2023-08-14
Non è più la Serie A
Lo scudetto del Napoli (Ansa)
Serie A. Ma lo è ancora? L’orticello non cambia, la passione è la stessa. Ogni anno a una settimana dall’inizio del campionato di calcio l’adrenalina aumenta, i giornali sportivi vendono (quasi) come ai tempi d’oro e sul bancone dei gelati Sammontana si accendono le discussioni dei tifosi rapiti dai nomi esotici dei nuovi arrivati. In attesa di verificare in concreto se sonofenomeni, brocchi o semplici ragionieri del pallone. Al di là del fideismo calciofilo il tendone del grande circo scricchiola. E un tiro al volo sotto la traversa di Victor Osimhen, Lautaro Martinez, Olivier Giroud, Dusan Vlahovic non basta più a nascondere una caterva di problemi congeniti di un sistema uscito con le ossa rotte dalla pandemia, che non riesce ad essere attrattivo neppure per le tv (vedi diritti negoziati al ribasso) .
Può ancora chiamarsi di Serie A un torneo con metà dei club a debito (tranne Atalanta, Napoli e Milan), qualche big con la proprietà sull’orlo del baratro (l’Inter vicecampione d’Europa), qualche altra in mano a fondi che non hanno come obiettivo il successo ma i dividendi degli azionisti (Milan)? E la Juventus che ricapitalizza a nastro per non precipitare? Può ancora definirsi un’eccellenza un campionato in cui i top player latitano, e se non vengono portati via da Premier e Bundesliga scappano a svernare dagli arabi? Può specchiarsi nel passato con orgoglio una Serie A in cui non si riesce a costruire uno stadio nuovo e non c’è caso giudiziario che la Federcalcio non complichi con perversa fantasia? Vediamo tutto con calma, sorretti dalla famosa frase di Nereo Rocco. A chi gli augurava «vinca il migliore», il grande mister triestino rispondeva: «Speremo de no».
Debiti per 5,6 miliardi. E con le tv l’asta è al ribasso
Il colore preferito è il rosso. Non per via del Milan e della Roma ma a causa dei debiti: il calcio italiano è una macchina mangiasoldi, nel 2022 (ultimo anno solare verificato) il movimento ha subìto perdite per 1,4 miliardi di euro e i debiti sono saliti a 5,6 miliardi. In questo contesto è molto difficile ipotizzare un futuro concorrenziale rispetto alla Premier League da Playstation, al campionato spagnolo con i totem Real Madrid e Barcellona, ma anche alla Bundesliga dove il Bayern Monaco fa il solito torneo in solitaria, infastidito a turno da Borussia Dortmund e Lipsia. L’opulenza limita la noia, soprattutto consente di strutturare squadre sempre più competitive, imbottite di campioni e non solo di speranze o di cavalli di ritorno.
Non è il caso del calcio italiano, che ha pagato più di tutti lo stop dovuto alla pandemia: 3,3 milioni persi al giorno nel triennio Covid. La ripresa è stata lenta, una traversata del deserto con molti feriti: la sola Serie A nel 2022 ha registrato un valore della produzione poco inferiore ai 3 miliardi, in decremento del 6,5% rispetto all’anno precedente (quello finito ad agosto). I club hanno spesso fatto ricorso a denaro che non avevano: plusvalenze e cessioni hanno registrato un incremento di 132 milioni, lontanissimi dagli 835 milioni pre pandemia (fonte l’ultimo Report Calcio di Figc e Pwc).
La mancanza di fondi è ormai strutturale, le proprietà storiche tendono a defilarsi anche perché i costi sono altissimi: in tre anni per mantenere il giocattolo Monza Silvio Berlusconi aveva bruciato 80 milioni. Ora il destino del club è nelle mani dell’abile Adriano Galliani e dei risultati di questa stagione. Nel frattempo tutto il sistema sembra reggersi sui «pagherò». I prestiti con diritto di riscatto non sono altro che cambiali a scadenza. Significa ipotecare il futuro. A fine agosto dello scorso anno i milioni svolazzanti, ancora da saldare, erano 170. Quest’anno potrebbero oltrepassare i 200.
In questo scenario i colossi televisivi (anche loro con sostanziose spending review in atto) hanno scoperto che i diritti tv del calcio non valgono più sforzi titanici. Nel triennio in corso la Lega è riuscita a portare a casa 1,2 miliardi anche con il sostegno di Tim che ha garantito l’autostrada digitale a Dazn (e quando c’è il buffering prendersela con la tv e non con il proprietario della rete è ridicolo). Ma dal 2024 la musica cambia, nessuno fa beneficenza, Sky non se lo può più permettere. E finora l’asta interlocutoria ha raggiunto esiti ben lontani dal miliardino che piace ai presidenti delle società, indispensabile per spalmarci le perdite di gestione.
Pezze ai gomiti, solo giacche di tweed per mascherarle. Con un nuovo parametro micidiale: la Saudi Pro League che sta dragando campioni nella speranza di moltiplicare i fatturati e di sbarcare in Europa. Non sarà facile perché, oltre a comprare calciatori, i club di proprietà del fondo sovrano Pif dovrebbero comprare tifosi (la media spettatori di quel campionato è di 9.000 persone, più o meno come la Serie A belga). Niente a che vedere con i 70.000 di San Siro ogni maledetta domenica. Poi, in tutta questa depression, succede che tre club italiani arrivino in finale nelle tre competizione europee. E perdano.
Lo schiaffo su San Siro dimostra che fare nuovi stadi è impossibile
Uno stadio, tutti gli stadi. Uno scandalo, tutti gli scandali. È la storia italiana per eccellenza, quella che ci racconta non solo un fallimento istituzionale ma anche l’immobilismo infrastrutturale del Paese. E il ruolo ancillare che ormai lo sport principale d’Italia ha nei confronti dei gruppi di pressione, del politicamente corretto, degli interessi quasi personali di pigmei della politica incistati nei consigli comunali. La vicenda è quella dello stadio di San Siro, bandiera stracciata di una sconfitta, e della fuga delle due storiche squadre di calcio da Milano.
Inter e Milan sono destinati ad andarsene dopo sei anni di prese in giro, dopo aver prodotto un progetto avveniristico (la Cattedrale) per continuare a vivere insieme, con costi suddivisi per 1,2 miliardi di euro. Scapperanno fuori Milano, sospinti dal groviglio di distinguo, di impedimenti, quando non di ostruzionismi dell’amministrazione di Giuseppe Sala dove, prendendo a prestito una strofa di Francesco Guccini, «chiunque avesse un tiramento» poneva un veto. Il progetto era affascinante e al tempo stesso speculativo (troppo consumo di suolo, troppo poco verde); sarebbe stata fondamentale una trattativa costruttiva ma i niet della giunta green hanno raffreddato ogni entusiasmo. In tutto questo il Vanity sindaco prima ha fatto il pesce in barile, poi il principe amletico chiamandosi fuori. Una commedia all’italiana fino all’arrivo del vincolo della Soprintendenza per il secondo anello; San Siro non si può abbattere ed è condannato a un destino da rudere. Il Milan ha già acquisito la società proprietaria dei terreni di San Donato e l’Inter ha opzionato per un anno un’area di Rozzano per verificare la fattibilità in proprio della Cattedrale.
A Milano non si può costruire un nuovo stadio. Segnale pessimo per tutto il sistema calcio, dopo il fallimentare tentativo di Roma, dopo il rifiuto di Bruxelles di finanziare con i soldi del Pnrr gli impianti di Firenze e Venezia. In un mondo dello sport in cui gli stadi sono asset decisivi per dare prospettive economiche ai club, sconfitte come questa segnano una fragilità congenita, un declino inarrestabile. Gli unici esempi positivi arrivano dall’Udinese e dall’Atalanta, terre in cui il pragmatismo progettuale riesce ancora a prendere a calci i veti incrociati per favorire l’interesse comune.
È perfino struggente il parere di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, sul pasticcio meneghino. «Se da sindaco avessi seguito questi contrasti i grattacieli di Porta Nuova non sarebbero mai nati. Non voglio attribuire al povero Sala questa stangata della Soprintendenza, peraltro incomprensibile perché non so cosa ci sia da salvaguardare a San Siro, ma temo che sarà una tragedia. Le squadre hanno detto dall’inizio che il Meazza non andava più bene e hanno proposto l’unica cosa sensata, raderlo al suolo e farne uno nuovo bellissimo, il progetto della Cattedrale sì sarebbe stato un’opera da tutelare. Lo stadio senza il calcio sarà un rudere». Il massimo della beffa è la proposta della Federcalcio di condividere con la Turchia l’organizzazione degli Europei di calcio del 2032. Mentre da noi il saldo è di zero stadi, solo a Istanbul ne sono stati realizzati quattro.
I (pochi) campioni se ne vanno dagli sceicchi o nella Premier
C’era una volta il calciomercato dei nababbi. Erano soprattutto Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli e Massimo Moratti, presidenti innamorati che si svenavano col sorriso sulle labbra per far felice il popolo con sciarpa bicolore. Arrivavano Ronaldo il Fenomeno, Zinedine Zidane, Andrij Shevchenko e Kakà. Mentre a Napoli danzava Diego Maradona. Gli zeri dietro la cifra non contavano, erano sogni rotondi, erano le ruote sulle quali viaggiavano le fuoriserie dello scudetto. L’ultimo alieno in entrata è stato Cristiano Ronaldo. Ciò che avviene oggi appartiene a un’altra era geologica, quella della Grande Depressione.
Classico termometro per indicare la febbre di un campionato, nell’era del riscaldamento globale il calciomercato indica glaciazione permanente. Mai come quest’anno. Mai come nella stucchevole estate della noia, in cui l’unico feuilleton degno di un Dumas zio è quello che riguarda Romelu Lukaku. Il belga ex nerazzurro, l’uomo al quale Pep Guardiola ha dedicato la Champions league: «Ho vinto perché ha sbagliato a tre metri dalla porta». Ecco, tutti appesi alla sua barbetta caprina. L’Inter tradita mentre grattava gli ultimi spiccioli per ingaggiarlo, la Juventus interessata (anche se i tifosi lo detestano) per soddisfare il «corto muso» di Max Allegri, il Chelsea intenzionato a monetizzare per toglierselo dai piedi e mandarlo nella Saudi Pro League. Da un mese non si parla che di un cavallo di ritorno, soldi veri zero, colpi da maestro nessuno. Campioni affermati manco a parlarne.
Nel frattempo se ne sono andati ottimi centrocampisti come Marcelo Brozovic (20 milioni) e Sergej Milinkovic Savic (40 milioni), rapiti dal flusso di denaro messo a disposizione dagli sceicchi per provare a trasformare in un torneo vero un luna park fra le dune per pensionati senza stimoli. Conseguenza, un trading senza idee, senza prospettiva e soprattutto senza soldi. Per comprare al centro commerciale le italiane hanno dovuto prima vendere con ricadute sanguinose.
Lo ha fatto l’Inter, che ha rinunciato a un portiere leader come André Onana (56 milioni al Manchester United). Lo ha fatto il Milan, che si è strappato un pezzo di cuore lasciando andare via per 70 milioni (destinazione Newcastle) il leader della squadra Sandro Tonali. E lo ha fatto l’Atalanta - con gioia - rifilando il gioiellino Rasmus Hojlund sempre al Manchester United (80 milioni, affarone, tutti vorrebbero avere a che fare con i rossi in piena crisi depressiva dopo essere stati surclassati in città dal City di Guardiola e degli sceicchi). Con una postilla surreale: lo staff medico inglese ha scoperto che l’ex atalantino ha un problema alla schiena e salterà la preparazione. Furibondi e pure fessi.
Al di là del folclore, un calciomercato finanziato con le cessioni è un fallimento in partenza, significa che non ci sono margini per investire. Anche la Juventus sembra avere le mani legate: per prendere Lukaku deve vendere Vlahovic al Chelsea. Operazione necessaria per avere i liquidi (30 milioni) destinati a pagare l’ultima tranche dell’acquisto del centravanti serbo due anni fa dalla Fiorentina. Figurine cedute, figurine scambiate. Roba da mercato rionale, bisogna adattarsi all’austerity. Ma sognare Marko Arnautovic è dura.
Dalle plusvalenze al caso Lecco, le regole sono saltate
Il Lecco è in Serie B ma non gioca aspettando la sentenza del Consiglio di Stato. Le multiproprietà sono un controsenso ma Aurelio De Laurentiis può essere di fatto padrone di Napoli e Bari fino al 2029. L’ex presidente Andrea Agnelli è stato inibito per 16 mesi in seguito alla manovra «stipendi spalmati» della Juventus ma il club ha ottenuto il patteggiamento con 718.000 euro di multa. Una mancia rispetto ai 10 punti di penalità per il caso plusvalenze. Nessuno ha protestato perché tutte (proprio tutte) le altre società hanno giocatori farlocchi negli armadi come scheletri putrescenti. Sono i casi più recenti del capitolo: Serie A senza regole.
Il problema è enorme. Nonostante le tavole federali della legge siano scritte sulla pietra, oggi il governo del pallone è incline più alle deroghe che all’applicazione delle norme. E la giustizia sportiva gli va dietro nel balbettìo di sentenze pronte per essere ribaltate nel giorno stesso in cui escono. Una debolezza alla luce del sole, perché c’è sempre un grado di giudizio superiore, c’è sempre la possibilità di incartare le prove, di rigirare le frittate, di far sembrare la legalità un luna park per avvocati specializzati.
Il caso del Lecco è esemplare, la città manzoniana rischia di essere strangolata dagli Azzeccagarbugli. La squadra ha vinto il campionato di Lega Pro (la vecchia C1) a suon di gol, è stata promossa ma non è ancora sicura di poter giocare in B per aver inviato il dossier stadio (con la possibilità di giocare a Padova mentre il vecchio Rigamonti sarà ristrutturato sotto il Resegone) con un giorno oltre la scadenza dei termini. Il ritardo era dovuto alla tempistica minima per completare le scartoffie e alla mancanza di una firma, quella del prefetto di Padova in ferie. Invece di un bel patteggiamento e di una multa (do you remember stipendi spalmati?) ecco che davanti al piccolo Lecco si erge imperiosa la volontà di legalità dei poteri forti del pallone. Il Lecco è in ritardo? Il Lecco non venga promosso. Ma poiché nel frattempo non si era iscritto neppure alla Lega Pro - a che pro, era in B - il club ha visto materializzarsi lo spettro della Terza Categoria.
Il Tar ha ribaltato l’ultima sentenza di condanna, per ora i blucelesti sono nel limbo ma dovranno attendere il 29 agosto, giorno del Consiglio di Stato, per sapere in quale campionato giocheranno. La faccenda ha portato con sé una slavina: ricorsi di Brescia, Perugia, Reggina. Un caos procedurale, carte da bollo a Ferragosto. Con il campionato di Serie B che partirà senza le ricorrenti. Saranno giudici che magari amano il ping pong a decidere chi giocherà nel secondo campionato professionistico italiano. Molto bene.
Un’immagine devastante per un sistema professionistico che vorrebbe espandersi e costruire una «narrazione europea», come piace ripetere al presidente della Federcalcio Gabriele Gravina. Quest’ultimo viene ritenuto un manager debole, pronto al compromesso con chiunque e alla scappatoia del disimpegno («Io non c’ero e se c’ero dormivo») quando sarebbe necessario invece prendere decisioni per il bene di tutto il movimento. Nel frattempo De Laurentiis resta proprietario sia del Napoli, sia del Bari. Per fortuna club che militano in campionati diversi. Che si fa? Si decide di prorogare l’anomalia per altri sei anni. Puro indecisionismo.
Corsa a quattro per lo scudetto, decisivo il mercato
Nonostante le questue, i bond in scadenza e qualche eccesso alla Totò davanti alla fontana di Trevi, sabato 19 ricomincia la caccia allo scudetto cucito sulle maglie del pirotecnico Napoli di Aurelio De Laurentiis. Salutato Luciano Spalletti in ansia da anno sabbatico (temeva la cessione di mezza squadra e non ha voluto correre rischi), sulla panchina degli azzurri c’è Rudy Garcia che ha vinto il casting del presidente. Poiché il mercato è aperto fino al 31 agosto non è detto che le squadre della prima giornata siano anche quelle della terza. Fino all’ultimo i tifosi partenopei temono lo scippo di Victor Osimhen, fenomenale cannoniere in piena sintonia con la moda del momento: il carroarmato decathleta tuttofare. Come Erling Haaland. Il destino del puntero nigeriano sta tutto in una virgola. Con il rinnovo del contratto a Napoli guadagnerebbe 5,5 milioni l’anno ma il club arabo Al Hilal (lo stesso di Karim Benzema) ha deciso di non usare la punteggiatura. Offerta da 55 milioni a lui per finire a 24 anni in un ospizio calcistico per miliardari e 180 a De Laurentiis per il disturbo. Numeri fuori da ogni logica davanti ai quali nessun presidente sano di mente chiuderebbe preventivamente la porta alla trattativa. Con o senza Osimhen è un altro Napoli. Questo anche se la struttura di centrocampo è d’acciaio (Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka confermati) e il mago georgiano Khvicha Kvaratshkselia è pronto a ripetere una strepitosa stagione.
Dietro ai campioni in carica è ben strutturata l’Inter reduce da un’ottima annata (finale di Champions, Coppa Italia, quattro derby vinti). Ha ingaggiato un giovane promettente come Davide Frattesi, intende lanciare in attacco l’eclettico Markus Thuram accanto a Lautaro. Ha perso peso ed esperienza (via Lukaku, Brozovic, Onana, Edin Dzeko), monte-ingaggi più leggero e pure l’età media scesa verso i 25 anni. Da verificare l’inserimento di Juan Cuadrado, tiro mancino ai tifosi. Chissà se bastano due dribbling a cancellarne la juventinità.
Dall’altra parte del Naviglio, il Milan è pronto a una galoppata di vertice. Gli uomini di Gerry Cardinale hanno molto lavorato su giocatori giovani, atleticamente formidabili e già pronti a dare battaglia. Nessun fenomeno, ma neppure gli altri ne hanno portati a casa. I più strutturati e noti sono i due ex Chelsea, Christian Pulisic e Ruben Loftus Cheek, gambe e testa da Premier. I due più interessanti sono Yunus Musah dal Valencia e il centravanti Noah Okafor dal Salisburgo. L’uomo nuovo che potrebbe illuminare San Siro e far dimenticare Tonali è Tijjani Reijnders, arrivato dall’AZ Alkmaar. Dalle prime amichevoli un potenziale top a centrocampo, grinta e idee, 19 milioni spesi bene.
Con le milanesi c’è la Juventus della telenovela Lukaku (arriva, non arriva, i tifosi non lo vogliono), del rientrante Paul Pogba, del ritrovato Federico Chiesa, dell’eterna promessa Niccolò Zaniolo (se si concretizza). Una fionda micidiale dedita al contropiede come piace ad Allegri. Difesa chiusa e in porta con tre passaggi, alla faccia dei nostalgici del tiki-taka. La corazzata non va mai sottovalutata. Neppure fuori dal campo: capitan Leonardo Bonucci, escluso dal progetto per limiti di età, ha chiesto il reintegro rivolgendosi a un legale neanche fosse un postelegrafonico licenziato.
Lazio e Roma hanno la pozione magica in panchina, Maurizio Sarri e Josè Mourinho sanno trasformare il ferro in oro. E a Bergamo, Gian Piero Gasperini è sulla stessa linea d’onda. Con l’ariete Gianluca Scamacca in area e il portafoglio pieno nella tasca di Antonio Percassi, il popolo orobico è pronto a urlare ancora una volta «adess adoss».
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Conti in rosso, impianti inadeguati, top player in fuga. Il calcio italiano è sempre più in crisi. Lo speciale comprende cinque articoli.Serie A. Ma lo è ancora? L’orticello non cambia, la passione è la stessa. Ogni anno a una settimana dall’inizio del campionato di calcio l’adrenalina aumenta, i giornali sportivi vendono (quasi) come ai tempi d’oro e sul bancone dei gelati Sammontana si accendono le discussioni dei tifosi rapiti dai nomi esotici dei nuovi arrivati. In attesa di verificare in concreto se sonofenomeni, brocchi o semplici ragionieri del pallone. Al di là del fideismo calciofilo il tendone del grande circo scricchiola. E un tiro al volo sotto la traversa di Victor Osimhen, Lautaro Martinez, Olivier Giroud, Dusan Vlahovic non basta più a nascondere una caterva di problemi congeniti di un sistema uscito con le ossa rotte dalla pandemia, che non riesce ad essere attrattivo neppure per le tv (vedi diritti negoziati al ribasso) . Può ancora chiamarsi di Serie A un torneo con metà dei club a debito (tranne Atalanta, Napoli e Milan), qualche big con la proprietà sull’orlo del baratro (l’Inter vicecampione d’Europa), qualche altra in mano a fondi che non hanno come obiettivo il successo ma i dividendi degli azionisti (Milan)? E la Juventus che ricapitalizza a nastro per non precipitare? Può ancora definirsi un’eccellenza un campionato in cui i top player latitano, e se non vengono portati via da Premier e Bundesliga scappano a svernare dagli arabi? Può specchiarsi nel passato con orgoglio una Serie A in cui non si riesce a costruire uno stadio nuovo e non c’è caso giudiziario che la Federcalcio non complichi con perversa fantasia? Vediamo tutto con calma, sorretti dalla famosa frase di Nereo Rocco. A chi gli augurava «vinca il migliore», il grande mister triestino rispondeva: «Speremo de no».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem5" data-id="5" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-e-piu-la-serie-a-2663626905.html?rebelltitem=5#rebelltitem5" data-basename="debiti-per-56-miliardi-e-con-le-tv-lasta-e-al-ribasso" data-post-id="2663626905" data-published-at="1691955895" data-use-pagination="False"> Debiti per 5,6 miliardi. E con le tv l’asta è al ribasso Il colore preferito è il rosso. Non per via del Milan e della Roma ma a causa dei debiti: il calcio italiano è una macchina mangiasoldi, nel 2022 (ultimo anno solare verificato) il movimento ha subìto perdite per 1,4 miliardi di euro e i debiti sono saliti a 5,6 miliardi. In questo contesto è molto difficile ipotizzare un futuro concorrenziale rispetto alla Premier League da Playstation, al campionato spagnolo con i totem Real Madrid e Barcellona, ma anche alla Bundesliga dove il Bayern Monaco fa il solito torneo in solitaria, infastidito a turno da Borussia Dortmund e Lipsia. L’opulenza limita la noia, soprattutto consente di strutturare squadre sempre più competitive, imbottite di campioni e non solo di speranze o di cavalli di ritorno. Non è il caso del calcio italiano, che ha pagato più di tutti lo stop dovuto alla pandemia: 3,3 milioni persi al giorno nel triennio Covid. La ripresa è stata lenta, una traversata del deserto con molti feriti: la sola Serie A nel 2022 ha registrato un valore della produzione poco inferiore ai 3 miliardi, in decremento del 6,5% rispetto all’anno precedente (quello finito ad agosto). I club hanno spesso fatto ricorso a denaro che non avevano: plusvalenze e cessioni hanno registrato un incremento di 132 milioni, lontanissimi dagli 835 milioni pre pandemia (fonte l’ultimo Report Calcio di Figc e Pwc). La mancanza di fondi è ormai strutturale, le proprietà storiche tendono a defilarsi anche perché i costi sono altissimi: in tre anni per mantenere il giocattolo Monza Silvio Berlusconi aveva bruciato 80 milioni. Ora il destino del club è nelle mani dell’abile Adriano Galliani e dei risultati di questa stagione. Nel frattempo tutto il sistema sembra reggersi sui «pagherò». I prestiti con diritto di riscatto non sono altro che cambiali a scadenza. Significa ipotecare il futuro. A fine agosto dello scorso anno i milioni svolazzanti, ancora da saldare, erano 170. Quest’anno potrebbero oltrepassare i 200. In questo scenario i colossi televisivi (anche loro con sostanziose spending review in atto) hanno scoperto che i diritti tv del calcio non valgono più sforzi titanici. Nel triennio in corso la Lega è riuscita a portare a casa 1,2 miliardi anche con il sostegno di Tim che ha garantito l’autostrada digitale a Dazn (e quando c’è il buffering prendersela con la tv e non con il proprietario della rete è ridicolo). Ma dal 2024 la musica cambia, nessuno fa beneficenza, Sky non se lo può più permettere. E finora l’asta interlocutoria ha raggiunto esiti ben lontani dal miliardino che piace ai presidenti delle società, indispensabile per spalmarci le perdite di gestione. Pezze ai gomiti, solo giacche di tweed per mascherarle. Con un nuovo parametro micidiale: la Saudi Pro League che sta dragando campioni nella speranza di moltiplicare i fatturati e di sbarcare in Europa. Non sarà facile perché, oltre a comprare calciatori, i club di proprietà del fondo sovrano Pif dovrebbero comprare tifosi (la media spettatori di quel campionato è di 9.000 persone, più o meno come la Serie A belga). Niente a che vedere con i 70.000 di San Siro ogni maledetta domenica. 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Il progetto era affascinante e al tempo stesso speculativo (troppo consumo di suolo, troppo poco verde); sarebbe stata fondamentale una trattativa costruttiva ma i niet della giunta green hanno raffreddato ogni entusiasmo. In tutto questo il Vanity sindaco prima ha fatto il pesce in barile, poi il principe amletico chiamandosi fuori. Una commedia all’italiana fino all’arrivo del vincolo della Soprintendenza per il secondo anello; San Siro non si può abbattere ed è condannato a un destino da rudere. Il Milan ha già acquisito la società proprietaria dei terreni di San Donato e l’Inter ha opzionato per un anno un’area di Rozzano per verificare la fattibilità in proprio della Cattedrale. A Milano non si può costruire un nuovo stadio. Segnale pessimo per tutto il sistema calcio, dopo il fallimentare tentativo di Roma, dopo il rifiuto di Bruxelles di finanziare con i soldi del Pnrr gli impianti di Firenze e Venezia. In un mondo dello sport in cui gli stadi sono asset decisivi per dare prospettive economiche ai club, sconfitte come questa segnano una fragilità congenita, un declino inarrestabile. Gli unici esempi positivi arrivano dall’Udinese e dall’Atalanta, terre in cui il pragmatismo progettuale riesce ancora a prendere a calci i veti incrociati per favorire l’interesse comune. È perfino struggente il parere di Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano, sul pasticcio meneghino. «Se da sindaco avessi seguito questi contrasti i grattacieli di Porta Nuova non sarebbero mai nati. Non voglio attribuire al povero Sala questa stangata della Soprintendenza, peraltro incomprensibile perché non so cosa ci sia da salvaguardare a San Siro, ma temo che sarà una tragedia. Le squadre hanno detto dall’inizio che il Meazza non andava più bene e hanno proposto l’unica cosa sensata, raderlo al suolo e farne uno nuovo bellissimo, il progetto della Cattedrale sì sarebbe stato un’opera da tutelare. Lo stadio senza il calcio sarà un rudere». Il massimo della beffa è la proposta della Federcalcio di condividere con la Turchia l’organizzazione degli Europei di calcio del 2032. Mentre da noi il saldo è di zero stadi, solo a Istanbul ne sono stati realizzati quattro. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-e-piu-la-serie-a-2663626905.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="i-pochi-campioni-se-ne-vanno-dagli-sceicchi-o-nella-premier" data-post-id="2663626905" data-published-at="1691955895" data-use-pagination="False"> I (pochi) campioni se ne vanno dagli sceicchi o nella Premier C’era una volta il calciomercato dei nababbi. Erano soprattutto Silvio Berlusconi, Gianni Agnelli e Massimo Moratti, presidenti innamorati che si svenavano col sorriso sulle labbra per far felice il popolo con sciarpa bicolore. Arrivavano Ronaldo il Fenomeno, Zinedine Zidane, Andrij Shevchenko e Kakà. Mentre a Napoli danzava Diego Maradona. Gli zeri dietro la cifra non contavano, erano sogni rotondi, erano le ruote sulle quali viaggiavano le fuoriserie dello scudetto. L’ultimo alieno in entrata è stato Cristiano Ronaldo. Ciò che avviene oggi appartiene a un’altra era geologica, quella della Grande Depressione. Classico termometro per indicare la febbre di un campionato, nell’era del riscaldamento globale il calciomercato indica glaciazione permanente. Mai come quest’anno. Mai come nella stucchevole estate della noia, in cui l’unico feuilleton degno di un Dumas zio è quello che riguarda Romelu Lukaku. Il belga ex nerazzurro, l’uomo al quale Pep Guardiola ha dedicato la Champions league: «Ho vinto perché ha sbagliato a tre metri dalla porta». Ecco, tutti appesi alla sua barbetta caprina. L’Inter tradita mentre grattava gli ultimi spiccioli per ingaggiarlo, la Juventus interessata (anche se i tifosi lo detestano) per soddisfare il «corto muso» di Max Allegri, il Chelsea intenzionato a monetizzare per toglierselo dai piedi e mandarlo nella Saudi Pro League. Da un mese non si parla che di un cavallo di ritorno, soldi veri zero, colpi da maestro nessuno. Campioni affermati manco a parlarne. Nel frattempo se ne sono andati ottimi centrocampisti come Marcelo Brozovic (20 milioni) e Sergej Milinkovic Savic (40 milioni), rapiti dal flusso di denaro messo a disposizione dagli sceicchi per provare a trasformare in un torneo vero un luna park fra le dune per pensionati senza stimoli. Conseguenza, un trading senza idee, senza prospettiva e soprattutto senza soldi. Per comprare al centro commerciale le italiane hanno dovuto prima vendere con ricadute sanguinose. Lo ha fatto l’Inter, che ha rinunciato a un portiere leader come André Onana (56 milioni al Manchester United). Lo ha fatto il Milan, che si è strappato un pezzo di cuore lasciando andare via per 70 milioni (destinazione Newcastle) il leader della squadra Sandro Tonali. E lo ha fatto l’Atalanta - con gioia - rifilando il gioiellino Rasmus Hojlund sempre al Manchester United (80 milioni, affarone, tutti vorrebbero avere a che fare con i rossi in piena crisi depressiva dopo essere stati surclassati in città dal City di Guardiola e degli sceicchi). Con una postilla surreale: lo staff medico inglese ha scoperto che l’ex atalantino ha un problema alla schiena e salterà la preparazione. Furibondi e pure fessi. Al di là del folclore, un calciomercato finanziato con le cessioni è un fallimento in partenza, significa che non ci sono margini per investire. Anche la Juventus sembra avere le mani legate: per prendere Lukaku deve vendere Vlahovic al Chelsea. Operazione necessaria per avere i liquidi (30 milioni) destinati a pagare l’ultima tranche dell’acquisto del centravanti serbo due anni fa dalla Fiorentina. Figurine cedute, figurine scambiate. Roba da mercato rionale, bisogna adattarsi all’austerity. Ma sognare Marko Arnautovic è dura. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-e-piu-la-serie-a-2663626905.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="dalle-plusvalenze-al-caso-lecco-le-regole-sono-saltate" data-post-id="2663626905" data-published-at="1691955895" data-use-pagination="False"> Dalle plusvalenze al caso Lecco, le regole sono saltate Il Lecco è in Serie B ma non gioca aspettando la sentenza del Consiglio di Stato. Le multiproprietà sono un controsenso ma Aurelio De Laurentiis può essere di fatto padrone di Napoli e Bari fino al 2029. L’ex presidente Andrea Agnelli è stato inibito per 16 mesi in seguito alla manovra «stipendi spalmati» della Juventus ma il club ha ottenuto il patteggiamento con 718.000 euro di multa. Una mancia rispetto ai 10 punti di penalità per il caso plusvalenze. Nessuno ha protestato perché tutte (proprio tutte) le altre società hanno giocatori farlocchi negli armadi come scheletri putrescenti. Sono i casi più recenti del capitolo: Serie A senza regole. Il problema è enorme. Nonostante le tavole federali della legge siano scritte sulla pietra, oggi il governo del pallone è incline più alle deroghe che all’applicazione delle norme. E la giustizia sportiva gli va dietro nel balbettìo di sentenze pronte per essere ribaltate nel giorno stesso in cui escono. Una debolezza alla luce del sole, perché c’è sempre un grado di giudizio superiore, c’è sempre la possibilità di incartare le prove, di rigirare le frittate, di far sembrare la legalità un luna park per avvocati specializzati. Il caso del Lecco è esemplare, la città manzoniana rischia di essere strangolata dagli Azzeccagarbugli. La squadra ha vinto il campionato di Lega Pro (la vecchia C1) a suon di gol, è stata promossa ma non è ancora sicura di poter giocare in B per aver inviato il dossier stadio (con la possibilità di giocare a Padova mentre il vecchio Rigamonti sarà ristrutturato sotto il Resegone) con un giorno oltre la scadenza dei termini. Il ritardo era dovuto alla tempistica minima per completare le scartoffie e alla mancanza di una firma, quella del prefetto di Padova in ferie. Invece di un bel patteggiamento e di una multa (do you remember stipendi spalmati?) ecco che davanti al piccolo Lecco si erge imperiosa la volontà di legalità dei poteri forti del pallone. Il Lecco è in ritardo? Il Lecco non venga promosso. Ma poiché nel frattempo non si era iscritto neppure alla Lega Pro - a che pro, era in B - il club ha visto materializzarsi lo spettro della Terza Categoria. Il Tar ha ribaltato l’ultima sentenza di condanna, per ora i blucelesti sono nel limbo ma dovranno attendere il 29 agosto, giorno del Consiglio di Stato, per sapere in quale campionato giocheranno. La faccenda ha portato con sé una slavina: ricorsi di Brescia, Perugia, Reggina. Un caos procedurale, carte da bollo a Ferragosto. Con il campionato di Serie B che partirà senza le ricorrenti. Saranno giudici che magari amano il ping pong a decidere chi giocherà nel secondo campionato professionistico italiano. Molto bene. Un’immagine devastante per un sistema professionistico che vorrebbe espandersi e costruire una «narrazione europea», come piace ripetere al presidente della Federcalcio Gabriele Gravina. Quest’ultimo viene ritenuto un manager debole, pronto al compromesso con chiunque e alla scappatoia del disimpegno («Io non c’ero e se c’ero dormivo») quando sarebbe necessario invece prendere decisioni per il bene di tutto il movimento. Nel frattempo De Laurentiis resta proprietario sia del Napoli, sia del Bari. Per fortuna club che militano in campionati diversi. Che si fa? Si decide di prorogare l’anomalia per altri sei anni. Puro indecisionismo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-e-piu-la-serie-a-2663626905.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="corsa-a-quattro-per-lo-scudetto-decisivo-il-mercato" data-post-id="2663626905" data-published-at="1691955895" data-use-pagination="False"> Corsa a quattro per lo scudetto, decisivo il mercato Nonostante le questue, i bond in scadenza e qualche eccesso alla Totò davanti alla fontana di Trevi, sabato 19 ricomincia la caccia allo scudetto cucito sulle maglie del pirotecnico Napoli di Aurelio De Laurentiis. Salutato Luciano Spalletti in ansia da anno sabbatico (temeva la cessione di mezza squadra e non ha voluto correre rischi), sulla panchina degli azzurri c’è Rudy Garcia che ha vinto il casting del presidente. Poiché il mercato è aperto fino al 31 agosto non è detto che le squadre della prima giornata siano anche quelle della terza. Fino all’ultimo i tifosi partenopei temono lo scippo di Victor Osimhen, fenomenale cannoniere in piena sintonia con la moda del momento: il carroarmato decathleta tuttofare. Come Erling Haaland. Il destino del puntero nigeriano sta tutto in una virgola. Con il rinnovo del contratto a Napoli guadagnerebbe 5,5 milioni l’anno ma il club arabo Al Hilal (lo stesso di Karim Benzema) ha deciso di non usare la punteggiatura. Offerta da 55 milioni a lui per finire a 24 anni in un ospizio calcistico per miliardari e 180 a De Laurentiis per il disturbo. Numeri fuori da ogni logica davanti ai quali nessun presidente sano di mente chiuderebbe preventivamente la porta alla trattativa. Con o senza Osimhen è un altro Napoli. Questo anche se la struttura di centrocampo è d’acciaio (Zambo Anguissa e Stanislav Lobotka confermati) e il mago georgiano Khvicha Kvaratshkselia è pronto a ripetere una strepitosa stagione. Dietro ai campioni in carica è ben strutturata l’Inter reduce da un’ottima annata (finale di Champions, Coppa Italia, quattro derby vinti). Ha ingaggiato un giovane promettente come Davide Frattesi, intende lanciare in attacco l’eclettico Markus Thuram accanto a Lautaro. Ha perso peso ed esperienza (via Lukaku, Brozovic, Onana, Edin Dzeko), monte-ingaggi più leggero e pure l’età media scesa verso i 25 anni. Da verificare l’inserimento di Juan Cuadrado, tiro mancino ai tifosi. Chissà se bastano due dribbling a cancellarne la juventinità. Dall’altra parte del Naviglio, il Milan è pronto a una galoppata di vertice. Gli uomini di Gerry Cardinale hanno molto lavorato su giocatori giovani, atleticamente formidabili e già pronti a dare battaglia. Nessun fenomeno, ma neppure gli altri ne hanno portati a casa. I più strutturati e noti sono i due ex Chelsea, Christian Pulisic e Ruben Loftus Cheek, gambe e testa da Premier. I due più interessanti sono Yunus Musah dal Valencia e il centravanti Noah Okafor dal Salisburgo. L’uomo nuovo che potrebbe illuminare San Siro e far dimenticare Tonali è Tijjani Reijnders, arrivato dall’AZ Alkmaar. Dalle prime amichevoli un potenziale top a centrocampo, grinta e idee, 19 milioni spesi bene. Con le milanesi c’è la Juventus della telenovela Lukaku (arriva, non arriva, i tifosi non lo vogliono), del rientrante Paul Pogba, del ritrovato Federico Chiesa, dell’eterna promessa Niccolò Zaniolo (se si concretizza). Una fionda micidiale dedita al contropiede come piace ad Allegri. Difesa chiusa e in porta con tre passaggi, alla faccia dei nostalgici del tiki-taka. La corazzata non va mai sottovalutata. Neppure fuori dal campo: capitan Leonardo Bonucci, escluso dal progetto per limiti di età, ha chiesto il reintegro rivolgendosi a un legale neanche fosse un postelegrafonico licenziato. Lazio e Roma hanno la pozione magica in panchina, Maurizio Sarri e Josè Mourinho sanno trasformare il ferro in oro. E a Bergamo, Gian Piero Gasperini è sulla stessa linea d’onda. Con l’ariete Gianluca Scamacca in area e il portafoglio pieno nella tasca di Antonio Percassi, il popolo orobico è pronto a urlare ancora una volta «adess adoss».
Nel periodo gennaio-settembre, il fabbisogno elettrico italiano si è attestato a 233,3 terawattora (TWh), di cui circa il 42,7% è stato coperto da fonti rinnovabili. Tale quota conferma la crescente integrazione delle fonti green nel panorama energetico nazionale, un processo sostenuto dal potenziamento infrastrutturale e dagli avanzamenti tecnologici portati avanti da Terna.
Sul fronte economico, i ricavi del gruppo hanno raggiunto quota 2,88 miliardi di euro, con un incremento dell’8,9% rispetto agli stessi mesi del 2024. L’Ebitda, margine operativo lordo, ha superato i 2 miliardi (+7,1%), mentre l’utile netto si è attestato a 852,7 milioni di euro, in crescita del 4,9%. Risultati, questi, che illustrano non solo un miglioramento operativo, ma anche un’efficiente gestione finanziaria; il tutto, nonostante un lieve aumento degli oneri finanziari netti, transitati da 104,9 a 131,7 milioni di euro.
Elemento di rilievo sono gli investimenti, che hanno superato i 2 miliardi di euro (+22,9% rispetto ai primi nove mesi del 2024, quando il dato era di 1,7 miliardi), un impegno che riflette la volontà di Terna di rafforzare la rete di trasmissione e favorire l’efficienza e la sicurezza del sistema elettrico. Tra i principali progetti infrastrutturali si segnalano il Tyrrhenian Link, il collegamento sottomarino tra Campania, Sicilia e Sardegna, con una dotazione finanziaria complessiva di circa 3,7 miliardi di euro, il più esteso tra le opere in corso; l’Adriatic Link, elettrodotto sottomarino tra Marche e Abruzzo; e i lavori per la rete elettrica dedicata ai Giochi olimpici e paralimpici invernali di Milano-Cortina 2026.
L’attenzione ai nuovi sistemi di accumulo elettrico ha trovato un momento chiave nell’asta Macse, il Meccanismo di approvvigionamento di capacità di stoccaggio, conclusosi con l’assegnazione totale della capacità richiesta, pari a 10 GWh, a prezzi molto più bassi del premio di riserva, un segnale di un mercato in forte crescita e di un interesse marcato verso le soluzioni di accumulo energetico che miglioreranno la sicurezza e contribuiranno alla riduzione della dipendenza da fonti fossili.
Sul piano organizzativo, Terna ha visto una crescita nel personale, con 6.922 dipendenti al 30 settembre (502 in più rispetto a fine 2024), necessari per sostenere la complessità delle attività e l’implementazione del Piano industriale 2024-2028. Inoltre, è stata perfezionata l’acquisizione di Rete 2 S.r.l. da Areti, che rafforza la presenza nella rete ad alta tensione dell’area metropolitana di Roma, ottimizzando l’integrazione e la gestione infrastrutturale.
Sotto il profilo finanziario, l’indebitamento netto è cresciuto a 11,67 miliardi di euro, per sostenere la spinta agli investimenti, ma è ben bilanciato da un patrimonio netto robusto di circa 7,77 miliardi di euro. Il consiglio ha confermato l’acconto sul dividendo 2025 pari a 11,92 centesimi di euro per azione, in linea con la politica di distribuzione che punta a coniugare remunerazione degli azionisti e sostenibilità finanziaria.
Da segnalare anche le iniziative di finanza sostenibile, con l’emissione di un Green Bond europeo da 750 milioni di euro, molto richiesto e con una cedola del 3%, che denuncia la forte attenzione agli investimenti a basso impatto ambientale. Terna ha inoltre sottoscritto accordi finanziari per 1,5 miliardi con istituzioni come la Banca europea per gli investimenti e Intesa Sanpaolo a supporto dell’Adriatic Link e altri progetti chiave.
L’innovazione tecnologica rappresenta un altro pilastro della strategia di Terna, con l’apertura dell’hub Terna innovation zone Adriatico ad Ascoli Piceno, dedicato alla collaborazione con startup, università e partner industriali per sviluppare soluzioni avanzate a favore della transizione energetica e della digitalizzazione della rete.
La solidità del piano industriale e la continuità degli investimenti nelle infrastrutture critiche e nelle tecnologie innovative pongono Terna in una posizione di vantaggio nel garantire il sostentamento energetico italiano, supportando la sicurezza, la sostenibilità e l’efficienza del sistema elettrico anche in contesti incerti, con potenziali tensioni commerciali e geopolitiche.
Il 2025 si chiuderà con previsioni di ricavi per oltre 4 miliardi di euro, Ebitda a 2,7 miliardi e utile netto superiore a un miliardo, fra conferme di leadership e rinnovate sfide da affrontare con competenza e visione strategica.
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Il presidente venezuelano Nicolas Maduro (Getty Images)
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha ordinato alle forze armate di essere pronte ad un’eventuale invasione ed ha dispiegato oltre 200mila militari in tutti i luoghi chiave del suo paese. il ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez sta guidando personalmente questa mobilitazione generale orchestrata dalla Milizia Nazionale Bolivariana, i fedelissimi che stanno rastrellando Caracas e le principali città per arruolare nuove forze.
L’opposizione denuncia arruolamenti forzati anche fra i giovanissimi, soprattutto nelle baraccopoli intorno alla capitale, nel disperato tentativo di far credere che la cosiddetta «rivoluzione bolivariana», inventata dal predecessore di Maduro, Hugo Chavez, sia ancora in piedi. Proprio Maduro si è rivolto alla nazione dichiarando che il popolo venezuelano è pronto a combattere fino alla morte, ma allo stesso tempo ha lanciato un messaggio di pace nel continente proprio a Donald Trump.
Il presidente del Parlamento ha parlato di effetti devastanti ed ha accusato Washington di perseguire la forma massima di aggressione nella «vana speranza di un cambio di governo, scelto e voluto di cittadini». Caracas tramite il suo ambasciatore alle Nazioni Unite ha inviato una lettera al Segretario Generale António Guterres per chiedere una condanna esplicita delle azioni provocatorie statunitensi e il ritiro immediato delle forze Usa dai Caraibi.
Diversi media statunitensi hanno rivelato che il Tycoon americano sta pensando ad un’escalation con una vera operazione militare in Venezuela e nei primi incontri con i vertici militari sarebbe stata stilata anche una lista dei principali target da colpire come porti e aeroporti, ma soprattutto le sedi delle forze militari più fedeli a Maduro. Dal Pentagono non è arrivata nessuna conferma ufficiale e sembra che questo attacco non sia imminente, ma intanto in Venezuela sono arrivati da Mosca alcuni cargo con materiale strategico per rafforzare i sistemi di difesa anti-aerea Pantsir-S1 e batterie missilistiche Buk-M2E.
Dalle immagini satellitari si vede che l’area della capitale e le regioni di Apure e Cojedes, sedi delle forze maduriste, sono state fortemente rinforzate dopo che il presidente ha promulgato la legge sul Comando per la difesa integrale della nazione per la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale. In uno dei tanti discorsi alla televisione nazionale il leader venezuelano ha spiegato che vuole che le forze armate proteggano tutte le infrastrutture essenziali.
Nel piano presentato dal suo fedelissimo ministro della Difesa l’esercito, la polizia ed anche i paramilitari dovranno essere pronti ad una resistenza prolungata, trasformando la guerra in guerriglia. Una forza di resistenza che dovrebbe rendere impossibile governare il paese colpendo tutti i suoi punti nevralgici e generando il caos.
Una prospettiva evidentemente propagandistica perché come racconta la leader dell’opposizione Delsa Solorzano «nessuno è disposto a combattere per Maduro, tranne i suoi complici nel crimine. Noi siamo pronti ad una transizione ordinata, pacifica e che riporti il Venezuela nel posto che merita, dopo anni di buio e terrore.»
Una resistenza in cui non sembra davvero credere nessuno perché Nicolas Maduro, la sua famiglia e diversi membri del suo governo, avrebbero un piano di fuga nella vicina Cuba per poi probabilmente raggiungere Mosca come ha già fatto l’ex presidente siriano Assad.
Intanto il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha espresso preoccupazione per i cittadini italiani detenuti nelle carceri del Paese, sottolineando l’impegno della Farnesina per scarcerarli al più presto, compreso Alberto Trentini, arrestato oltre un anno fa.
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«Il cuculo di cristallo» (Netflix)
Federica Picchi (Imagoeconomica)