2022-08-01
«Noi produttori di qualità abbiamo in Italia i nostri franchi tiratori»
Il presidente del consorzio del Gorgonzola Antonio Auricchio: «I latticini nostrani devono essere talmente buoni da costringere i consumatori a ignorare gli altri».Antonio Auricchio, storico produttore di pregiati formaggi, che cosa pensa di concetti come «denominazione di origine inventata»? Quell’«inventata» affermato con tanta nonchalance lascia allibiti.«Sono allibito anche io. L’aspetto positivo è che in Italia c’è libertà totale, visto che si dicono queste fandonie, solo apparentemente consapevoli della vita di un prodotto o di un settore così delicato e al contempo così importante come quello caseario italiano e, in generale, del cibo».Presidente, i numeri parlano chiaro: 400 varietà di formaggi, una produzione 2021 di 1,3 miliardi di chili, di cui 590 milioni relativi ai 53 formaggi Dop. Un export con incremento fisso annuo del 7%...«Che è un miracolo».E non solo in Unione europea, perfino in Asia, terra tipicamente non adusa al latte!«Vero...».I nostri formaggi sono eccellenze che vincono sul mercato italiano e straniero. È un primato mondiale.«Per questo motivo siamo contestati e invidiati, anche in Italia ci sono franchi tiratori. Sul mercato italiano ci sarebbe ancora molto da fare: abbiamo numeri buoni, ma siamo ancora contratti. Abbiamo grande capacità di produrre formaggi buoni, genuini e, dal punto di vista sanitario, molto tranquilli, che possono essere usati da tutti compresi bambini e anziani. L’Italia presenta questa genialità nella produzione di formaggi tanto diversi, dal Grana padano al Gorgonzola, che dimostrano l’importanza del territorio, della cultura e della storia. Non solo nei formaggi Dop, anche se i Dop dovrebbero essere la punta di diamante. Il dolce più mangiato al mondo oggi è il tiramisù e noi abbiamo la soddisfazione di esportare mascarpone anche in Cina».Prima ha detto «cultura». Formaggi vaccini, caprini, ovini, bufalini e misti, freschi, a pasta filata, stagionati o erborinati, come il Gorgonzola Dop del cui consorzio lei è presidente. Sul Palazzo della Civiltà italiana a Roma c’è la scritta «Italia, popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e trasmigratori», quasi tutte professionalità culturali. Aggiungiamo «e grandi casari», con valenza culturale?«Lo metterei. Nei miei viaggi in Africa, mischiando il latte di cammello, molto magro, con il latte di capra, ho fatto formaggini che i tuareg apprezzavano molto. Siamo grandi casari, maestri casari, ma anche grandi ghepardi, perché il ghepardo è velocissimo a prendere la preda, ma non la sa difendere. Se non fossimo ghepardi, il termine “parmesan” non ci porterebbe via quote di mercato. Negli Stati Uniti ho visto caseifici del Nord che producono “gorgonzola”, perché quella parola non è stata brevettata. Il “romano”, nel Wisconsin, fatto con latte americano, il “pravolone”... Ci stiamo facendo portar via la preda incredibile del made in Italy. A livello giuridico non si può far niente, ma con la maestria dei grandi casari possiamo fare un formaggio talmente più buono di questi, che la gente compra perché sente la differenza. Sto proponendo ai soci Afidop di andare a certe fiere anche per mostrare la differenza tra il “gorgonzola” fatto in Wisconsin e la realtà italiana. La via vincente è questa, rendere i nostri formaggi ancora più buoni del buono che sono. Poi, spiegare che lo stracchino si chiama così dal termine lombardo stracco, che vuol dire “stanco”, e veniva prodotto con il latte delle vacche che tornavano dalle malghe stanche. E il salva cremasco era fatto per salvare il latte che all’inizio della lattazione non andava bene». I critici dei Dop e, in generale, dell’accezione territoriale della cucina, amplificano tutto quello che prima della cristallizzazione di una ricetta o di un disciplinare era da questi differente, adducendolo come esempio di «falsità» della ricetta o della territorialità della cucina stessa. Faccio un esempio: molti si stupiscono che il Pecorino romano Dop sia prodotto, oggi, perlopiù in Sardegna e la stessa etichettatura di origine, «romano», è percepita come falsificante. In realtà, quando nel 1884 ci fu il divieto di salagione nelle mura capitoline molti casari, costretti a trasferirsi, scelsero la Sardegna. Lì, in poco tempo, il pecorino divenne più abbondante del fiore sardo pastorale. «Verissimo».La Dop è del 2001. Il disciplinare una volta prevedeva una doppia dicitura, Pecorino romano Dop genuino e Pecorino sardo romano. Poi si è abolita la distinzione. Ora la dicitura è Pecorino romano del Lazio. La cultura è anche movimento, che può essere storico o geografico, e una ricetta o un disciplinare non lo escludono, anzi lo accolgono.«Per far smettere di parlare i franchi tiratori io lo chiamo il “pecorino dei romani”: gli antichi Romani delle legioni si sostentavano con il sale del pecorino, perciò era così salato. La Sardegna vive di pastorizia, il pastore è uno stato sociale e simbolo della Sardegna e questo va salvaguardato. Il Pecorino romano si fa in Sardegna, in Toscana, nel Lazio e questa non è una limitazione, ma una grandezza. Dimostrazione di italianità, come è per il Parmigiano reggiano che si fa anche in Lombardia. Sono discorsi culturali e storici». Con il van di Dop&Go a fine giugno avete attraversato mezza Italia per un tour alle scoperta di Asiago Dop, Gorgonzola Dop, Pecorino sardo Dop e Taleggio Dop, una formula innovativa rivolta a divulgare la cultura dei Dop anche ai giovani. Ce ne parla?«È stata una cosa interessante e moderna che i consorzi hanno voluto e devo ringraziare anche il ministro Patuanelli, che spero rimanga come ministro, per aver capito l’importanza dell’aiuto del ministero. È ora di smetterla di pensare che si cerchino solo soldi, noi dobbiamo trovare un dialogo con i giovani. La tv resta importante, ma lo sono anche i social network per comunicare con loro. Mi arrabbio quando sento dire che il Gorgonzola è apprezzato dai 40 ai 65 anni, se tu insegni a un giovane la ricetta svuotafrigo - l’abbiamo fatta nel periodo del lockdown - o come farci un aperitivo, il giovane apprezza questa polivalenza. I Dop non sono stancamente tradizionali: sono moderni, ma allo stesso tempo raccolgono una storia e una cultura millenarie. La Dop protegge la genialità antica ma si adegua ai tempi moderni».A proposito di adeguarsi, cosa pensa di chi chiede l’adeguamento che sfonda il confine nazionale, ossia chi vorrebbe il Dop italiano fatto con latte tedesco o austriaco e così via? Io penso che il Pecorino romano fatto con latte sardo sia storicamente veritiero, un formaggio Dop italiano fatto con latte tedesco no...«Lo è perché la Sardegna è italiana. Le Dop tutelano il territorio anche dal punto di vista dell’alimentazione degli animali. Nella zona del Parmigiano reggiano usiamo latte che proviene da bovine nate nella zona e allevate con mangime locale strettamente controllato dal consorzio. Un Pecorino romano fatto con latte di pecora rumeno non puoi chiamarlo né Pecorino romano né “pecorino rumeno” perché non c’entra niente con il Dop. Io non contesto il latte straniero, ma il latte cattivo. Con un buon latte straniero posso fare un prodotto buono, ma sicuramente non lo posso chiamare con il nome di un Dop perché il Dop ha confini specifici. Come non si può dire Gorgonzola di bufala o di pecora se si usa il latte di bufala o di pecora, perché nel disciplinare c’è scritto che il Gorgonzola può esser fatto solo con latte vaccino proveniente da Lombardia e Piemonte. Tutela e apertura al mondo, ma con criterio».A chi sostiene che il Dop sia una gabbia mi viene da dire che non viviamo in una dittatura casearia per cui si può produrre solo il Dop, si produce e si vende tutto. In alcuni casi di scarsità di materia prima italiana i consorzi già prevedono il ricorso a quella straniera, come è per esempio per la bresaola della Valtellina Igp. Non è vero che le etichettature di origine sono sempre e solo un impedimento...«Impedimento? Al contrario. Consorzi ed etichette di origine sono gli angeli custodi dei consumatori. Noi siamo considerati nel mondo tra i migliori produttori di caffè, siamo bravissimi a tostarlo e a fare del caffè un’eccellenza assoluta italiana, ma non abbiamo le piantagioni di caffè. Lo scopo del consorzio è proteggere le denominazioni e vigilare sulla produzione e sulla qualità con controlli severissimi perché il consumatore finale, il mio referente, abbia il prodotto come deve essere». La mia impressione è che sia tutto molto più elastico di quanto i franchi tiratori, come li chiama lei, narrino. Per esempio, il Gorgonzola è un esempio di formaggio transregionale. E, dopo parecchio tempo, con lei la presidenza del consorzio è tornata in terra lombarda: si fa come con i figli, un po’ con il papà e un po’ con la mamma?«Prima di questa presidenza, non ho mai accettato troppe cariche. Amo intervenire solo per scopi sociali, sono stato folgorato da Madre Teresa di Calcutta e questa guerra fratricida tra Russia e Ucraina mi sconvolge, come tutti i casi di violenza. La mia grande soddisfazione è stata essere scelto come presidente perché mi hanno visto come una persona che difende tutti i consorziati, dal piccolo al grande, e il prodotto nella sua essenza. Anche il vescovo di Novara mi ha quasi benedetto e io ho promesso di fare con grande impegno, impulso e passione perché amo il formaggio e amo tutta la sua trafila, dal maestro casaro all’agricoltore. Io vado a mangiare il latte con i miei produttori, vado a vedere le mucche nelle stalle. Amo il dialogo e amo capire prima di parlare, come diceva Terenzio: “Sono un uomo e devo conoscere tutto quello che riguarda l’umanità”. Altrimenti aveva ragione il Mahatma Gandhi che chi dà troppa confidenza alla propria lingua dice idiozie, come fa chi infanga e svilisce i prodotti Dop senza conoscerli».I formaggi, come prodotto animale, subiscono anche l’attacco del mondo vegano che vorrebbe imporre il veganesimo a tutti gli esseri umani, soddisfatti con prodotti fintoanimali cosiddetti «plant based», e lasciar vivere gli animali allo stato brado. Una visione assolutistica che lascia intendere che solo il vegano avrebbe a cuore il benessere animale. Ma esiste anche un’etica del carnivorismo: sia del consumo, sia della produzione. Invece gli allevatori e i consumatori spesso vengono chiamati assassini dai vegani.«Da anni andiamo nelle stalle a insegnare cosa vuol dire benessere animale, anche nei piccoli particolari, con i veterinari. Noi dobbiamo ragionare, come mi hanno insegnato i veri vegani tanti anni fa, in Gujarat, in India. Mi portavo sempre degli Auricchietti sotto vuoto e l’olio di oliva, andavo in un ristorante dove facevano il riso e tiravo fuori formaggio e olio. Quando hanno capito che era vegetale, hanno acconsentito all’olio, ma per il formaggio mi han detto: “In questo ristorante non può consumare formaggio o carne, ma fuori sì, fuori è libero”. Questo è un modo di ragionare. Non è che chi mangia formaggio o carne è un assassino o un criminale: è una scelta, diversa. Chi vuol mangiare solo le bacche, le mangi: io rispetto questa libertà, ma anche costoro devono rispettare il carnivoro, senza criminalizzare qualcosa che non è criminale. In un mondo così grande si può vivere ognuno con le proprie idee». In India il veganesimo è anche un’impostazione spirituale-religiosa, non c’è dietro la multinazionale del prodotto «plant based» che per affermarsi spesso fa disinformazione, come quando si sostiene che il cibo vegano sia più sano. Ma se togliamo il latte a un bambino...«Rimane piccolo! Mi sono stancato di sentire cose che non hanno un fondamento scientifico. Il mondo è divertente perché tutti dicono la loro, va bene, ma non bisogna rovinare ciò che l’uomo ha costruito con millenni di fatica, come salumi e formaggi antichi come il mondo. Stiamo inacerbando un discorso che non andrebbe esasperato». Un altro attacco viene dal Nutriscore. Perché come Afidop avete detto no?«Perché la salubrità di un prodotto dipende da quanto ne mangi, sto male anche se mangio 10 chili di insalata». Anche un chilo di ceci non ci fa benissimo, se poi ce li mangiamo crudi finiamo direttamente all’ospedale...«Noi dobbiamo spiegare, anche nelle etichette, come va usato un prodotto. Se si mangia una sana cacio e pepe e poi un’insalata, nessuno morirà. Le etichette a semaforo sono umilianti».È un’umiliazione anche in senso letterale, perché il semaforo riduce le complessità di ricette e prodotti a una semplificazione indotta. Se mi abituo a scegliere cosa mangiare tramite un semaforo, non sono più in grado di ragionare.«Dovrebbe essere possibile parlare con queste controparti come stiamo facendo io e lei, ciascuno esponendo le proprie idee. Anche con i vegani, noi dovremmo poter parlare senza litigare, senza questa guerra di fondo che conducono contro un’intera filiera, partendo dall’allevatore che si spacca la schiena per produrre un buon latte».Dovremmo chiedere ai vegani locali di ispirarsi a quelli indiani... Qual è il suo formaggio preferito?«Beh, se non dicessi il provolone Auricchio sarei fustigato da mio padre in cielo. Ho sempre mangiato tantissimo provolone, tanta mozzarella di bufala e tanto Parmigiano reggiano. Ultimamente sto sostenendo che il mio formaggio preferito è in un certo piatto: non amavo il Bagòss bresciano, ma da un cuoco che poi è diventato mio amico mangio questo risotto Bagòss e finferli che è la fine del mondo. Il mio formaggio preferito dipende dal giorno: stasera mangerò un riso mantecato con il salva cremasco e noci di gorgonzola piccante. Ho mangiato una fontina in Val d’Aosta che mi sembrava da volar via. Fin da bambino, prima di andare a letto mangio un pezzetto di provolone nero. I formaggi sono tutti buoni, non solo i Dop. Io mangio anche il branzi, che non è un Dop, vorrei che lo fosse, è straordinario».E qual è la sua ricetta preferita con il gorgonzola?«Questo riso al gorgonzola di cui parlavo prima è mitico. Si manteca con il salva cremasco, formaggio che mi piace definire il Castelmagno della Pianura padana, perché come quello amalgama e insaporisce il riso, poi il gorgonzola piccante aggiunge sprint».