True
2025-02-24
Noi eredi di Lovecraft in fuga dal mondo per l’orrore dell’Altro
Howard Phillips Lovecraft
«Il mondo puzza. Odora di cadaveri e di pesce putrefatto. Una sensazione di fallimento, di orrenda degenerazione. II mondo puzza. Non ci sono fantasmi sotto la luna tumida; solo cadaveri gonfi e neri, che stanno per esplodere in un vomito pestilenziale. Non parliamo di toccare. Toccare gli esseri, le entità viventi, è un’esperienza empia e ripugnante. La loro pelle, gonfia di gemme orrende, trasuda umori putrefatti. I loro tentacoli succhiatori, i loro organi di presa e masticazione sono una minaccia costante. Gli esseri e il loro orrendo vigore fisico: un groviglio amorfo e nauseabondo, una nemesi puzzolente di chimere meticce; una bestemmia. La vista a volte ci porta il terrore, a volte meravigliosi scorci su architetture da favola. Ma, ahimè, abbiamo anche altri sensi. E questi sensi convergono nel confermare che l’universo è una cosa francamente disgustosa». Difficile trovare una sintesi più efficace della visione di Howard Phillips Lovecraft di quella fornita da Michel Houellebecq nel saggio Contro il mondo, contro la vita. Nelle opere dello scrittore americano nato a Providence nel 1890 e lì defunto nel 1937, Houellebecq ritrova un «odio assoluto per il mondo in generale, aggravato da una particolare avversione per il mondo moderno [...] Molti scrittori hanno dedicato le loro opere a chiarire le ragioni di questo legittimo disgusto. Non Lovecraft. Per lui, l’odio per la vita precede tutta la letteratura. Quindi non ha intenzione di ribadirlo. Il rifiuto di ogni forma di realismo è una condizione preliminare per entrare nel suo universo».
Il solitario di Providence - questo il suo noto epiteto - viene considerato uno dei più possenti autori di letteratura fantastica di sempre, un genio dell’horror, un allievo superdotato di Edgar Allan Poe. Come scrive giustamente Salvatore Santangelo nell’introduzione al volume collettaneo Yog-Sothothery. Oltre la soglia dell’immaginario di H.P. Lovecraft (Castelvecchi), «da maestro dell’horror a fenomeno di costume, il mondo partorito dall’immaginazione del Solitario di Providence è una presenza ubiqua che permea ogni aspetto del Mainstream, con una pervasività inimmaginabile per un autore che, durante la sua vita, ha vissuto all’ombra della marginalità letteraria. Oggi, senza temere di essere smentiti, possiamo affermare che Lovecraft è ovunque: un brand potente che dalla nicchia underground ha contaminato la cultura di massa. I suoi personaggi, i suoi Dèi (Azatoh, Yog-Sothoth e Nyarlathotep), i suoi mostri (Cthulhu), la sua pseudogeografia (Carcosa, Sarnath, Miskatonic, Arkham, Innsmouth) e i suoi pseudobiblia (il Necronomicon, i Culti innominabili) sono entrati stabilmente nell’immaginario collettivo. Le sue opere popolano gli scaffali delle librerie in numerose edizioni, le sue citazioni nutrono l’immaginazione di generazioni di imitatori e continuatori. Creazioni culturali che vanno dal fumetto, al manga, al videogioco, dal gioco da tavolo alla musica, passando per i role play (Il richiamo di Cthulhu edito dalla Chaosium è giunto alla sua VII edizione, mentre è stata realizzata una specifica ambientazione legata ai Grandi Miti pensata per Dungeons & Dragons) per approdare alla filmografia (ultimo in ordine di tempo la trasposizione de Il colore venuto dallo spazio con Nicholas Cage) e le serie tv (la prima e l’ultima stagione di The True Detective e Cabinet of Curiosities)».
Di questo raccapricciante cosmo lovecraftiano fa parte a buon diritto Lovecraft - Memorie dall’Abisso (Rizzoli Lizard), romanzo grafico con i disegni dello straordinario Enrique Breccia. Nella prefazione, il celebre regista John Carpenter spiega che «il male può avere origini molto diverse, spesso proviene da un luogo che si trova oltre, là fuori, arriva dall’oscurità che scorgiamo in lontananza, quella che la luce tremolante delle nostre torce ardenti non riesce a dissipare, Il male è l’Altro, l’Estraneo, l’Alieno, ed è sempre temutissimo». E certamente, in Lovecraft, l’alterità è per lo più maligna. Ma resta tuttavia un grande fraintendimento riguardo questa alterità. L’orrore soprannaturale che si attribuisce ad H.P. è in realtà del tutto naturale: anzi è la natura stessa con i suoi legami. Gli incubi ancestrali di Lovecraft si annidano dalle parti di Charles Baudelaire e non altrove. Quel Baudelaire secondo cui la natura è una forza terribile e costrittiva, «spinge l’uomo ad uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine delle necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto».
Salvatore Santangelo, nel suo saggio, avvicina Lovecraft alla pittura di Edward Hopper, alle pennellate che restituiscono l’ansia e l’alienazione dell’uomo moderno. Ma è probabilmente più efficace rifarsi a Egon Schiele, ai suoi corpi lividi che appaiono schiacciati da una forza sconosciuta e soffocante, inquadrati dall’alto mentre un disagio infinito li opprime. Certo, in Lovecraft non c’è nulla dell’erotismo furioso che pervade l’arte di Schiele, ma in fondo il sesso per il pittore austriaco è un ultimo e disperato tentativo di restare vivo. Per il solitario di Providence invece nulla vi è di più temibile del femminile, emblema - esattamente come in Baudelaire - della natura tentacolare. In questo senso, Lovecraft è pienamente uno scrittore del decadentismo. Perfino la sua biografia di ragazzino letargico prima e romanziere recluso poi lo affratella al Des Esseintes di Huysmans, protagonista - che coincidenza - di Contro natura (o A ritroso). Un uomo che si richiude in casa e sfugge all’orrore brulicante della folla, al Male che si annida negli altri e nel creato. Un esteta che crea il suo paradiso artificiale domestico: quello di Lovecraft è solo un po’ più cosmico.
Questa forse è la ragione per cui il nostro presente è così impregnato dell’oscurità lovecraftiana. Il terrore dell’alterità ci incatena e ci affligge. Il nostro isolamento è solo un po’ meno consapevole. La paura, come scrive H.P. nelle sue lettere, è il denominatore comune. E allora i più si sforzano di rifuggirla chiudendosi nel primo paradiso a buon mercato disponibile.
«Pochi esseri sono stati cosi impregnati, cosi trapassati fino all’osso dal nulla assoluto dell’aspirazione umana», scrive ancora di Lovecraft Michel Houellebecq. «L’universo non è altro che una furtiva disposizione di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos. Che alla fine prevarrà. La specie umana scomparirà. Altre specie appariranno e scompariranno a loro volta. I cieli saranno gelidi e vacui, trafitti dalla debole luce di stelle mezze morte, che scompariranno anch’esse. Tutto scomparirà. E le azioni umane saranno libere e prive di significato come i liberi movimenti delle particelle elementari. Bene, male, moralità, sentimenti? Pura finzione vittoriana. Esiste solo l’egoismo. Freddo, imperturbabile e radioso. [...] Certo, la vita non ha significato. Ma nemmeno la morte. E questa è una delle cose più spaventose dell’universo di Lovecraft. La morte dei suoi eroi non ha alcun senso. Non porta a nessuna pacificazione. Non consente di arrivare a nessuna conclusione della storia. Implacabilmente, HPL annienta i suoi personaggi senza suggerire nulla di più dello smembramento di una marionetta».
Il terrore dell’altro è terrore della natura, dell’umanità, e del Grande Altro trascendente. Il cielo di Lovecraft è oscuro. È peggio che vuoto: è popolato di un abissale orrore.
Una filosofia del rifiuto della vita che ha ispirato «True Detective»
Se H.P. Lovecraft è una sorta di Baudelaire portato all’estremo, non per questo la corsa verso il buio più profondo si esaurisce con lui. L’americano Thomas Ligotti (nato a Detroit nel 1953) ne è un degnissimo erede: più che per lo stile dei racconti per via della filosofia abissale che li pervade. La sua opera ha ispirato la prima e la quarta stagione di una serie televisiva di fenomenale successo, ovvero True Detective, creata da Nic Pizzolatto.
Ligotti allarga ed esplora il buco nero spalancato da Lovecraft, e non ha bisogno di evocare un pantheon di entità maligne: l’orrore che egli disvela è la vita stessa degli uomini. Tutto ciò è particolarmente evidente in un libro intitolato La cospirazione contro la razza umana (edito dal Saggiatore), nel quale in fondo la cospirazione è auto organizzata dagli uomini stessi a proprio danno. Il volume è dedicato alla memoria di un personaggio misconosciuto e affascinante come l’oscurità, lo scrittore norvegese Peter Wessel Zapffe (1899-1990), la cui opera capitale è stata di recente pubblicata in Italia da Mimesis. Si intitola L’ultimo messia, risale al 1993 ed è uno Zarathustra più conciso e letale. Se Nietzsche annunciava la morte di Dio, Zapffe proclama l’inutilità dell’uomo e di fatto ne invoca la scomparsa. Lovecraft non si spingeva a tanto, ma al pari di Zapffe proponeva l’artificio come via di fuga.
Il risultato è un pessimismo brutale, che sfocia nell’idea secondo cui, dopo tutto, i depressi sono probabilmente gli unici sani. Secondo Zapffe, la natura ha puntato troppo in alto: «Una specie è stata armata troppo pesantemente - il suo genio l’ha resa non solo onnipotente verso il mondo esterno, ma ugualmente pericolosa per sé stessa. La sua arma era come una spada senz’elsa o guardia, una lama a doppio taglio in grado di fendere qualsiasi cosa; ma chiunque l’abbia usata ha dovuto afferrarla per la lama, volgendo una delle estremità contro sé stesso».
Zapffe vuole sollevare il velo della realtà e sotto vi trova soltanto disperazione: «La natura non risponde più: con l’uomo essa ha compiuto un miracolo, ma si è rifiutata di riconoscerlo. L’uomo ha perduto la propria cittadinanza nell’universo: ha mangiato dell’albero della conoscenza ed è stato bandito dal paradiso. Egli è potente nel suo mondo, ma maledice il suo potere, perché l’ha acquistato a prezzo dell’armonia spirituale, dell’innocenza, del conforto che provava nell’abbraccio della vita».
La natura superandosi ha dotato l’uomo di una coscienza e questa coscienza è ciò che lo inchioda al dolore. «Mentre una piccola quantità di coscienza potrebbe aver concorso alla sopravvivenza durante un capitolo immemorabile della nostra evoluzione - cosi sostiene una teoria -, questa facoltà divenne abbastanza presto un agente sedizioso operante contro di noi», scrive Thomas Ligotti. «Zapffe conclude dicendo che è necessario fare del nostro meglio per ostacolare la coscienza o essa ci imporrà una visione troppo chiara di quanto non vogliamo vedere, che - come osservò il filosofo norvegese insieme agli altri pessimisti - è la “fratellanza dei sofferenti tra tutti i vivi”. [...] Il fatto che possiamo concepire il fenomeno della sofferenza, tanto la nostra quanto quella di altri organismi, è una nostra proprietà esclusiva in quanto specie pericolosamente cosciente. Sappiamo che c’è sofferenza, e dobbiamo agire contro di essa, e questo include minimizzarla “limitando artificiosamente la capacità della coscienza”». Ma il paradiso artificiale non basta: meglio per l’uomo è scomparire. Non per nulla Zapffe fu convinto militante antinatalista: «Imparate a conoscere voi stessi, siate infertili e lasciate la terra silenziosa dopo di voi», scriveva. Ecco la decadenza portata all’estremo: rifiuto della natura che diviene rifiuto della vita. La morale è semplice da cogliere: se il cielo è vuoto, che senso ha l’uomo? Nessuno.
Che nostalgia il corteggiamento nell’era woke
«Corteggiare una donna vuol dire inseguirla finché questa ti acchiappa» afferma Marcel Achard, che esplorò i sentimenti dal palcoscenico alla pagina scritta. E sarebbe un’exergue aggiuntiva per Addio, cavaliere! - Filosofia e destino del corteggiamento, di Cesare Catà, che spicca nel rumore di fondo con cui i media fanno della contemporaneità un blob. Si ha una sorta di manuale per rimodulare la scansione e la dinamica dei sentimenti, come può farlo quello che oggi si definisce un «uomo di comunicazione». Quale è Catà, performer teatrale, filosofo, osservatore a trecentosessanta gradi. Scrive nella prefazione: «La mia tesi è che il corteggiamento - nell’accezione che proverò a chiarire e proporre - possa darci un orizzonte unico e luminoso per condividere parte del nostro passaggio terrestre con una persona che ci attrae, nonché per aver cura delle relazioni tra donne e uomini nel momento più entusiasmante e vulnerabile di tale passaggio: cioè quando siamo reciprocamente attratti da una forza misteriosa che porta le nostre esistenze a mescolarsi».
Stendhal dedicò all’argomento uno dei suoi volumi più rappresentativi, al di fuori dei romanzi, Dell’amore, dove si legge un passo omologo a quello di Catà: «Ci sono due disgrazie al mondo: quella della passione contrastata e quella del vuoto assoluto. Con l’amore, sento che esiste a due passi da me una felicità immensa e al di là di tutti i miei desideri, che non dipende che da una parola, da un sorriso».
Catà costruisce la sua escursione nel corteggiamento con uno schema paranarrativo. Parte da una situazione referenziale. Trovarsi in un pub di frequentazione abituale, a dividersi fra la lettura di un libro e il ristoro di una birra. Quand’ecco irrompere quello che Freud ha definito l’Unheimlich, il perturbante, il «sinistro» capace di sconvolgere l’ordinarietà delle cose. In questo caso la perturbante. Ha la consistenza di una ragazza che va a sedersi dall’altro capo del bancone. «Con un sorriso cortese ordina un cocktail al barman e, nel farlo, si scosta i ricci rossi dalla fronte reclinando leggermente la nuca all’indietro, un gesto di rara grazia simile al passo iniziale di una danza; sul volto pallidissimo, ricamato di lentiggini, gli occhi le palpitano di un verde che non immaginavo potesse esistere in natura».
Il narratore diventa subito qualcos’altro dal protagonista di un racconto. Catà ne fa il meme della sua analisi: «All’interno dell’infinita gamma di risposte psicocomportamentali che si apre per il soggetto desiderante allorquando questi è attratto da un altro soggetto, se ne pone una peculiare, affascinante, strana, ardua e preziosissima, la quale attraversa, caratterizzandole, le epoche della storia dell’uomo: il corteggiamento».
Di qui in poi, Catà procede per scomposizione delle fasi. A partire da un abbrivio antropologico: «Perché proprio lei? Perché lei e non un’altra, o un altro? Si tratta di ciò che Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, chiama il “grande énigme dont je ne saurai jamais la clef”, “il grande enigma che mai si saprà decifrare”. Quale dinamica cognitiva si innesca, nel momento in cui un umano è attratto dalla forma di un altro essere della sua specie?».
Le risposte sono già stampate nella Bibbia dei sentimenti. O meglio, nel territorio illuminato dall’astro semiotico di Roland Barthes, che concilia prassi e spiritualità nel fattore sfuggito a molti di quanti si erano occupati dell’amore per secoli. Il codice. O meglio il processo comunicativo dell’attrazione. Non potevano mancare, dunque, nel testo di Catà le citazioni da Frammenti di un discorso amoroso, che contiene più suggestioni di tanto immaginario sul tema. Barthes, da omosessuale, ha la vista d’insieme che manca a uomini e donne. La sua condizione lo indirizza il più delle volte verso l’amore impossibile. Il semiologo francese, però, si muove in una società avanzata. Quindi può liberamente divagare sullo sviluppo comunicativo, espressivo ed interpretativo dell’amore. Pure, il suo accento va sempre sulla tensione del soggetto verso l’oggetto, di chi intraprende l’azione sentimentale rispetto a chi, spesso inconsapevolmente, la subisce.
È il repertorio di Catà, che consegna un pamphlet irrinunciabile, pieno di rimandi bibliografici ad opere consimili, ma prive del brio di cui è capace un quarantenne post-moderno bisognoso di ritrovare il cavalierato, la galanteria e la dolcezza di tempi non inquinati dal woke, dal #metoo e dai cascami della deriva occidentale.
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Il «solitario di Providence» domina il nostro immaginario, dai videogiochi ai film. Il vero mostro è l’insensatezza del tutto.Una filosofia del rifiuto della vita che ha ispirato True Detective. Uno degli epigoni del grande scrittore americano è Thomas Ligotti, alla cui opera si richiamano la prima e l’ultima stagione della celebrata serie tv. L’abisso è nel cuore dell’uomo e la coscienza è la sua condanna. Che nostalgia il corteggiamento nell’era woke. In Addio, cavaliere! Cesare Catà affronta l’enigma dell’attrazione. Chiedendosi: perché lei e non un’altra?Lo speciale comprende tre articoli.«Il mondo puzza. Odora di cadaveri e di pesce putrefatto. Una sensazione di fallimento, di orrenda degenerazione. II mondo puzza. Non ci sono fantasmi sotto la luna tumida; solo cadaveri gonfi e neri, che stanno per esplodere in un vomito pestilenziale. Non parliamo di toccare. Toccare gli esseri, le entità viventi, è un’esperienza empia e ripugnante. La loro pelle, gonfia di gemme orrende, trasuda umori putrefatti. I loro tentacoli succhiatori, i loro organi di presa e masticazione sono una minaccia costante. Gli esseri e il loro orrendo vigore fisico: un groviglio amorfo e nauseabondo, una nemesi puzzolente di chimere meticce; una bestemmia. La vista a volte ci porta il terrore, a volte meravigliosi scorci su architetture da favola. Ma, ahimè, abbiamo anche altri sensi. E questi sensi convergono nel confermare che l’universo è una cosa francamente disgustosa». Difficile trovare una sintesi più efficace della visione di Howard Phillips Lovecraft di quella fornita da Michel Houellebecq nel saggio Contro il mondo, contro la vita. Nelle opere dello scrittore americano nato a Providence nel 1890 e lì defunto nel 1937, Houellebecq ritrova un «odio assoluto per il mondo in generale, aggravato da una particolare avversione per il mondo moderno [...] Molti scrittori hanno dedicato le loro opere a chiarire le ragioni di questo legittimo disgusto. Non Lovecraft. Per lui, l’odio per la vita precede tutta la letteratura. Quindi non ha intenzione di ribadirlo. Il rifiuto di ogni forma di realismo è una condizione preliminare per entrare nel suo universo». Il solitario di Providence - questo il suo noto epiteto - viene considerato uno dei più possenti autori di letteratura fantastica di sempre, un genio dell’horror, un allievo superdotato di Edgar Allan Poe. Come scrive giustamente Salvatore Santangelo nell’introduzione al volume collettaneo Yog-Sothothery. Oltre la soglia dell’immaginario di H.P. Lovecraft (Castelvecchi), «da maestro dell’horror a fenomeno di costume, il mondo partorito dall’immaginazione del Solitario di Providence è una presenza ubiqua che permea ogni aspetto del Mainstream, con una pervasività inimmaginabile per un autore che, durante la sua vita, ha vissuto all’ombra della marginalità letteraria. Oggi, senza temere di essere smentiti, possiamo affermare che Lovecraft è ovunque: un brand potente che dalla nicchia underground ha contaminato la cultura di massa. I suoi personaggi, i suoi Dèi (Azatoh, Yog-Sothoth e Nyarlathotep), i suoi mostri (Cthulhu), la sua pseudogeografia (Carcosa, Sarnath, Miskatonic, Arkham, Innsmouth) e i suoi pseudobiblia (il Necronomicon, i Culti innominabili) sono entrati stabilmente nell’immaginario collettivo. Le sue opere popolano gli scaffali delle librerie in numerose edizioni, le sue citazioni nutrono l’immaginazione di generazioni di imitatori e continuatori. Creazioni culturali che vanno dal fumetto, al manga, al videogioco, dal gioco da tavolo alla musica, passando per i role play (Il richiamo di Cthulhu edito dalla Chaosium è giunto alla sua VII edizione, mentre è stata realizzata una specifica ambientazione legata ai Grandi Miti pensata per Dungeons & Dragons) per approdare alla filmografia (ultimo in ordine di tempo la trasposizione de Il colore venuto dallo spazio con Nicholas Cage) e le serie tv (la prima e l’ultima stagione di The True Detective e Cabinet of Curiosities)». Di questo raccapricciante cosmo lovecraftiano fa parte a buon diritto Lovecraft - Memorie dall’Abisso (Rizzoli Lizard), romanzo grafico con i disegni dello straordinario Enrique Breccia. Nella prefazione, il celebre regista John Carpenter spiega che «il male può avere origini molto diverse, spesso proviene da un luogo che si trova oltre, là fuori, arriva dall’oscurità che scorgiamo in lontananza, quella che la luce tremolante delle nostre torce ardenti non riesce a dissipare, Il male è l’Altro, l’Estraneo, l’Alieno, ed è sempre temutissimo». E certamente, in Lovecraft, l’alterità è per lo più maligna. Ma resta tuttavia un grande fraintendimento riguardo questa alterità. L’orrore soprannaturale che si attribuisce ad H.P. è in realtà del tutto naturale: anzi è la natura stessa con i suoi legami. Gli incubi ancestrali di Lovecraft si annidano dalle parti di Charles Baudelaire e non altrove. Quel Baudelaire secondo cui la natura è una forza terribile e costrittiva, «spinge l’uomo ad uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine delle necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto». Salvatore Santangelo, nel suo saggio, avvicina Lovecraft alla pittura di Edward Hopper, alle pennellate che restituiscono l’ansia e l’alienazione dell’uomo moderno. Ma è probabilmente più efficace rifarsi a Egon Schiele, ai suoi corpi lividi che appaiono schiacciati da una forza sconosciuta e soffocante, inquadrati dall’alto mentre un disagio infinito li opprime. Certo, in Lovecraft non c’è nulla dell’erotismo furioso che pervade l’arte di Schiele, ma in fondo il sesso per il pittore austriaco è un ultimo e disperato tentativo di restare vivo. Per il solitario di Providence invece nulla vi è di più temibile del femminile, emblema - esattamente come in Baudelaire - della natura tentacolare. In questo senso, Lovecraft è pienamente uno scrittore del decadentismo. Perfino la sua biografia di ragazzino letargico prima e romanziere recluso poi lo affratella al Des Esseintes di Huysmans, protagonista - che coincidenza - di Contro natura (o A ritroso). Un uomo che si richiude in casa e sfugge all’orrore brulicante della folla, al Male che si annida negli altri e nel creato. Un esteta che crea il suo paradiso artificiale domestico: quello di Lovecraft è solo un po’ più cosmico. Questa forse è la ragione per cui il nostro presente è così impregnato dell’oscurità lovecraftiana. Il terrore dell’alterità ci incatena e ci affligge. Il nostro isolamento è solo un po’ meno consapevole. La paura, come scrive H.P. nelle sue lettere, è il denominatore comune. E allora i più si sforzano di rifuggirla chiudendosi nel primo paradiso a buon mercato disponibile. «Pochi esseri sono stati cosi impregnati, cosi trapassati fino all’osso dal nulla assoluto dell’aspirazione umana», scrive ancora di Lovecraft Michel Houellebecq. «L’universo non è altro che una furtiva disposizione di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos. Che alla fine prevarrà. La specie umana scomparirà. Altre specie appariranno e scompariranno a loro volta. I cieli saranno gelidi e vacui, trafitti dalla debole luce di stelle mezze morte, che scompariranno anch’esse. Tutto scomparirà. E le azioni umane saranno libere e prive di significato come i liberi movimenti delle particelle elementari. Bene, male, moralità, sentimenti? Pura finzione vittoriana. Esiste solo l’egoismo. Freddo, imperturbabile e radioso. [...] Certo, la vita non ha significato. Ma nemmeno la morte. E questa è una delle cose più spaventose dell’universo di Lovecraft. La morte dei suoi eroi non ha alcun senso. Non porta a nessuna pacificazione. Non consente di arrivare a nessuna conclusione della storia. Implacabilmente, HPL annienta i suoi personaggi senza suggerire nulla di più dello smembramento di una marionetta».Il terrore dell’altro è terrore della natura, dell’umanità, e del Grande Altro trascendente. Il cielo di Lovecraft è oscuro. È peggio che vuoto: è popolato di un abissale orrore.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-eredi-di-lovecraft-in-fuga-dal-mondo-per-lorrore-dellaltro-2671203427.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-filosofia-del-rifiuto-della-vita-che-ha-ispirato-true-detective" data-post-id="2671203427" data-published-at="1740354297" data-use-pagination="False"> Una filosofia del rifiuto della vita che ha ispirato «True Detective» Se H.P. Lovecraft è una sorta di Baudelaire portato all’estremo, non per questo la corsa verso il buio più profondo si esaurisce con lui. L’americano Thomas Ligotti (nato a Detroit nel 1953) ne è un degnissimo erede: più che per lo stile dei racconti per via della filosofia abissale che li pervade. La sua opera ha ispirato la prima e la quarta stagione di una serie televisiva di fenomenale successo, ovvero True Detective, creata da Nic Pizzolatto. Ligotti allarga ed esplora il buco nero spalancato da Lovecraft, e non ha bisogno di evocare un pantheon di entità maligne: l’orrore che egli disvela è la vita stessa degli uomini. Tutto ciò è particolarmente evidente in un libro intitolato La cospirazione contro la razza umana (edito dal Saggiatore), nel quale in fondo la cospirazione è auto organizzata dagli uomini stessi a proprio danno. Il volume è dedicato alla memoria di un personaggio misconosciuto e affascinante come l’oscurità, lo scrittore norvegese Peter Wessel Zapffe (1899-1990), la cui opera capitale è stata di recente pubblicata in Italia da Mimesis. Si intitola L’ultimo messia, risale al 1993 ed è uno Zarathustra più conciso e letale. Se Nietzsche annunciava la morte di Dio, Zapffe proclama l’inutilità dell’uomo e di fatto ne invoca la scomparsa. Lovecraft non si spingeva a tanto, ma al pari di Zapffe proponeva l’artificio come via di fuga. Il risultato è un pessimismo brutale, che sfocia nell’idea secondo cui, dopo tutto, i depressi sono probabilmente gli unici sani. Secondo Zapffe, la natura ha puntato troppo in alto: «Una specie è stata armata troppo pesantemente - il suo genio l’ha resa non solo onnipotente verso il mondo esterno, ma ugualmente pericolosa per sé stessa. La sua arma era come una spada senz’elsa o guardia, una lama a doppio taglio in grado di fendere qualsiasi cosa; ma chiunque l’abbia usata ha dovuto afferrarla per la lama, volgendo una delle estremità contro sé stesso». Zapffe vuole sollevare il velo della realtà e sotto vi trova soltanto disperazione: «La natura non risponde più: con l’uomo essa ha compiuto un miracolo, ma si è rifiutata di riconoscerlo. L’uomo ha perduto la propria cittadinanza nell’universo: ha mangiato dell’albero della conoscenza ed è stato bandito dal paradiso. Egli è potente nel suo mondo, ma maledice il suo potere, perché l’ha acquistato a prezzo dell’armonia spirituale, dell’innocenza, del conforto che provava nell’abbraccio della vita». La natura superandosi ha dotato l’uomo di una coscienza e questa coscienza è ciò che lo inchioda al dolore. «Mentre una piccola quantità di coscienza potrebbe aver concorso alla sopravvivenza durante un capitolo immemorabile della nostra evoluzione - cosi sostiene una teoria -, questa facoltà divenne abbastanza presto un agente sedizioso operante contro di noi», scrive Thomas Ligotti. «Zapffe conclude dicendo che è necessario fare del nostro meglio per ostacolare la coscienza o essa ci imporrà una visione troppo chiara di quanto non vogliamo vedere, che - come osservò il filosofo norvegese insieme agli altri pessimisti - è la “fratellanza dei sofferenti tra tutti i vivi”. [...] Il fatto che possiamo concepire il fenomeno della sofferenza, tanto la nostra quanto quella di altri organismi, è una nostra proprietà esclusiva in quanto specie pericolosamente cosciente. Sappiamo che c’è sofferenza, e dobbiamo agire contro di essa, e questo include minimizzarla “limitando artificiosamente la capacità della coscienza”». Ma il paradiso artificiale non basta: meglio per l’uomo è scomparire. Non per nulla Zapffe fu convinto militante antinatalista: «Imparate a conoscere voi stessi, siate infertili e lasciate la terra silenziosa dopo di voi», scriveva. Ecco la decadenza portata all’estremo: rifiuto della natura che diviene rifiuto della vita. La morale è semplice da cogliere: se il cielo è vuoto, che senso ha l’uomo? 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Quale è Catà, performer teatrale, filosofo, osservatore a trecentosessanta gradi. Scrive nella prefazione: «La mia tesi è che il corteggiamento - nell’accezione che proverò a chiarire e proporre - possa darci un orizzonte unico e luminoso per condividere parte del nostro passaggio terrestre con una persona che ci attrae, nonché per aver cura delle relazioni tra donne e uomini nel momento più entusiasmante e vulnerabile di tale passaggio: cioè quando siamo reciprocamente attratti da una forza misteriosa che porta le nostre esistenze a mescolarsi». Stendhal dedicò all’argomento uno dei suoi volumi più rappresentativi, al di fuori dei romanzi, Dell’amore, dove si legge un passo omologo a quello di Catà: «Ci sono due disgrazie al mondo: quella della passione contrastata e quella del vuoto assoluto. Con l’amore, sento che esiste a due passi da me una felicità immensa e al di là di tutti i miei desideri, che non dipende che da una parola, da un sorriso». Catà costruisce la sua escursione nel corteggiamento con uno schema paranarrativo. Parte da una situazione referenziale. Trovarsi in un pub di frequentazione abituale, a dividersi fra la lettura di un libro e il ristoro di una birra. Quand’ecco irrompere quello che Freud ha definito l’Unheimlich, il perturbante, il «sinistro» capace di sconvolgere l’ordinarietà delle cose. In questo caso la perturbante. Ha la consistenza di una ragazza che va a sedersi dall’altro capo del bancone. «Con un sorriso cortese ordina un cocktail al barman e, nel farlo, si scosta i ricci rossi dalla fronte reclinando leggermente la nuca all’indietro, un gesto di rara grazia simile al passo iniziale di una danza; sul volto pallidissimo, ricamato di lentiggini, gli occhi le palpitano di un verde che non immaginavo potesse esistere in natura». Il narratore diventa subito qualcos’altro dal protagonista di un racconto. Catà ne fa il meme della sua analisi: «All’interno dell’infinita gamma di risposte psicocomportamentali che si apre per il soggetto desiderante allorquando questi è attratto da un altro soggetto, se ne pone una peculiare, affascinante, strana, ardua e preziosissima, la quale attraversa, caratterizzandole, le epoche della storia dell’uomo: il corteggiamento». Di qui in poi, Catà procede per scomposizione delle fasi. A partire da un abbrivio antropologico: «Perché proprio lei? Perché lei e non un’altra, o un altro? Si tratta di ciò che Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, chiama il “grande énigme dont je ne saurai jamais la clef”, “il grande enigma che mai si saprà decifrare”. Quale dinamica cognitiva si innesca, nel momento in cui un umano è attratto dalla forma di un altro essere della sua specie?». Le risposte sono già stampate nella Bibbia dei sentimenti. O meglio, nel territorio illuminato dall’astro semiotico di Roland Barthes, che concilia prassi e spiritualità nel fattore sfuggito a molti di quanti si erano occupati dell’amore per secoli. Il codice. O meglio il processo comunicativo dell’attrazione. Non potevano mancare, dunque, nel testo di Catà le citazioni da Frammenti di un discorso amoroso, che contiene più suggestioni di tanto immaginario sul tema. Barthes, da omosessuale, ha la vista d’insieme che manca a uomini e donne. La sua condizione lo indirizza il più delle volte verso l’amore impossibile. Il semiologo francese, però, si muove in una società avanzata. Quindi può liberamente divagare sullo sviluppo comunicativo, espressivo ed interpretativo dell’amore. Pure, il suo accento va sempre sulla tensione del soggetto verso l’oggetto, di chi intraprende l’azione sentimentale rispetto a chi, spesso inconsapevolmente, la subisce. È il repertorio di Catà, che consegna un pamphlet irrinunciabile, pieno di rimandi bibliografici ad opere consimili, ma prive del brio di cui è capace un quarantenne post-moderno bisognoso di ritrovare il cavalierato, la galanteria e la dolcezza di tempi non inquinati dal woke, dal #metoo e dai cascami della deriva occidentale.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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