2018-12-02
Non capiamo i jihadisti perché sottovalutiamo la forza della religione
Se per noi la fede non ha importanza, non significa che sia lo stesso anche per gli altri. Nell'avanzata del terrorismo il Corano conta eccome.Lo storico Eugenio Capozzi spiega come i progressisti abbiano usato questa ideologia politica per mantenere l'egemonia.Lo speciale contiene due articoli.Ancora una volta, ci fu il silenzio. Il 14 novembre 2015, all'indomani degli attentati più sanguinosi che la Francia abbia mai conosciuto, il Paese è rimasto colpito dallo stupore. Ovunque, nonostante il divieto di manifestare, dei raduni silenziosi sono stati improvvisati. Davanti ai bar, ai ristoranti in cui gli assassini avevano svuotato i loro caricatori, così come sulla soglia del Bataclan, la sala da concerto che era stata teatro della carneficina, ciascuno era venuto per raccogliersi, accendere una candela, depositare dei fiori. Senza dire una parola. Questo silenzio ne richiamava ricordava un altro, altrettanto profondo. All'inizio dell'anno 2015, gli attacchi contro Charlie Hebdo e l'Hypercacher della Porte de Vincennes avevano imposto non solo il terrore ma anche il mutismo. La sera del 7 gennaio, soltanto poche ore dopo l'attacco sanguinoso contro il settimanale satirico, una folla si era raggruppata spontaneamente Place de la République a Parigi. Oramai regnava il silenzio. È stato ancora più impressionante, quattro giorni dopo, quando milioni di persone hanno sfilato attraverso il paese. Era l'11 gennaio. Poco o niente striscioni, quasi nessuno slogan. Se gli attacchi fossero stati rivendicati da un nemico politico conosciuto, a cominciare da un movimento di estrema destra, le cose sarebbero state molto diverse, le parole d'ordine già trovate. Ma, in questo caso, protestare contro chi? Manifestare per cosa? Questo silenzio rifletteva quindi dapprima un immenso senso di smarrimento, un'impossibilità di nominare il colpevole. […]Al di là delle sue motivazioni politiche, questo silenzio è un sintomo di una cecità più profonda, che riguarda la relazione che molti di noi, qualunque sia la sensibilità ideologica, intrattengono con la religione. Ciò che è in gioco, è ormai la nostra reticenza a considerare la fede religiosa come causalità specifica, e soprattutto come un potere politico: aderiamo spontaneamente alle spiegazioni sociali, economiche o psicologiche; ma alla fede, nessuno ci crede. Cerchiamo di essere chiari: non si tratta ovviamente di negare che il jihadismo abbia cause geopolitiche o socio-economiche. Ignorando costantemente la sua dimensione strettamente religiosa, tuttavia, tralasciamo la sua singolarità. Una violenza che viene esercitata nel nome di Dio non è una qualsiasi violenza. E ciò che dovrebbe sorprenderci, o preoccuparci, non è che l'islamismo armato abbia radici sociali, ma piuttosto che manifesti una evidente autonomia in relazione ad esse. […]Tale è la forza del pregiudizio: ogni volta che la realtà gli apporta una smentita, cadiamo dalle nuvole... senza cambiare nulla alle nostre idee. Nel nostro immaginario comune, quindi, i giovani che si uniscono alla galassia jihadista sono necessariamente persi, hanno per forza smarrito la strada. Oppure degli ignoranti. Perché anche quando riconosciamo che questi combattenti sono mossi da un credo, generalmente lo riduciamo ad uno stupido fanatismo o una follia barbara. Eredi di una tradizione associata all'ideale illuminista, opponiamo sistematicamente il credo zelante al sapere razionale; associamo spontaneamente l'impegno dogmatico alla mancanza di educazione. Certo, quando si esamina la confessione finale di tale o tale islamista kamikaze, convinto che settantadue vergini lo aspettano in paradiso, si crede di assistere ad un puro delirio; quando si legge la testimonianza di un giovane combattente francese di Aleppo, che assicura che dai cadaveri dei martiri in Siria emana un delizioso profumo di muschio, si ha voglia di evocare la pazzia. Ma tutto cambia se vediamo in questo discorso il risultato di un lungo viaggio intimo, in cui ogni passo implica una rivolta logica, una certezza rafforzata. Da quel momento in poi, il jihadista non apparirà più come un diseredato o uno sciocco, ma piuttosto come un oltranzista della verità. Poco importa, inoltre, se sia o meno un grande studioso: gli uomini che guidarono le guerre di religione nell'Europa del XVI secolo non erano tutti grandi teologi, ma tutti erano certi di condurre una battaglia comune! Allo stesso modo, ciò che collega due jihadisti nati in contesti e continenti diversi, il primo proveniente dalla borghesia nigeriana e il secondo da una modesta famiglia francese, uno musulmano di origine e l'altro convertito, sono essenzialmente dei testi, degli atti e una fede identici. Indipendentemente dalla loro nazionalità, dalle loro origini sociali e dal loro bagaglio culturale, hanno in comune uno stesso percorso nell'indignazione, nella ribellione e nella speranza. Se questo percorso li conduce fino a Mosul, e sono pronti a lasciarci la loro vita, non è certo estraneo al loro credo: giorno dopo giorno, e in tutte le lingue, dei predicatori jihadisti evocano le profezie che hanno annunciato l'avvento del Regno di Dio in questa regione della terra. [...]L'ascesa dell'Islam politico mette a nudo la nostra cecità su queste problematiche. Di fronte all'islamismo, al pericolo jihadista, scopriamo, attoniti, il nostro smarrimento. Ormai, non solo siamo convinti che la religione appartenga al passato, ma l'idea stessa che possa avere una forza politica propria ci sembra stravagante. Quando degli uomini si richiamano a Dio per seminare il terrore nel cuore di Parigi, ci affrettiamo a descrivere il loro gesto come un'assurdità, come una follia che non ha più nessuna ragione d'essere. [...] La sinistra ha adottato tre diversi atteggiamenti nei confronti della religione. In primo luogo, poteva consistere nel manifestare un odio assoluto nei confronti di credenze che denunciava come fondamentalmente reazionarie. In secondo luogo, alle volte, poteva guardare a queste credenze con una certa empatia, considerando che testimoniassero un mezzo di ribellione per gli oppressi; in questo caso la lotta per l'emancipazione doveva unire colui che crede nel cielo e colui che non ci crede. Infine, poteva coltivare l'indifferenza. Ma in ogni caso, che abbia tentato di fustigare la religione, che abbia tentato di strumentalizzarla o che abbia fatto come se niente fosse, la sinistra ha spesso rifiutato di prendere sul serio il fatto spirituale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-capiamo-i-jihadisti-perche-sottovalutiamo-la-forza-della-religione-2622082472.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-politicamente-corretto-arma-di-potere" data-post-id="2622082472" data-published-at="1757417914" data-use-pagination="False"> «Il politicamente corretto? Arma di potere» Eugenio Capozzi insegna Storia contemporanea all'università Suor Orsola Benincasa di Napoli e, per l'editore Marsilio, ha appena pubblicato un libro importante e coraggioso, dedicato a uno dei temi più rilevanti e delicati del nostro tempo. Si intitola Politicamente corretto. Storia di un'ideologia. Professore, qual è sua definizione di «politicamente corretto»? «Credo che il politicamente corretto non sia solo la retorica vuota di cui spesso si parla e si scrive. È, piuttosto, la della punta dell'iceberg di una vera e propria ideologia. Se non si riconosce questo si fa fatica a capire gli eccessi, le intolleranze e gli aspetti estremi della retorica politicamente corretta». Di che ideologia stiamo parlando? «Ritengo che si tratti dell'estrema manifestazione del progressismo, inteso come ideologia neo gnostica che prevede di portare la felicità sulla terra attraverso un progetto politico. Il neo progressismo a cui il politicamente corretto fa riferimento nasce con la ribellione generazione degli anni Sessanta e diventa l'ideologia dominante delle classi dirigenti dell'ultimo mezzo secolo. È per certi versi un'ideologia ancora più radicale di quelle dell'Ottocento e del primo Novecento». Perché secondo lei? «Le ideologie otto-novecentesche puntavano alla costruzione dell'uomo nuovo attraverso l'organizzazione politica e l'ingegneria sociale. Il neo progressismo, dal tardo Novecento ai giorni nostri, punta innanzitutto a un rivolgimento culturale e psicologico. Vuole cambiare la mentalità, la mente delle persone. Questo perché ritiene che la cultura europea e occidentale sia strutturalmente fondata sul dominio, sulla discriminazione e sull'imperialismo. E quindi ritiene che, una volta cambiata la mentalità e abbandonata la cultura occidentale, saranno eliminati motivi di conflitto tra esseri umani e ci sarà una convivenza naturalmente armoniosa. In sostanza, questo neo progressismo vuole sostituire alla storia e alla cultura occidentale un relativismo radicale». Dove e come nasce questa ideologia? «Ha delle radici profonde, perché la corrosione relativistica della cultura occidentale comincia già alla fine dell'Ottocento. L'elemento decisivo, tuttavia, è successivo: è la crisi del marxismo iniziata con al fine dello stalinismo, cioè con il crollo della grande promessa di una umanità nuovo. Contemporaneamente a questa crisi del marxismo c'è stata la rivolta generazioanle dei baby boomers occidentali degli anni Sessanta. Questi sono i due elementi che, coagulati, hanno prodotto il tipo di progressismo di cui il politicamente corretto è la retorica ufficiale. Stiamo parlando di una ideologia che non è codificata, che non ha il suo “libretto rosso". Si diffonde con mezzi diversi rispetto al passato, soprattutto con l'intrattenimento e le cultura di massa. Ma ciò non toglie che abbia un fondamento ferreo, che è proprio il relativismo radicale che si è affermato in maniera decisa a partire dagli anni Sessanta. Ma c'è un aspetto ancora più importante». Quale? «Il neo progressismo che si incarna nella retorica del politicamente corretto è ideologia nel senso marxiano, cioè espressione degli interessi di una classe sociale. È la falsa coscienza, il racconto ipocrita che nasconde interessi molto precisi, ovvero quelli delle classi sociali che sono diventate dominanti dagli anni Sessanta e Settanta a oggi». La famigerata élite... «Sostanzialmente parliamo della borghesia della conoscenza, l'élite tipica delle società globalizzate e internazionalizzate. Parliamo dei vincenti della modernità liquida. Sono i baby boomers e i loro figli che hanno avuto accesso ai ruoli più alti del sistema politico, mediatico e culturale. Questo blocco di classi dominanti ha adottato il politicamente corretto come catechismo per esercitare il proprio potere». Però delle storture del politicamente corretto si parla da tempo. Persino i progressisti se ne sono accorti. Eppure sembra che questa ideologia continui a essere presente, e forte. «Oggi ci troviamo in un momento estremamente incerto e cruciale. Queste classi dominanti di cui parlavo hanno egemonizzato non solo i gradi alti della società ma anche la cultura di massa, l'educazione e l'informazione. Hanno imbevuto i media di politicamente corretto. Ora sono sfidate da forze molto diverse tra loro, ma che sono convergenti nell'opposizione. Non sono in grado di dire quale sarà l'esito di questo scontro. Però c'è un dato fondamentale che dobbiamo tenere presente». Quale? «La civiltà occidentale in quanto tale si è auto relativizzata. Si è ripiegata su sé stessa, proprio a causa di questa cultura dominante, e oggi è meno rilevante nel mondo di quanto lo fosse 50 anni fa. Si è ripiegata culturalmente, politicamente, economicamente, demograficamente. Le classi dirigenti si sono indebolite non solo all'interno dell'Occidente: hanno meno rilevanza globale. Lo dimostra il fatto che le dottrine del politicamente corretto vengano osteggiate in alcune aree del mondo. Ci sono culture che non ne vogliono sapere di farsi permeare da questa ideologia. In queste cultura, a differenza che da noi, non prevale il relativismo radicale. Questo potrebbe anche essere un segnale positivo. Ma indica una debolezza di fondo dell'Occidente. Queste classi dirigenti di cui parlavo probabilmente stanno tramontando. Ma se lo faranno, lasceranno al loro posto un panorama di rovine non facilmente ricostruibili». Vediamo se ho capito bene. Se anche le élite che hanno imposto il politicamente corretto dovessero crollare, le nuove generazioni non è detto che sappiamo ricostruire una civiltà occidentale forte. Forse dipende anche dal fatto che le nuove generazioni sono cresciute imbevute di politicamente corretto. «Esatto. La caduta dell'impero è difficile che lasci il campo a una cultura alternativa dotata di pari forza di penetrazione. Almeno, per ora i non la vedo all'orizzonte. È vero che nei movimenti culturali che stanno nascendo ci sono molti aspetti interessanti. Negli anni Ottanta e Novanta i critici del politicamente corretto erano slegati tra loro, non facevano massa critica. Oggi i critici del multiculturalismo e dell'edonismo biopolitico cominciano a costituire una rete rilevante. Ma è presto per dire se potranno diventare cultura egemone. Non voglio però essere del tutto pessimista. Le generazioni giovani cresciute con il politicamente corretto - proprio come altre generazioni che sono state sottoposte alla propaganda di ideologie totalitarie - maturano una sorta di scetticismo di fondo. È una cosa che noto un po' da genitore e un po' da osservatore dei giovani. Quando si è esposti a una tale pressione propagandistica si matura una impermeabilità. Sotto la scorza del conformismo resta un nocciolo duro di convinzione che la propaganda non può facilmente scalzare». Non resta che sperare.