2020-05-14
Esibire simboli religiosi va bene
soltanto se è a favore dell’islam
Silvia Romano (Getty images)
A partire dal premier, gli esponenti del governo ci hanno detto che non si devono esibire simboli religiosi, che le esigenze spirituali vengono dopo quelle dello Stato, hanno perfino avuto da ridire sul crocifisso. Però quando c'è di mezzo l'islam cambiano registro.Nell'agosto del 2019, Giuseppe Conte accusò Matteo Salvini di essersi reso protagonista di «episodi di incoscienza religiosa». Il capo leghista, come tutti sanno, aveva più volte mostrato in pubblico rosari e crocifissi. E questo scatenò l'ira funesta dell'avvocato del popolo, secondo cui i gesti salviniani rischiavano di «offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo oscurare il principio di laicità che è tratto fondamentale dello Stato moderno». Nella diatriba sui «simboli religiosi» intervennero in tanti. A sinistra c'era chi stigmatizzava i tratti «medievali» del leghista col rosario. Nel mondo cattolico progressista, a partire dal quotidiano vescovile Avvenire, c'era invece chi s'indignava per i crocifissi «branditi» e «strumentalizzati». Tutti, però, sembravano concordi: mostrare i simboli della fede a scopo politico non si può, non si deve. A dirla per intero, nel governo Conte c'è stato anche chi si è spinto a sostenere che gli oggetti sacri non devono essere esposti mai nel contesto pubblico, a prescindere dall'uso politico. Nell'ottobre del 2019, l'allora ministro a 5 stelle dell'Istruzione, Lorenzo Fioramonti, se ne uscì dicendo che nelle aule scolastiche avrebbe preferito vedere più cartine geografiche e meno crocifissi. Di nuovo, fu baruffa. E, curiosamente, spuntarono dai cespugli fini esponenti del mondo cattolico pronti a giustificare il ministro, ovviamente in nome del comune astio antisovranista. Dopo tutto, che la fede debba chinare il capo e sottomettersi al tallone chiodato dallo Stato ci è stato ribadito anche di recente. Niente messe, ha deciso il governo. E chi protesta o chiede di ripensarci è un irresponsabile, un «fascista» perfino, come si sono premurati di farci sapere stimati intellettuali di sinistra. Curiosamente, tuttavia, nello stesso ambiente che denigrava i rosari in piazza, che avrebbe preferito togliere di mezzo i crocifissi e che era così lieto di bloccare le messe, oggi è tutto uno sbocciare di sorrisi commossi, di comprensione e perfino di ammirazione per la «conversione» (o, meglio «il ritorno») all'islam di Silvia Romano. Fanno la fila, gli intellettuali, a levare lo scudo per proteggere la «libera scelta» di abbracciare la fede di Maometto da parte di una ragazza che è stata prigioniera di macellai per 18 mesi. La scrittrice Nadia Terranova, per esempio, si è affrettata a celebrare il sorriso sul «viso di Aisha», difendo la sua libertà di «trasformarsi, amare, cambiare idea o farsene una». Un'altra scrittrice, Igiaba Scego, si è messa ad analizzare l'abito di Silvia, e ha colto l'occasione per sentenziare che, in Italia, «molti parlano di islam senza sapere nulla». Di solito, nell'arena mediatica, chi si converte al cattolicesimo è guardato con sospetto, se non con compassione. Si insinua che lo abbia fatto per interesse, per rifarsi l'immagine, per riciclarsi presso il pubblico bacchettone. Si sussurra che il convertito abbia perso una rotella: ma come è possibile che, nel mondo moderno, qualcuno ancora si beva queste scemenze sulla fede? Scetticismo, risatine, sufficienza. Ma ecco che arriva la convertita all'islam, e i sorrisetti si spengono. Tutto si fa più serio, più grave. Si chiamano in causa i bisogni dello spirito, la funzione di conforto della fede. Cioè la stessa funzione e gli stessi bisogni che ai cattolici (e ai musulmani, certo, anche se in modo differente) sono stati negati in questi mesi. Ci si sono messi addirittura i vescovi - così blandi, fino a qualche settimana fa, nella richiesta di far ripartire i riti sacri - a discettare sul valore della conversione. E dire che l'islam - soprattutto quello che suo malgrado la Romano ha conosciuto - non è poi così tenero nei confronti dei «crociati», che siano o no credenti. All'improvviso, anche i politici sono diventati ben disposti verso l'esibizione pubblica di simboli religiosi. Giuseppe Conte, che si pregia d'essere uomo di cultura, non può sapere che quell'ingombrante velo verdastro indossato dalla Romano è, a tutti gli effetti, un simbolo religioso e politico. È un velo di fattura saudita, segno identitario di un islam politico particolarmente rigido e invadente. Un islam conquistatore, che con quel copricapo delimita in contorni del suo spazio d'azione in terra occidentale. Eppure, il premier non solo non ha impedito o contestato, ma ha addirittura incentivato la pubblica esposizione della «tenda verde», come qualcuno l'ha definita.Di sicuro sono state più coerenti femministe dure e pure come la milanese Nadia Riva, che ieri su Facebook ha pubblicato un commento di cartavetrata sull'abito di Silvia Romano: «La struggenza di una donna sorridente in un sacco verde della differenziata». La frase, niente affatto tenera, ha prodotto un putiferio fra le militanti, che hanno preso ad accapigliarsi sulla Rete (e sono volate accuse di razzismo, fascismo, eccetera). Al di là dei toni, però, è ovvio che la Riva ha toccato un nervo scoperto, e ha messo in luce una contraddizione lampante. A lei, par di capire, stanno sullo stomaco tutti i credenti, senza distinzioni. In altre zone della sinistra, invece, le distinzioni si fanno eccome, e sembrano motivate da un timore reverenziale verso l'islam, oltre che dall'immancabile esotismo confuso col terzomondismo. Qui ci limitiamo a dire che una maggiore sensibilità verso le esigenze dello spirito potrebbe giovare in ogni caso. Qualche ora fa, Silvia Romano ha dichiarato a proposito della conversione: «Avevo bisogno di credere in qualcosa». Non avrebbe potuto pronunciare parole più roventi. Peccato che, dalle nostre parti, il «bisogno di credere» venga accolto con scherno dai più. A meno che non ci sia l'islam di mezzo.
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