanti nello stesso sguardo. Immenso non ricorda l'ultima volta che aveva incontrato una donna che aveva trovato, per così dire, interessante. Decisamente interessante. Sono trascorsi tanti anni. Per un attimo chiude gli occhi e consente all'ondata de ricordi di rovesciarsi con fragore nella sua immaginazione.«Le dispiace se ogni tanto vengo a farle visita?» chiede l'uomo, con un'insolita spinta umanitaria.«Perché?».«Mi sembra una brava persona» risponde lui, sorridendo brevemente. Non vorrebbe suggerirle alcun sentimento eccessivo.«Se proprio non può farne a meno passi. Ma non si creda che la inviterò fuori per una pizza» aggiunge la donna, lisciandosi i capelli con le sue mani lunghe e sottili. Niente smalto, ma d'altronde certi vezzi fra gli eremiti sarebbero fuori luogo.Immenso continua a pensare ai dettagli della sua pelle, alla linea del corpo, al suo collo, nervoso, tirato, agli occhi bicolore, alla sua maglietta, aderente. Alle parole che si sono detti. Le risente, le soppesa. E per fortuna perché in questo modo non ha più tempo di ossessionarsi coi ricordi che lo stavano torturando. Non gli piace ricordare il passato, fosse per lui, dipendesse soltanto dalla sua volontà, dimenticherebbe ogni cosa. Ogni volto. Ogni nome. Non ha più senso ricordare quel che è stato, qui. Quella vita è morta. Quel che lui è stato è morto. Qui non serve davvero a nulla. Ingombra e basta.Si concentra invece su questa nuova conoscenza. Chissà come si chiama. Che nome potrebbe avere? Se ne concede tre o quattro. Uno nostrano. Tipo Claudia. Altri esotici. Tipo Juliana. Tipo Clara. O tipo Ana. Nomi ordinari. D'altronde non sembra una persona che si presti a fronzoli. Ma non si può mai dire.Un vento caldo si solleva e inizia a sbattere contro la sua faccia larga e barbosa. La vista panoramica sui boschi è splendida. La mia casa è là, pensa. Le diverse intensità di verde dovute al colore del fogliame e alla densità delle ombre. La chiara distinzione fra le aree alberate a faggio, a larice, o ad abete rosso. Si vede tutto, distintamente. Nota anche un gruppo di cervi che corre su un pianoro, con a capo un grande esemplare maschio. Palco di corna da cerimonia. In fila indiana. Svaniscono come un sogno sotto il fogliame. Ai piedi del primo camino, gli scarponi imbiancati di immenso si bloccano. Sassi che si assestano, adattandosi al suo peso. Il fiatone è grosso, era tempo che non risaliva quassù. Ma è un'ottima medicina per dimenticare il resto del mondo. Guardare la distanza dall'alto. Ci sei tu, e c'è il cielo. Ci sono le nuvole che corrono distanti e c'è la natura alla quale non importa di te. Le città e il vetro sono edificazioni artificiali che da qui non si potrebbe nemmeno ipotizzare. La civiltà qui non esiste affatto.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa del 14 ottobre con Flaminia Camilletti
Donald Trump (Getty Images)
Donald Trump (Getty Images)
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)