2022-05-09
Carlo Calenda: «Non si può rinunciare al gas. E avanti tutta col nucleare»
Carlo Calenda (Imagoeconomica)
Il leader di Azione: «Non ci sono alternative se vogliamo eliminare le emissioni di CO2. La reazione di Mario Draghi alla crisi energetica è stata lenta. Matteo Renzi è totalmente inaffidabile».Quante sigarette fuma al giorno?«Un pacchetto buono».Quante volte ha smesso invece o promesso di smettere?«Mai».Sì, lo so. Non sono proprio domande che tolgono il sonno. Ma questa intervista è nata quasi per caso al di fuori di uno studio televisivo mentre Carlo Calenda, leader di Azione, fumava la sua sigaretta. Quindi devo per forza curiosare.Ovviamente non fuma più canne come rivelato di recente?«Ho smesso a 15 anni. Dopo che è nata mia figlia».Lei ha appena pubblicato il libro La libertà che non libera edito dalla Nave di Teseo. Neanche faccio finta di averlo letto. È il manifesto chiusurista di un ex liberale. Giusto?«No, è un manifesto del liberalismo che però non disintegri la società nel suo insieme. La tesi del libro è che gli unici due valori che oggi sentiamo di più - il desiderio e la libertà illimitata - fanno sì che tutto ciò che riguarda la comunità o se preferisce patria o - meglio ancora - nazione, sia meno rilevante».Mi fa effetto sentirla parlare di nazione…«Se non coltivi questo senso di appartenenza non si raggiunge la coesione. E questa è necessaria in un momento di tensione internazionale come questo. Molto complicato».Una cosa che non riscriverebbe in quel libro?«È il mio terzo libro. Il primo era sulla globalizzazione. Il secondo sulle istituzioni italiane. Le cose che ho riportato le sento tutte. Non rivelo retroscena e non parlo di come sono stato bravo da ministro. Tengo separato il mio ruolo di saggista da quello di leader politico».Faceva il manager e guadagnava 1 milione di euro l’anno. Anche se ora si sente più felice, ha detto. Di cosa si occupava prima di fare politica?«A 18 anni vendevo polizze assicurative e guadagnavo un sacco. Mi mantenevo all’università. Poi incarichi importanti dove guadagnavo sempre meglio. Ferrari, Sky, Ntv, la gestione del più grande interporto in Italia. Ma, le confesso, non era questo il mio posto pur piacendomi molto la gestione. Il lavoro che ho fatto è la gestione di un apparato complesso come il ministero. È una grande sfida coniugare la gestione di una macchina complessa e sforzarsi sempre di fare l’interesse nazionale».Quando ha scoperto il suo talento politico? Sempre che lo abbia…«Dopo aver fatto il ministro. Prima di allora stavo candidandomi con Scelta civica nel 2013 a Napoli. Dove sarei passato. Ma scelsi Roma per evitare conflitti di interessi visto che là avevo lavorato. Non fui eletto. Nel governo Letta ero viceministro per gli Affari internazionali e delega al made in Italy. Me ne occupavo da sempre. In cinque anni sono andato in televisione dieci volte. Due all’anno. Lavoravo molto e apparivo poco. Nel 2018 mi fermo e vince il M5s. Il male assoluto. Decido allora di avvicinarmi al Pd, convinto che mai si sarebbe alleato con i grillini. Tutti ne dicevano peste e corna al Nazareno, a partire da Renzi. Alle europee vengo eletto con 280.000 preferenze nel collegio Nordest. Poi arriva l’alleanza di governo con il M5s, benedetta proprio da Renzi. Esco, come era ovvio. Il resto è Azione».Da quanto non sente Renzi?«Mesi. Neanche saprei dirle».Non andate d’accordo!«No, non andiamo d’accordo perché…».Perché siete uguali!(ride) «No, non siamo uguali. Abbiamo litigato su molte cose quando ero ministro. Ma gli sono grato perché mi ha consentito di portare avanti proposte importanti in cui credevo, come Industria 4.0. Renzi aveva l’ambizione di cambiare l’Italia. Poi è diventato inaffidabile dicendo di volere una cosa e poi facendo l’opposto. E per me non può esserci confusione fra business privato e attività politica. Nel 2018, quando mi sono preso un anno sabbatico, avrei avuto molte opportunità. Conosco tutte le più grandi aziende. Ho rinunciato a qualsiasi consulenza. Se vuoi veramente cambiare l’Italia devi essere al di sopra di ogni sospetto».A Roma lei ha ottenuto un’affermazione robusta che dà forza al suo progetto politico. Senza però andare al ballottaggio. E questo, sotto sotto, le farà pure piacere. Non deve misurarsi con l’ingestibile inferno di una città come Roma. Botte piena e moglie ubriaca.«No, no, no. Ho lavorato sodo per un anno a quel progetto. A me la sfida della gestione piace da matti. Tanto che oggi Gualtieri sta riprendendo molto del mio programma. Con una crescita continua nei consensi. Se avessi avuto un mese in più sarei andato al ballottaggio». Parliamoci chiaro. Calenda lo votano ai Parioli non al Trullo.«Una leggenda. Dei 220.000 voti che ho preso, 50.000 vengono dal centro storico e dai Parioli. Il resto tutto fuori. E comunque, se c’è una cosa che mi piace di me, è che volto pagina subito e vado avanti. Alle 19 con lo spoglio in corso mentre tutti mi vedevano al ballottaggio dissi subito ai miei: “Vado in conferenza stampa e riconosco la sconfitta. Sono stanco voglio andare a dormire. Che domani c’è da lavorare”».Se non cambia la legge elettorale Calenda però si allea con Conte. Bene, dai.«Nemmeno per idea. Se avessi deciso di sciogliere Azione per confluire nel Pd sarei già di nuovo ministro. L’eredità che voglio lasciare è quella di un grande partito che cambi l’Italia. La mia mozione è chiara. Niente centrosinistra e niente centrodestra. Entrambi gli schieramenti sono pieni di fratture. E le maggioranze sarebbero incoerenti».Se le chiedessi di farsi una legge elettorale su misura?«Anche con questa leggete elettorale otterremmo un buon risultato. Saremmo noi la vera novità. Perderei comunque un terzo dei voti soccombendo in buona parte dei collegi uninominali, magari non tutti. Tipo a Roma, ad esempio. Nell’interesse del Paese una legge proporzionale con una soglia di sbarramento al 5% sarebbe la soluzione equilibrata».Se il Pd lasciasse il M5s al suo destino però lei si alleerebbe con Letta.«No. Sarò molto chiaro. Cerco di consolidare un elettorato che venga in parte da destra e in parte da sinistra. Una crescita organica per linee interne, si direbbe in economia aziendale. Viaggerò a palmo a palmo tutta l’Italia consolidando i rapporti con bravi sindaci come ho fatto girando per i quartieri di Roma. Alternative non ne vedo. Giudicheranno gli italiani. E io mi regolerò di conseguenza».Veniamo alle cose serie. Pur dicendo sì alle sanzioni alla Russia, si è dichiarato contrario all’embargo immediato sul gas russo. Perché?«Perché ’un se pò fa».Anche meno sintetico…«La nostra strategia energetica nazionale evidenziava che la dipendenza energetica dalla Russia era una pistola puntata al cuore dell’Europa. Avevamo messo in agenda la necessità di due navi rigassificatrici. Da ministro sapevo che fare un rigassificatore altrimenti è quasi impossibile. E avere come gasdotti non solo il Tap che arriva in Puglia - per il quale sono finito sotto scorta visto che Di Maio e i M5s mi dicevano che ero al soldo delle grandi corporation -, ma anche un gasdotto East Med che arrivi da Israele. Ho fatto tutto quello che era in mio potere per avere altre fonti di gas. Ma siccome da manager e ministro conosco le situazioni, so che un embargo immediato è impossibile. Sono stato l’unico italiano che all’Europarlamento ha votato contro questo emendamento. E la settimana dopo tutti hanno detto che era impossibile. E siccome abbiamo una guerra alle porte non si può essere così cialtroni. Con il mio gruppo di lavoro abbiamo delineato un piano: riattivare le centrali a carbone, poi almeno una nave di rigassificazione; quindi, piena potenza da tutti gli altri gasdotti. Ci vogliono minimo 12-18 mesi. Pure Letta, che fa la battaglia al gas russo poi però dice no al carbone, no al gas egiziano a causa della questione Regeni. Al che gli ho detto: scusate, ma dove caspita lo prendiamo il gas? Andiamo a pedali?».Le rinnovabili, direbbero…«Sono intermittenti. Non abbiamo il vento del mare del Nord che soffia costante. E la rinnovabile si produce soprattutto d’estate, quando ne abbiamo meno bisogno. Non bastano. Quindi nel breve ci vuole il gas. E nel lungo periodo il nucleare. Visto che la previsione - irrealizzabile! - è quella di non emettere più anidride carbonica nel giro di 20 anni, il nucleare è l’unica base energetica che assicura questa neutralità. La politica italiana non spiega mai il come».Su Ilva e Alitalia cosa fa il governo?«Boh. Il dossier Ilva è stato fatto saltare per compiacere la Lezzi. Erano 4,2 miliardi di investimenti privati. E ora l’acciaio serve eccome. E se avessimo portato avanti quel progetto oggi avremmo l’acciaieria più pulita e più competitiva in Europa. E oggi quel piano deve essere fatto soprattutto a spese dello stato. Con un target produttivo di 8 milioni di tonnellate, diamo l’acciaio che serve al Paese tutelando ragionevolmente l’ambiente. Questa crisi ci dice che la dipendenza dall’estero è pericolosissima. Si figuri, lavoravo pure ad Alcoa. L’alluminio italiano. Le catene del valore segmentate su stati diversi deindustrializzano il Paese rendendolo più esposto alle crisi internazionali. Alitalia andava venduta a Lufthansa, che come Swiss Air avrebbe mantenuto marchio e rotte. Oggi la compagnia è troppo piccola e non riesce a competere né con le low cost né a riempire nuove rotte. Devo dire che la vendita a Lufthansa fu bloccata da tutte le forze politiche, da Renzi fino a Fdi». Errori che Draghi ha fatto…«Ne sono un gran supporter ma non ho mai nascosto gli errori compiuti. La reazione alla crisi energetica è stata tardiva e debole. Se arrivi tardi paghi costi economici e sociali. Oggi abbiamo il costo dell’energia più alto di tutti. Servono soluzioni pragmatiche. Dal price cap al prelievo fiscale aggiuntivo sugli utili derivanti dal prezzo volatile, e non dalla capacità di fare impresa. Anche perché l’inflazione andrà fuori controllo e la Bce smetterà di tenere tassi bassi. Il nostro spread salirà oltre i 300 punti base. Rischiamo di spezzarci le gambe».
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