True
2018-05-11
«Noi li accogliamo e loro finanziano la jihad»
«Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio.
Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo».
La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase».
Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa.
Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili.
L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo.
Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest.
In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore.
Giacomo Amadori
Un indagato ha confessato «Dall’Italia compriamo mirini per i kalashnikov»
«Chi si presta a fare il kamikaze deve amare la religione e non avere paura della morte. Egli è una persona diversa dalle altre, ma tutti sanno che andando a morire andrà in Paradiso sulla strada giusta (...) comunque quello che vince la guerra è colui che va a morire e non gli altri». A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro.
Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza.
Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».
Fabio Amendolara
Continua a leggere
Riduci
Dodici arrestati e un latitante per riciclaggio e terrorismo: mandavano soldi in Siria. Spediti 2 milioni con l'hawala, sistema islamico. Gli inquirenti: «Denaro raccolto nelle comunità musulmane. Niente attentati perché serviamo per il passaggio dei foreign fighters». Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015 confessa: «Fondi trovati anche grazie al traffico di migranti dall'Ungheria. Chi veniva scoperto, dopo due mesi di galera era già libero». Lo speciale contiene due articoli. «Noi li accogliamo e loro finanziano il terrorismo». Sono queste, in sintesi, le amare conclusioni a cui sono arrivati ieri il pm cagliaritano Danilo Tronci, ma anche il capo della divisione Antiterrorismo della polizia di Stato Claudio Galzerano e altri inquirenti. Occasione delle considerazioni, una conferenza stampa convocata per parlare di una doppia inchiesta delle Procure di Cagliari e Brescia, coordinate dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che ha portato ieri all'arresto di dieci cittadini siriani (uno però è ancora latitante) e di tre marocchini accusati, a vario titolo, di associazione con la finalità del terrorismo e del suo finanziamento, favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, esercizio abusivo dell'attività finanziaria, riciclaggio e autoriciclaggio. Una struttura che si occupava di traffico di clandestini sulla rotta balcanica, ma che utilizzava i guadagni di questo business illecito e di altri leciti per finanziare il gruppo jihadista salafita siriano Jabhat Al Nusra, sino al 2016 affiliato ad Al Qaeda e oggi indipendente. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho ha sottolineato che il leitmotiv che l'immigrazione non ha collegamenti con il terrorismo rischia di essere sconfessato da queste nuove inchieste. Le quali testimonierebbero il contrario: «Non sappiamo se i foreign fighters entrassero e uscissero con questa rete, ma è vero che questa è una rete di finanziamento al terrorismo che si occupa anche dell'immigrazione». Galzerano ha puntato l'attenzione sul «solidarismo nei confronti del terrorismo» messo in pratica «da parte di chi è stato accolto da noi». E ha sottolineato come gli arrestati fossero tutti «regolari», ma «dediti ad attività fortemente distruttive». Il procuratore di Brescia Tommaso Buonanno ha rinforzato il concetto: «Lo sfruttamento dell'immigrazione clandestina serve ad alimentare il terrorismo». La pm bresciana Erica Battaglia ha evidenziato che i fermati non sono «i classici terroristi» con la barba lunga, ma «uomini d'affari che perseguono interessi di natura economica». Il collega Tronci ha ricordato che queste persone «sono state accolte e hanno avuto la nostra cittadinanza» e che il denaro inviato in Siria «proveniva dal traffico di immigrati e da altre attività illecite, ma anche da raccolte di soldi all'interno delle numerose comunità islamiche». Buona parte delle comunità musulmane d'Italia. Il gran capo dell'organizzazione per esempio raccoglieva fondi anche a Venezia e in città distantissime dalla Sardegna. Secondo il magistrato queste comunità erano consapevoli di finanziare i terroristi, anche perché «le loro guide sono quelle che assumono le posizioni più estreme, mentre i moderati fanno fatica a imporsi». Il motivo di questa situazione lo spiega sempre Tronci: «I trafficanti con i clandestini hanno un forte potere di condizionamento: «Io ti ho portato e tu mi devi essere grato». Per il magistrato sardo c'è una sola strada per evitare il disastro: «Bisogna colpire quelli che un tempo si sarebbero chiamati cattivi maestri. Mi auguro che inchieste come la nostra consentano un ricambio ai vertici delle comunità». Ma gli arrestati stavano preparando attentati in Italia? Per De Raho non sono emersi segnali e Tronci prova a dare una spiegazione: «L'Italia viene utilizzata per far passare i foreign fighters da là a qua e viceversa, per cui non c'è necessità di fare attentati nel nostro Paese in questa fase». Ma come si è arrivati a sgominare questa rete? L'attività investigativa, partita da un'indagine sui money transfer, ha consentito di individuare una struttura criminale di matrice islamica stanziata in Brianza e attiva nel favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, capace di organizzare un'incessante attività di raccolta e di trasferimento di denaro anche attraverso il canale non convenzionale dell'hawala. Si tratta di un sistema «medioevale» come hanno sottolineato gli inquirenti, ma infallibile: consiste nello spostare denaro con il passaparola. I finanziatori europei della guerra santa consegnavano il loro obolo a uno dei soggetti sotto inchiesta e qualcuno dall'altra parte del Mediterraneo metteva a disposizione della causa un gruzzolo di pari valore. Un sistema basato sulla fiducia reciproca e su un gruppo di referenti locali con veri e propri uffici di intermediazione finanziaria in grado di sbloccare subito il denaro raccolto altrove. Uffici di questo tipo si trovavano a Istanbul, Beirut, Khartum, Il Cairo, ma anche Raqqa. Attraverso la hawala sarebbero stati trasferiti in zone di guerra in modo rapidissimo e transnazionale almeno 2 milioni di euro, fuori dei circuiti legali e quindi non tracciabili. L'anello di collegamento tra le inchieste di Brescia (realizzata con l'ausilio dello Scico della Guardia di finanza del generale Alessandro Barbera) e di Cagliari (effettuata con la Digos di Sassari) sarebbe il siriano Daadoue Anwar, considerato il capo dell'organizzazione. Il quarantaseienne gravitava su Olbia dove, secondo gli inquirenti, raccoglieva fondi nella sua comunità da spedire in Siria. Quindi ha iniziato a fare la spola con la Svezia, dove si è trasferito. Infine è stato arrestato in Danimarca su richiesta della procura di Tempio Pausania per un reato minore (stile Al Capone), la movimentazione di denaro attraverso circuiti illegali. In Svezia Anwar non era attenzionato e godeva di prestazioni assistenziali offerte dal governo. Nello stesso Paese, nel maggio 2017, è stato fermato suo fratello con 70.000 euro. A giugno un altro fiduciario è stato bloccato mentre tentava di raggiungere con un'ingente somma di denaro Budapest. In Ungheria il personaggio di riferimento era Salmo Bazzka che operava con altri tre connazionali finiti ieri in manette. Il gruppo aveva ramificazioni anche in Austria, Germania, Olanda, Danimarca, Turchia e altri Paesi europei. Un reticolo di musulmani spesso insospettabili che, tra una preghiera e una raccolta di fondi a scopo umanitario, finanziava il terrore. Giacomo Amadori <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-li-accogliamo-e-loro-finanziano-la-jihad-2567686708.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="un-indagato-ha-confessato-dallitalia-compriamo-mirini-per-i-kalashnikov" data-post-id="2567686708" data-published-at="1765518857" data-use-pagination="False"> Un indagato ha confessato «Dall’Italia compriamo mirini per i kalashnikov» «Chi si presta a fare il kamikaze deve amare la religione e non avere paura della morte. Egli è una persona diversa dalle altre, ma tutti sanno che andando a morire andrà in Paradiso sulla strada giusta (...) comunque quello che vince la guerra è colui che va a morire e non gli altri». A pronunciare queste parole da manuale del perfetto jihadista con un agente infiltrato dal Gico della Guardia di finanza nella rete italiana che sosteneva i terroristi siriani è Ayoub Chaddad, noto negli ambienti dei foreign fighter con il nome di Abou Ahmad, e segnalato come combattente dal Comitato di analisi strategica antiterrorismo già dal 2015. Per agganciarlo, gli investigatori del Gico si sono rivolti a un'azienda e, tramite una persona interposta con nome di copertura Rabia Hadba (assunta qualche giorno prima del sospettato), sono riusciti a fargli vuotare il sacco. Ayoub, ormai collega dell'agente sotto copertura, è entrato in confidenza con lui e ha confermato la sua adesione alla causa jihadista. Il 24 aprile 2017 ha affermato di aver partecipato direttamente al conflitto civile siriano e di conoscerlo «molto bene». E mentre sul Web mostrava i video dei conflitti, ha spiegato che uno dei suoi fratelli era a capo di una falange del Daesh, che lui stesso avrebbe combattuto negli schieramenti di Jabhat Al Nusra e che sarebbe stato arrestato da milizie Hezbollah, trascorrendo otto mesi in una cella di un metro quadro. Ma l'aspetto che interessava in modo particolare agli investigatori era un altro: Ayoub, preso dal racconto, a un certo punto si era detto pronto a effettuare trasferimenti di denaro in Siria a sostegno della causa antigovernativa, anche a favore di gruppi armati jihadisti. A quel punto, i sospetti che si erano addensati sulla rete di broker dell'hawala hanno preso consistenza. Grazie anche alla collaborazione dell'Aisi, i servizi segreti interni, è stato possibile accertare come dall'Italia gran parte del denaro fosse veicolato in Siria e in particolare nella zona di Edlib, dove sono arrivati anche i mirini di precisione per i kalashnikov dei foreign fighter e i pick up comprati in Italia. La banca della jihad smantellata ieri aveva due filiali: una in Lombardia e una in Sardegna. E uno dei trader sarebbe proprio Ayoub. Ma non è stato l'unico a cadere nella trappola del Gico. Anche Mohamad Abdulmalek, indagato a Cagliari per terrorismo internazionale e amico di Anwar Daddue, indicato come il capo dell'organizzazione sarda, decide di consegnare alla Procura le sue conoscenze. Il 3 aprile 2017 racconta quello che sa sui soldi partiti dall'Italia e finito in Siria: «L'unica cosa che è stata acquistata dall'Italia sono i mirini ottici per kalashnikov, comprati da tale Ibrahim, ma non so a chi sono andati, se ad Al Nusra o ad altri gruppi». L'acquisto di armi, invece, «partiva dalla Turchia», sempre grazie al servizio finanziario fornito da Anwar e grazie anche agli introiti del traffico di migranti sulla rotta balcanica. Nei racconti di Mohamad compaiono i fratelli Chdid che, dopo essersi trasferiti in Ungheria, avrebbero preso in mano la rotta comprando auto in Italia e servendosi di autisti sia stranieri sia italiani. Il reclutamento di autisti per il trasporto di immigrati era pagato 400-500 euro. Secondo Abdulmalek, «quando uno degli autisti veniva arrestato in Austria, faceva due mesi di galera e poi tornava fuori». È in questo momento che nel romanzo criminale scritto dagli investigatori è spuntato il sistema dell'hawala. Un ruolo importante lo avrebbe ricoperto la moglie italiana di uno dei fratelli Chdid: Cristina Agretti, che per gli investigatori era «un corriere transnazionale». Con lei operava Mouayad Ahmad Said, il cassiere, con un fratello impegnato nel conflitto in Siria. E così è stato scoperto che, per spostare 500.000 euro di un cittadino cinese da Hong Kong all'Italia, Hassan El Mogharbel detto Abou Abbass ci ha messo solo tre giorni. Nell'hawala è tutto veloce, non servono garanzie e basta una stretta di mano. Per tranquillizzare il suo interlocutore il mediatore ribadiva: «La nostra parola è una garanzia».Fabio Amendolara
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
Continua a leggere
Riduci
Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
Continua a leggere
Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
Continua a leggere
Riduci