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2018-05-11
«Noi li accogliamo e loro finanziano la jihad»
«Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio.
Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo».
La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase».
Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa.
Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili.
L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo.
Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest.
In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore.
Giacomo Amadori
Un indagato ha confessato «Dall’Italia compriamo mirini per i kalashnikov»
«Chi si presta a fare il kamikaze deve amare la religione e non avere paura della morte. Egli è una persona diversa dalle altre, ma tutti sanno che andando a morire andrà in Paradiso sulla strada giusta (...) comunque quello che vince la guerra è colui che va a morire e non gli altri». A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro.
Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza.
Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».
Fabio Amendolara
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Riduci
Dodici arrestati e un latitante per riciclaggio e terrorismo: mandavano soldi in Siria. Spediti 2 milioni con l'hawala, sistema islamico. Gli inquirenti: «Denaro raccolto nelle comunità musulmane. Niente attentati perché serviamo per il passaggio dei foreign fighters». Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015 confessa: «Fondi trovati anche grazie al traffico di migranti dall'Ungheria. Chi veniva scoperto, dopo due mesi di galera era già libero». Lo speciale contiene due articoli. «Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio. Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo». La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase». Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa. Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili. L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo. Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest. In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore. 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A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro. Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza. Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».Fabio Amendolara
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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