2018-04-21
Non fu la Resistenza a salvare l’Italia. La verità è nei cimiteri militari alleati
La versione agiografica della liberazione dal nazifascismo avvenuta grazie alla lotta partigiana non quadra. Sono le cifre a smentirla. Quella dell'Anpi è una memoria parziale e sbilanciata. Se ne è accorto anche Paolo Mieli.Anche Paolo Mieli si è accorto che nella vulgata della Resistenza qualcosa non quadra. L'ha fatto sull'onda della recensione a un bel libro dello storico francese Olivier Wieviorka, Storia della Resistenza nell'Europa occidentale 1940-1945 (Einaudi). Uno studio che viene dall'estero, e non è un caso. Chiunque abbia varcato i confini del Belpaese nel segno della storia sa benissimo che non è affatto il caso di esportare la versione agiografica della liberazione dell'Italia dal nazifascismo incoronata con gli allori della propaganda e guarnita con la melassa politica della guerra partigiana e antifascista. Questa, infatti, è stata solo un aspetto, e certamente il meno decisivo, della guerra di liberazione dal nazifascismo. Vale per l'Italia e vale per tutti i Paesi occupati del secondo conflitto mondiale, con l'eccezione della Jugoslavia che, appunto, conferma la regola. A quasi 80 anni occorre rivedere una volta per tutte, con la forza dei fatti, un mito che si nutre di una visione ideologizzata e addomesticata della storia. Il 25 aprile quindi, non come un monolite inscalfibile, ma come un quadro in chiaroscuro nel quale la resistenza armata antifascista (dai comunisti ai monarchici) interpreta un suo ruolo, ma non quello che vorrebbe chi se ne è appropriato per finalità politiche e partitiche. Il 25 aprile è peraltro una festa nazionale convenzionale: nel 1945 non segnò affatto né la liberazione né la fine della guerra, ma solo l'ordine di insurrezione generale, che comunque in codice era «Aldo dice 26 x 1», in cui 26 era appunto il giorno della rivolta. La guerra sarebbe finita solo con l'Operation sunrise il 2 maggio 1945 e a seguito della firma sul documento negoziato dai tedeschi alla reggia di Caserta del 29 aprile, per l'inarrestabile successo militare alleato e il tracollo dell'esercito tedesco in Italia. I fascisti saloini erano già da tempo comprimari marginali, sistematicamente scavalcati dai tedeschi che li tenevano all'oscuro di qualunque loro mossa. Al di là di ogni aspetto morale, la guerra partigiana entra in questa storia ma non dalla porta principale: la sola che gli angloamericani erano stati disponibili a tenere aperta (come sostengono fior di documenti alleati), di supporto all'azione militare della VIII Armata britannica sull'Adriatico e della V Armata statunitense sul Tirreno. La vittoria era stata la loro, come eventi e storia testimoniavano e come le condizioni di pace imposte a Parigi nel 1947 a un Paese sconfitto ribadivano (si legga l'intervento di Alcide De Gasperi). Eppure, immediatamente dopo la fine delle ostilità, c'era già chi si era appropriato dell'epopea partigiana e spacciava una parte per il tutto, riuscendo a incidere per decenni sulla coscienza e sulla conoscenza collettiva. Persino il ricostituito esercito italiano cobelligerante (I Raggruppamento motorizzato, Corpo italiano di liberazione e Gruppi di combattimento) veniva tenuto fuori dal discorso della liberazione, tant'è vero che solo il presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, riuscirà a sdoganarlo negli anni Novanta riportando in primo piano la sanguinosa pagina della resistenza con le stellette a Cefalonia, e poi con il «no» della stragrande maggioranza degli internati militari italiani nei campi di concentramento del Terzo Reich. Chi abbia liberato davvero l'Italia ce lo dicono i due cimiteri americani di Nettuno e Firenze, con i resti di 32.000 soldati statunitensi, i 41 cimiteri di guerra del Regno Unito in Italia (45.000 i caduti del Commonwealth), le 7.800 tombe di soldati francesi e coloniali, le quasi 4.000 dei valorosi polacchi del generale Wladyslaw Anders. Coloro che rischiavano più di tutti erano i soldati della Brigata ebraica, quelli che il 25 aprile non possono sfilare perché l'Associazione nazionale partigiani ha un'altra visione del mondo e della storia, del passato e del presente.Nel 1957 l'Istat fece un po' di conti e stabilì che dall'8 settembre 1943 a maggio 1945, ovvero dall'armistizio alla fine della guerra mondiale, di liberazione e civile, l'Italia aveva avuto 187.679 caduti: 67.186 militari e 120.493 civili. I morti non attribuibili alla guerra partigiana sono 123.624, e pertanto i restanti dovrebbero appartenere alla Resistenza e alle truppe della Repubblica sociale. Ma la Presidenza del consiglio dei ministri fornì poi questi dati: nell'«aprile 1954 il Servizio commissioni per il riconoscimento della qualifica partigiana comunicò che il numero dei caduti in combattimento, ai quali fino a quel momento era stata riconosciuta la qualifica di partigiano, ammontava a 44.720. I patrioti civili uccisi per rappresaglia risultavano invece 9.180». Fuori dall'Italia erano poi caduti circa 33.000 militari. E i conti non ridanno più, perché in difetto di almeno 24.000 caduti rispetto a 187.679, cui vanno comunque aggiunti dai 20 ai 30.000 morti con l'uniforme repubblichina. Va poi aggiunto che, sempre secondo quanto diramato dal ministero dell'Interno, le esecuzioni sommarie alla fine della guerra sarebbero state a 1.732: un numero che l'Istat correggerà, con riferimento al solo 1945, in 16.514 alla voce «esecuzione giudiziaria in forza di cause di guerra». Le cifre convenzionali Istat sui caduti della Resistenza sono transitate nel 1968 nell'Enciclopedia della Resistenza diretta da Pietro Secchia, mentre il Dizionario della Resistenza curato da Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi riporta un'appendice statistica e dati quantitativi a firma di Giorgio Rochat: questi si era dimostrato scettico sul numero dei caduti partigiani e richiamava a riprova un suo saggio del 1995 («Una ricerca impossibile. Le perdite italiane nella seconda guerra mondiale», in Italia contemporanea, n. 201), fissando a 10.000 i caduti tra i militari italiani che avevano scelto di combattere nei movimenti di resistenza all'estero (Jugoslavia e Grecia) e circa 40.000 tra i militari internati nei lager nazisti che si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò. La guerra partigiana, insomma, non è assorbente dell'intero fenomeno della guerra di liberazione, come è stato raccontato per decenni e come qualcuno continua a raccontare in una sinistra che ha visto sgretolarsi i suoi miti uno dopo l'altro e resta a difesa dell'ultimo. L'Anpi, pervicacemente abbarbicata a una visione manichea della storia, ritiene di essere custode e depositaria della memoria. Il che è anche vero, ma è una memoria parziale e sbilanciata da una sola parte: lo comprovano le scissioni dall'unità partigiana, dopo il primo congresso Anpi del 1947, compiute nel 1948 dalla Federazione italiana volontari della libertà e nel 1949 dalla Federazione italiana di azione partigiana. Con Fivl e Fiap andavano fuori cattolici, autonomi, appartenenti alle formazioni di Giustizia e libertà, Partito d'azione, socialisti, socialdemocratici, repubblicani, liberali, militari, anarchici. Cosa c'è restato è chiaro. Cosa ci sia, pure, con il quasi 96% di iscritti che non solo non hanno partecipato alla guerra di liberazione ma se la disegnano e se la raccontano a uso e consumo di un antifascismo nazionale antistorico e antifattuale, disancorato dalla realtà di allora e di oggi.Mieli è pervenuto adesso a un'ovvia conclusione, permeandola da un valido e ben informato storico come Wieviorka, francese d'origine ebreopolacca. Sarebbe bastato guardare di più e meglio in casa propria, come altri hanno fatto senza aver paura della verità a partire dal suo maestro Renzo De Felice, e senza neppure scomodare il grande successo popolare dei volumi di Giampaolo Pansa.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)