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2020-07-12
Obamagate: per l'Fbi, Flynn non era un agente russo
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Mike Flynn (Ansa)
Si tratta, nel dettaglio, di una bozza interna del Dipartimento di Giustizia: una bozza, contenente alcune parti secretate e datata 30 gennaio 2017 (l'ultimo giorno dell'incarico di Sally Yates, già viceministro della Giustizia ai tempi di Barack Obama, come ministro della Giustizia ad interim dell'amministrazione Trump). I documenti si riferiscono al controverso interrogatorio a cui lo stesso Flynn, all'epoca consigliere per la sicurezza nazionale, fu sottoposto dall'Fbi il 24 gennaio del 2017. «L'Fbi ha avvertito che, sulla base di questo interrogatorio, non credeva che il generale Flynn agisse come un agente della Russia», si legge nelle carte. «L'Fbi ha anche informato che, sebbene abbia riconosciuto che le dichiarazioni non fossero coerenti con [il materiale raccolto durante la sorveglianza], credeva che Flynn credesse a ciò che gli stava dicendo». I documenti evidenziano inoltre che il generale si fosse mostrato "aperto e collaborativo». Tra l'altro, da alcune note scritte dal vice assistente del ministro della Giustizia, Tashina Gauhar, è emerso che Flynn fosse pienamente consapevole del fatto che il Bureau possedesse le trascrizioni delle sue telefonate con l'ambasciatore russo, Sergej Kislyak. Gauhar ha inoltre confermato nelle sue note che il Bureau non ritenesse che il generale stesse mentendo. Non appena questi documenti sono stati pubblicati, Donald Trump è prontamente intervenuto su Twitter, dichiarando: «Nuovi documenti appena rilasciati rivelano che il generale Flynn stata dicendo la verità e che l'Fbi lo sapeva!».
Del resto, queste nuove carte risultano interessanti, perché mettono in luce il giudizio degli agenti del Bureau sul controverso interrogatorio dell'allora consigliere per la sicurezza nazionale. Un giudizio che, nei fatti, conferma le opacità recentemente emerse in riferimento ai giorni precedenti a quello stesso interrogatorio. Non dimentichiamo infatti che il 4 gennaio 2017 l'Fbi avesse chiuso le indagini su Flynn, affermando di non aver riscontrato delle «informazioni dispregiative» sul suo conto. Ciononostante quello stesso 4 gennaio i vertici del Bureau riaprirono misteriosamente l'inchiesta e - il giorno successivo - l'allora direttore dell'Fbi, James Comey, prese parte a un meeting alla Casa Bianca, dove - alla presenza, tra gli altri, di Barack Obama e Joe Biden - fu discussa la possibilità di incriminare Flynn per violazione del Logan Act. Non solo: in base ad alcune note manoscritte dell'agente Peter Strzok (colui che, nell'agosto 2016, scrisse alla propria amante di volersi impegnare per bloccare l'ascesa politica di Trump), sembrerebbe che lo stesso Obama abbia ordinato di mantenere gli occhi puntati su Flynn, dichiarando: «Assicuratevi di guardare le cose e di avere le persone giuste su questo».
Obama quindi non solo era certamente a conoscenza delle indagini sul generale ma è anche altamente probabile che abbia ordinato di continuare a condurle. Non si capisce tuttavia su quali basi. In primo luogo, come detto, l'Fbi non aveva in mano «informazioni dispregiative» su Flynn. In secondo luogo, il fatto che quest'ultimo conversasse con un diplomatico russo non poteva costituire una violazione del Logan Act (vecchia legge che proibisce ai privati di interessarsi direttamente alla politica estera degli Stati Uniti): è infatti prassi che i consiglieri per la sicurezza nazionale in pectore abbiano contatti informali con diplomatici e politici stranieri. Tanto più che il contenuto delle conversazioni con Kislyak, intercettate a fine dicembre 2016, era perfettamente appropriato. In base alle suddette note di Strzok, lo stesso Comey avrebbe infatti definito «legittimi» quei colloqui. Non solo quindi le basi legali dell'interrogatorio del 24 gennaio erano totalmente inconsistenti. Ma, da quanto emerge da questi nuovi documenti, sembrerebbe proprio che gli agenti del Bureau non abbiano potuto fare a meno di constatare che, di "informazioni dispregiative", non ve ne fosse l'ombra neanche dopo quel fatidico interrogatorio.
Certo: è senz'altro vero che, nel dicembre del 2017, Flynn si dichiarò colpevole di aver mentito all'Fbi. Ma bisogna ricordare al contempo due circostanze. In primis, il generale ha chiesto di ritrattare quell'ammissione lo scorso gennaio. In secondo luogo, non dimentichiamo che - nel novembre del 2017 - l'allora procuratore speciale, Robert Mueller, mise il generale sotto pressione, minacciando di coinvolgere suo figlio nell'inchiesta. Il problema che quindi adesso si presenta è duplice. Innanzitutto, lo ribadiamo, non è affatto chiaro su quali basi l'Fbi e Obama decisero di continuare a indagare su Flynn. In secondo luogo, l'altro dubbio riguarda Mueller: se per il Bureau non c'erano evidenze di illeciti prima e dopo l'interrogatorio del 24 gennaio, per quale ragione ha continuato a ritenere Flynn un tassello chiave dell'inchiesta Russiagate? Un'inchiesta che - ricordiamolo - è durata quasi due anni per finire sostanzialmente con un buco nell'acqua (visto che prove di collusione tra Trump e il Cremlino non sono state reperite). Il sospetto che dietro tutto questo agisse un movente politico non è quindi un'ipotesi del tutto infondata. Ed è anche per questo che derubricare semplicisticamente l'Obamagate a una «teoria del complotto» non è ormai più possibile.
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Per l'Fbi, Mike Flynn non era un agente russo. Ulteriori sviluppi sono quelli di cui si sta arricchendo la vicenda Obamagate, dopo che - venerdì scorso - sono stati resi noti nuovi documenti relativi allo spinoso caso dell'ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump.Si tratta, nel dettaglio, di una bozza interna del Dipartimento di Giustizia: una bozza, contenente alcune parti secretate e datata 30 gennaio 2017 (l'ultimo giorno dell'incarico di Sally Yates, già viceministro della Giustizia ai tempi di Barack Obama, come ministro della Giustizia ad interim dell'amministrazione Trump). I documenti si riferiscono al controverso interrogatorio a cui lo stesso Flynn, all'epoca consigliere per la sicurezza nazionale, fu sottoposto dall'Fbi il 24 gennaio del 2017. «L'Fbi ha avvertito che, sulla base di questo interrogatorio, non credeva che il generale Flynn agisse come un agente della Russia», si legge nelle carte. «L'Fbi ha anche informato che, sebbene abbia riconosciuto che le dichiarazioni non fossero coerenti con [il materiale raccolto durante la sorveglianza], credeva che Flynn credesse a ciò che gli stava dicendo». I documenti evidenziano inoltre che il generale si fosse mostrato "aperto e collaborativo». Tra l'altro, da alcune note scritte dal vice assistente del ministro della Giustizia, Tashina Gauhar, è emerso che Flynn fosse pienamente consapevole del fatto che il Bureau possedesse le trascrizioni delle sue telefonate con l'ambasciatore russo, Sergej Kislyak. Gauhar ha inoltre confermato nelle sue note che il Bureau non ritenesse che il generale stesse mentendo. Non appena questi documenti sono stati pubblicati, Donald Trump è prontamente intervenuto su Twitter, dichiarando: «Nuovi documenti appena rilasciati rivelano che il generale Flynn stata dicendo la verità e che l'Fbi lo sapeva!».Del resto, queste nuove carte risultano interessanti, perché mettono in luce il giudizio degli agenti del Bureau sul controverso interrogatorio dell'allora consigliere per la sicurezza nazionale. Un giudizio che, nei fatti, conferma le opacità recentemente emerse in riferimento ai giorni precedenti a quello stesso interrogatorio. Non dimentichiamo infatti che il 4 gennaio 2017 l'Fbi avesse chiuso le indagini su Flynn, affermando di non aver riscontrato delle «informazioni dispregiative» sul suo conto. Ciononostante quello stesso 4 gennaio i vertici del Bureau riaprirono misteriosamente l'inchiesta e - il giorno successivo - l'allora direttore dell'Fbi, James Comey, prese parte a un meeting alla Casa Bianca, dove - alla presenza, tra gli altri, di Barack Obama e Joe Biden - fu discussa la possibilità di incriminare Flynn per violazione del Logan Act. Non solo: in base ad alcune note manoscritte dell'agente Peter Strzok (colui che, nell'agosto 2016, scrisse alla propria amante di volersi impegnare per bloccare l'ascesa politica di Trump), sembrerebbe che lo stesso Obama abbia ordinato di mantenere gli occhi puntati su Flynn, dichiarando: «Assicuratevi di guardare le cose e di avere le persone giuste su questo».Obama quindi non solo era certamente a conoscenza delle indagini sul generale ma è anche altamente probabile che abbia ordinato di continuare a condurle. Non si capisce tuttavia su quali basi. In primo luogo, come detto, l'Fbi non aveva in mano «informazioni dispregiative» su Flynn. In secondo luogo, il fatto che quest'ultimo conversasse con un diplomatico russo non poteva costituire una violazione del Logan Act (vecchia legge che proibisce ai privati di interessarsi direttamente alla politica estera degli Stati Uniti): è infatti prassi che i consiglieri per la sicurezza nazionale in pectore abbiano contatti informali con diplomatici e politici stranieri. Tanto più che il contenuto delle conversazioni con Kislyak, intercettate a fine dicembre 2016, era perfettamente appropriato. In base alle suddette note di Strzok, lo stesso Comey avrebbe infatti definito «legittimi» quei colloqui. Non solo quindi le basi legali dell'interrogatorio del 24 gennaio erano totalmente inconsistenti. Ma, da quanto emerge da questi nuovi documenti, sembrerebbe proprio che gli agenti del Bureau non abbiano potuto fare a meno di constatare che, di "informazioni dispregiative", non ve ne fosse l'ombra neanche dopo quel fatidico interrogatorio.Certo: è senz'altro vero che, nel dicembre del 2017, Flynn si dichiarò colpevole di aver mentito all'Fbi. Ma bisogna ricordare al contempo due circostanze. In primis, il generale ha chiesto di ritrattare quell'ammissione lo scorso gennaio. In secondo luogo, non dimentichiamo che - nel novembre del 2017 - l'allora procuratore speciale, Robert Mueller, mise il generale sotto pressione, minacciando di coinvolgere suo figlio nell'inchiesta. Il problema che quindi adesso si presenta è duplice. Innanzitutto, lo ribadiamo, non è affatto chiaro su quali basi l'Fbi e Obama decisero di continuare a indagare su Flynn. In secondo luogo, l'altro dubbio riguarda Mueller: se per il Bureau non c'erano evidenze di illeciti prima e dopo l'interrogatorio del 24 gennaio, per quale ragione ha continuato a ritenere Flynn un tassello chiave dell'inchiesta Russiagate? Un'inchiesta che - ricordiamolo - è durata quasi due anni per finire sostanzialmente con un buco nell'acqua (visto che prove di collusione tra Trump e il Cremlino non sono state reperite). Il sospetto che dietro tutto questo agisse un movente politico non è quindi un'ipotesi del tutto infondata. Ed è anche per questo che derubricare semplicisticamente l'Obamagate a una «teoria del complotto» non è ormai più possibile.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Il tema di quest’anno, Angeli e Demoni, ha guidato il percorso visivo e narrativo dell’evento. Il manifesto ufficiale, firmato dal torinese Antonio Lapone, omaggia la Torino magica ed esoterica e il fumetto franco-belga. Nel visual, una cosplayer attraversa il confine tra luce e oscurità, tra bene e male, tra simboli antichi e cultura pop moderna, sfogliando un fumetto da cui si sprigiona luce bianca: un ponte tra tradizione e innovazione, tra arte e narrazione.
Fumettisti e illustratori sono stati il cuore pulsante dell’Oval: oltre 40 autori, tra cui il cinese Liang Azha e Lorenzo Pastrovicchio della scuderia Disney, hanno accolto il pubblico tra sketch e disegni personalizzati, conferenze e presentazioni. Primo Nero, fenomeno virale del web con oltre 400.000 follower, ha presentato il suo debutto editoriale con L’Inkredibile Primo Nero Show, mentre Sbam! e altre case editrici hanno ospitato esposizioni, reading e performance di autori come Giorgio Sommacal, Claudio Taurisano e Vince Ricotta, che ha anche suonato dal vivo.
Il cosplay ha confermato la sua centralità: più di 120 partecipanti si sono sfidati nella tappa italiana del Nordic Cosplay Championship, con Carlo Visintini vincitore e qualificato per la finale in Svezia. Parallelamente, il propmaking ha permesso di scoprire il lavoro artigianale dietro armi, elmi e oggetti scenici, rivelando la complessità della costruzione dei personaggi.
La musica ha attraversato generazioni e stili. La Battle of the Bands ha offerto uno spazio alle band emergenti, mentre le icone delle sigle tv, Giorgio Vanni e Cristina D’Avena, hanno trasformato l’Oval in un grande palco popolare, richiamando migliaia di fan. Non è mancato il K-pop, con workshop, esibizioni e karaoke coreano, che ha coinvolto i più giovani in una dimensione interattiva e partecipativa. La manifestazione ha integrato anche dimensioni educative e culturali. Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Torino ha esplorato il ruolo della matematica nei fumetti, mostrando come concetti scientifici possano dialogare con la narrazione visiva. Lo chef Carlo Mele, alias Ojisan, ha illustrato la relazione tra cibo e animazione giapponese, trasformando piatti iconici degli anime in esperienze reali. Il pubblico ha potuto immergersi nella magia del Villaggio di Natale, quest’anno allestito nella Casa del Grinch, tra laboratori creativi, truccabimbi e la Christmas Elf Dance, mentre l’area games e l’area videogames hanno offerto tornei, postazioni libere e spazi dedicati a giochi indipendenti, modellismo e miniature, garantendo una partecipazione attiva e immersiva a tutte le età.
Con 28.000 visitatori in due giorni, Xmas Comics & Games conferma la propria crescita come festival della cultura pop, capace di unire creatività, spettacolo e narrazione, senza dimenticare la componente sociale e educativa. Tra fumetti, cosplay, musica e gioco, Torino è diventata il punto d’incontro per chi vuole vivere in prima persona il racconto pop contemporaneo, dove ogni linguaggio si intreccia e dialoga con gli altri, trasformando la fiera in una grande esperienza culturale condivisa.
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i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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