
Smentite le voci sull’omicidio volontario: la Procura non cambia capo d’imputazione.Tutto quello che è stato ricostruito dalla polizia giudiziaria degli otto lunghissimi chilometri di inseguimento, nel cuore del Corvetto, dei due ragazzi, Ramy Elgaml, che ha perso la vita dopo la caduta, e Fares Bouzidi, che era alla guida del TMax, è stato al centro di un vertice tra gli investigatori in Procura a Milano. Compresi i filmati, consegnati volontariamente dai carabinieri ai magistrati il 4 dicembre. La registrazione proviene da una dashcam installata autonomamente dai militari per autotutela, una misura che non è obbligatoria per legge. Gli stessi video sono stati acquisiti anche dall’avvocato della famiglia di Ramy. E appena sono giunti alla stampa è partito il tentativo di spostare tutta la responsabilità dell’accaduto sui carabinieri. Ma la frase «È caduto! Bene!», che si sente pronunciare durante l’inseguimento, appartiene a un militare della centrale operativa (e non a chi era all’inseguimento del motociclo che non si era fermato all’alt), il quale non aveva una visuale diretta dei fatti nel momento in cui ha commentato.È una notte densa di interrogativi quella del 24 novembre scorso. «I capi d’imputazione non sono cambiati», dice alla Verità il capo della Procura, Marcello Viola, appena uscito dall’incontro con gli investigatori e confermando, così, quanto aveva ricostruito ieri questo giornale rispetto alle anticipazioni che circolavano mercoledì e che, dalla stampa in cerca di sensazionalismo, sono state attribuite a «fonti investigative», rispetto a una nuova accusa: quella di omicidio volontario con dolo eventuale (che si è rivelata non contemplata). L’ipotesi resta quindi quella di «omicidio stradale» a carico sia del vicebrigadiere alla guida della gazzella, sia di Fares. Altri due militari sono invece indagati per favoreggiamento e depistaggio per le relazioni successive all’incidente mortale, in seguito al presunto tentativo di cancellazione di un video girato da un testimone sul luogo dell’incidente (anche questo particolare al momento è tutto da accertare). Ogni tassello in questa indagine sembra aggiungere delle complessità: le prime relazioni, compresa quella della polizia locale, escludono lo speronamento dello scooter, ipotizzano un urto precedente tra i due mezzi e pongono persino dubbi sulla proprietà del casco perso durante l’inseguimento. «Ho chiesto alla polizia giudiziaria di ricontrollare tutto con attenzione, anche l’attribuzione delle frasi pronunciate durante l’operazione», spiega infatti il procuratore, che aggiunge: «A ogni modo ci rivedremo in Procura nelle prossime ore per un ulteriore aggiornamento». «Bastava prendere la targa», gridano ora i movimenti antirazzisti che si sono dati appuntamento per sabato in piazza San Babila. In prima fila, il centro sociale Cantiere e altri collettivi, che chiedono giustizia per Ramy. Mentre l’Arma si sente sotto attacco. «Se inseguire un mezzo che non si ferma all’alt non è più legittimo, cosa dobbiamo fare?», chiede Vincenzo Romeo, segretario generale di Pianeta sindacale carabinieri. I militari pretendono chiarezza e regole certe. E poi c’è il padre di Ramy, che si fa portavoce di una dignità che sorprende: «Ho fiducia nella giustizia italiana al cento per cento». Yehia Elgaml non cerca vendetta, ma risposte. «Grande senso di responsabilità e grande senso civico», lo definisce il comandante dei carabinieri di Milano Pierluigi Solazzo, che ha espresso «tutto il cordoglio dell’Arma per quanto è successo, per la malaugurata scomparsa di Ramy». «Riteniamo assolutamente necessario attendere l’esito delle indagini per poter fare qualsiasi tipo di valutazione», ha spiegato Solazzo quanto a eventuali procedimenti disciplinari nei confronti dei carabinieri coinvolti nell’inchiesta. «L’Arma è e sarà sempre al fianco delle comunità locali». Con trasparenza, come dimostra la consegna dei video della dashcam.
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