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2018-05-11
«Noi li accogliamo e loro finanziano la jihad»
«Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio.
Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo».
La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase».
Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa.
Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili.
L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo.
Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest.
In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore.
Giacomo Amadori
Un indagato ha confessato «Dall’Italia compriamo mirini per i kalashnikov»
«Chi si presta a fare il kamikaze deve amare la religione e non avere paura della morte. Egli è una persona diversa dalle altre, ma tutti sanno che andando a morire andrà in Paradiso sulla strada giusta (...) comunque quello che vince la guerra è colui che va a morire e non gli altri». A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro.
Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza.
Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».
Fabio Amendolara
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Dodici arrestati e un latitante per riciclaggio e terrorismo: mandavano soldi in Siria. Spediti 2 milioni con l'hawala, sistema islamico. Gli inquirenti: «Denaro raccolto nelle comunità musulmane. Niente attentati perché serviamo per il passaggio dei foreign fighters». Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015 confessa: «Fondi trovati anche grazie al traffico di migranti dall'Ungheria. Chi veniva scoperto, dopo due mesi di galera era già libero». Lo speciale contiene due articoli. «Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio. Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo». La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase». Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa. Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili. L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo. Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest. In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore. 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A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro. Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza. Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».Fabio Amendolara
Il meccanismo si applica guardando non a quando è stato pagato il riscatto, ma a quando si maturano i requisiti per l’uscita anticipata: nel 2031 non concorrono 6 mesi tra quelli riscattati; nel 2032 diventano 12; poi 18 nel 2033, 24 nel 2034, fino ad arrivare a 30 mesi nel 2035. La platea indicata è quella del riscatto della «laurea breve», richiamata anche come diplomi universitari della legge 341/1990. La conseguenza pratica è che il riscatto continua a «esistere» come contribuzione accreditata, ma diventa progressivamente molto meno efficace come acceleratore del requisito contributivo. Con una triennale piena (36 mesi) il taglio a regime dal 2035 (30 mesi) lascia, per l’anticipo del diritto, un vantaggio residuo di appena 6 mesi; nel 2031, invece, la sterilizzazione è limitata a 6 mesi e, quindi, restano utilizzabili 30 mesi su 36 per raggiungere prima la soglia. Il punto che rende la stretta economicamente esplosiva è che il costo del riscatto non viene rimodulato. Nel 2025, per il riscatto a costo agevolato, l’Inps indica come base il reddito minimo annuo di 18.555 euro e l’aliquota del 33%, da cui deriva un onere pari a 6.123,15 euro per ogni anno di corso riscattato (per le domande presentate nel 2025).
In altri termini: si continua a pagare secondo i parametri ordinari dell’istituto, ma una fetta crescente di quel «tempo comprato» smette di essere spendibile per andare prima in pensione con l’anticipata. La contestazione più immediata riguarda l’effetto «a scadenza»: chi ha già riscattato oggi, ma maturerà i requisiti dopo il 2030, potrebbe scoprire che una parte dei mesi riscattati non vale più come si aspettava per centrare prima l’uscita dalla vita lavorativa.
La norma, in realtà, è destinata a creare dibattito politico. «Non c’è nessunissima intenzione di alzare l’età pensionabile», ha detto il senatore della Lega. Claudio Borghi, «e meno che mai di scippare il riscatto della laurea. Le voci scritte in legge di bilancio sono semplici clausole di salvaguardia che qualche tecnico troppo zelante ha inserito per compensare un possibile futuro aumento dei pensionamenti anticipati, che la norma incentiva sfruttando la possibilità data dal sistema 64 anni più 25 di contributi inclusa la previdenza complementare. Quello che succederà in futuro verrà monitorato di anno in anno ma posso dire con assoluta certezza che non ci sarà mai alcun aumento delle finestre di uscita o alcuno scippo dei riscatti della laurea a seguito di questa norma». «In assenza di intervento immediato del governo, noi sicuramente presenteremo emendamenti», conclude il leghista. A spazzare via ogni dubbio ci ha pensato il premier, Giorgia Meloni: «Nessuno che abbia riscattato la laurea vedra’ cambiata la sua situazione, la modifica varra’ per il futuro, in questo senso l’emendamento deve essere corretto» a detto in Senato.
Dal canto suo, il segretario del Pd, Elly Schlein, alla Camera, ha subito dichiarato la sua contrarietà all’emendamento. «Ieri (due giorni fa, ndr) avete riscritto la manovra e con una sola mossa fate una stangata sulle pensioni che è un furto sia ai giovani che agli anziani. È una vergogna prendervi i soldi di chi ha già pagato per riscattare la laurea: è un’altra manovra di promesse tradite. Dovevate abolire la Fornero e invece allungate l’età pensionabile a tutti. Non ci provate, non ve lo permetteremo».
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(IStock)
Novità anche per l’attività delle forze dell’ordine. Un emendamento riformulato dal governo prevede che anche gli interventi di soccorso promossi da polizia e carabinieri, a partire dal prossimo anno, andranno «rimborsati» se risulteranno non «giustificati», ovvero se dietro sarà rinvenuta l’ombra del dolo o della colpa grave di chi è stato soccorso. La stretta era stata già prevista nel testo uscito dal Consiglio dei ministri il 17 ottobre ma era limitata a uomini e mezzi della Guardia di finanza, ora con questa proposta di modifica viene estesa agli interventi effettuati dagli altri due corpi. Dal 2026 la richiesta di aiuto che verrà rivolta a polizia di Stato e Arma dei carabinieri, impegnati nel soccorso alpino e in quello in mare, andrà giustificata e motivata. E se non ci sarà una motivazione adeguata e reale la ricerca, il soccorso e il salvataggio in montagna o in mare diventeranno tutte operazioni a pagamento. Non solo. Il contributo sarà dovuto anche da chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi appartenenti alla polizia di Stato e all’Arma. L’importo sarà stabilito con decreti dal ministro dell’Interno e da quello della Difesa, di concerto con l’Economia. L’emendamento precisa, infine, che «il corrispettivo è dovuto qualora l’evento per il quale è stato effettuato l’intervento sia imputabile a dolo o colpa grave dell’agente».
Nessuna novità, invece, per maggiori fondi, che restano rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura d’infrazione. I sindacati di polizia continuano a martellare l’esecutivo dicendo che «per il governo la sicurezza è uno slogan adatto ai discorsi pubblici ma non è una priorità quando si tratta di mettere in campo risorse concrete». In una lettera inviata da Sap, Coisp-Mosap, Fsp Polizia, Silp-Cgil al presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, si attacca «l’ipotesi di un innalzamento dell’età pensionabile, inaccettabile per chi ha trascorso una vita professionale tra rischi e responsabilità enormi e si pretende di allungare ulteriormente la carriera dei poliziotti senza alcun confronto con i sindacati». Per i sindacati è anche «grave, lo stanziamento simbolico di appena 20 milioni di euro per la previdenza dedicata. Una cifra che condanna molti a pensioni indegne dopo una vita spesa al servizio dello Stato».
Intanto hanno avuto il via libera in commissione Bilancio una serie di modifiche alla manovra sui temi di interesse comune alla maggioranza e all’opposizione in materia di enti locali e calamità naturali. In totale sono 64 gli emendamenti. Tra questi, la possibilità di assumere a tempo indeterminato il personale in servizio presso gli Uffici speciali per la ricostruzione e che abbia maturato almeno tre anni di servizio. Arriva anche un contributo di 2,5 milioni per il 2026 per il disagio abitativo finalizzato alla ricostruzione per i territori colpiti dai terremoti in Marche e Umbria.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha sottolineato i maggiori fondi per la sanità. «Sul fronte del personale», ha detto, ci sono degli aumenti importanti e delle assunzioni aggiuntive. Le Regioni possono assumere con il Fondo sanitario nazionale che viene ripartito tra di loro».
Soddisfatto il presidente di Farmindustria, Marcello Cattani. La manovra, infatti, contiene +7,4 miliardi per il Fondo sanitario nazionale e un ulteriore +0,1% che consente di far scendere il payback a carico delle aziende farmaceutiche. «Il segnale è ampiamente positivo», ha commentato Cattani.
Intanto ieri alla Camera, nel dibattito sulle comunicazioni alla vigilia del Consiglio europeo, c’è stato un botta e risposta tra la segretaria del Pd, Elly Schlein, e Meloni. Tema: le tasse e la manovra. «La pressione fiscale sale perché sale il gettito fiscale certo anche grazie al fatto che oggi lavora un milione di persone in più che pagano le tasse», ha detto il premier. E a fronte del rumoreggiamento dell’Aula, ha incalzato: «Se volete facciamo un simposio ma siccome siamo in Parlamento le cose o si dicono come stanno o si studia».
Ma per Schlein «le tasse aumentano per il drenaggio fiscale». Il premier ha, poi, ribadito che la manovra «è seria» e che «l’Italia ha ampiamente pagato in termini reputazionali, e non solo, le allegre politiche degli anni passati».
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Il direttore di Limes, Lucio Caracciolo (Imagoeconomica)
«A tutto c’è un Limes». E i professoroni se ne sono andati sbattendo la porta, accompagnati dal generale con le stellette e dall’eco della marcetta militare mediatica tutta grancassa e tromboni, a sottolineare come fosse democratica e dixie la ritirata strategica da quel covo di «putiniani sfegatati». La vicenda con al centro la guerra in Ucraina merita un approfondimento perché è paradigmatica di una polarizzazione che non lascia scampo a chi semplicemente intende approfondire i fatti. Nell’era del pensiero igienista, ogni contatto con il nemico e ogni lettura (anche critica) dei testi che egli produce sono considerati contaminanti.
Già la narrazione lascia perplessi e l’uscita dei martiri da un consiglio scientifico che vede nelle sue file Enrico Letta, Romano Prodi, Andrea Riccardi, Angelo Panebianco, Federico Fubini (atlantisti di ferro più che compagni di merende dello zar) indebolisce le ragioni dei transfughi. Se poi si aggiunge che in cima al comitato dei saggi della rivista campeggia il nome di Rosario Aitala - il giudice della Corte penale internazionale che due anni fa firmò un mandato di cattura per Vladimir Putin - ecco che le motivazioni del commando in doppiopetto si scaricano in fretta come le batterie dell’auto full electric guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure Federico Argentieri (studioso di affari europei), Franz Gustincich (giornalista e fotografo), Giorgio Arfaras (economista) e Vincenzo Camporini (ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica) hanno preso la porta e hanno salutato Lucio Caracciolo con parole stizzite per «incompatibilità con la linea politica». Avvertivano una «nube tossica» aleggiare su Limes. Evidentemente non sopportavano che ogni dieci analisi filo-occidentali ce ne fossero un paio dedicate alle ragioni russe. Un’accusa pretestuosa al mensile di geopolitica più importante d’Italia e a uno storico direttore che in 30 anni si è guadagnato prestigio e indipendenza pur rimanendo nell’alveo del grande fiume navigabile (e spesso limaccioso) della sinistra culturale.
«Io quelli che se ne sono andati non li ho mai visti. Chi ci accusa di essere filorusso non ha mai sfogliato la rivista», ha dichiarato il giornalista Mirko Mussetti a Radio Cusano Campus. Dietro le rumorose dimissioni ci sarebbero cause tutt’altro che culturali, forse di opportunità. Arfaras è marito della giornalista russa naturalizzata italiana Anna Zafesova, studiosa del putinismo, firma della Stampa e voce di Radio Radicale. Il generale Camporini ha solidi interessi politici: già candidato di + Europa, è passato con Carlo Calenda e ha tentato invano la scalata all’Europarlamento. Oggi è responsabile della difesa dell’eurolirica Azione. La tempistica della fibrillazione è sospetta e chiama in causa anche le strategie editoriali. Limes fa parte del gruppo Gedi messo in vendita (in blocco o come spezzatino) da John Elkann; la rivista è solida, quindi obiettivo di qualcuno che potrebbe avere interesse a destabilizzarne la catena di comando.
Ieri Caracciolo ha replicato ai transfughi sottolineando che «la notizia è largamente sopravvalutata». Lo è anche in chiave numerica, visto che i consiglieri (fra scientifici e redazionali) sono un esercito: 106, ben più dei giornalisti che lavorano. Parlando con Il Fatto Quotidiano, il direttore ha aggiunto: «Noi siamo una rivista di geopolitica. Occorre analizzare i conflitti e ascoltare tutte le voci, anche le più lontane. Non possiamo metterci da una parte contro l’altra ma essere aperti a punti di vista diversi. Pubblicare non significa condividere il punto di vista dell’uno o dell’altro».
Argentieri lo ha messo sulla graticola con un paio di motivazioni surreali: avrebbe sbagliato a prevedere l’invasione russa nel febbraio 2022 («Non la faranno mai») e continua a colorare la Crimea come territorio russo sulle mappe, firmate dalla formidabile Laura Canali. Caracciolo non si scompone: «Avevo detto che se Putin avesse invaso l’Ucraina avrebbe fatto una follia. Pensavo che non l’avrebbe fatta, ho sbagliato, mi succede. Non capisco perché a distanza di tempo questo debba provocare le dimissioni». Capitolo cartina: «Chiunque sbarchi a Sebastopoli si accorge che si trova in Russia e non in Ucraina; per dichiarazione dello stesso Zelensky gli ucraini non sono in grado di recuperare quei territori».
Gli analisti lavorano sullo stato di fatto, non sui desiderata dei «Volenterosi» guidati da Bruxelles, ai quali i media italiani hanno srotolato i tradizionali tappetini. E ancora convinti come Napoleone e Hitler che la Russia vada sconfitta sul campo. Se Limes non ha creduto che Putin si curava con il sangue di bue; che uno degli eserciti più potenti del mondo combatteva con le pale; che Mosca era ridotta a usare i microchip delle lavatrici per far volare i missili, il problema non è suo ma di chi si è appiattito sulla retorica dopo aver studiato la Storia sui «Classici Audacia» a fumetti. Nel febbraio del 2024 Limes titolava: «Stiamo perdendo la guerra». Aveva ragione, notizia ruvidamente fattuale. La disinformazione da nube tossica aleggia altrove.
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