2025-02-24
Noi eredi di Lovecraft in fuga dal mondo per l’orrore dell’Altro
Howard Phillips Lovecraft
Il «solitario di Providence» domina il nostro immaginario, dai videogiochi ai film. Il vero mostro è l’insensatezza del tutto.Una filosofia del rifiuto della vita che ha ispirato True Detective. Uno degli epigoni del grande scrittore americano è Thomas Ligotti, alla cui opera si richiamano la prima e l’ultima stagione della celebrata serie tv. L’abisso è nel cuore dell’uomo e la coscienza è la sua condanna. Che nostalgia il corteggiamento nell’era woke. In Addio, cavaliere! Cesare Catà affronta l’enigma dell’attrazione. Chiedendosi: perché lei e non un’altra?Lo speciale comprende tre articoli.«Il mondo puzza. Odora di cadaveri e di pesce putrefatto. Una sensazione di fallimento, di orrenda degenerazione. II mondo puzza. Non ci sono fantasmi sotto la luna tumida; solo cadaveri gonfi e neri, che stanno per esplodere in un vomito pestilenziale. Non parliamo di toccare. Toccare gli esseri, le entità viventi, è un’esperienza empia e ripugnante. La loro pelle, gonfia di gemme orrende, trasuda umori putrefatti. I loro tentacoli succhiatori, i loro organi di presa e masticazione sono una minaccia costante. Gli esseri e il loro orrendo vigore fisico: un groviglio amorfo e nauseabondo, una nemesi puzzolente di chimere meticce; una bestemmia. La vista a volte ci porta il terrore, a volte meravigliosi scorci su architetture da favola. Ma, ahimè, abbiamo anche altri sensi. E questi sensi convergono nel confermare che l’universo è una cosa francamente disgustosa». Difficile trovare una sintesi più efficace della visione di Howard Phillips Lovecraft di quella fornita da Michel Houellebecq nel saggio Contro il mondo, contro la vita. Nelle opere dello scrittore americano nato a Providence nel 1890 e lì defunto nel 1937, Houellebecq ritrova un «odio assoluto per il mondo in generale, aggravato da una particolare avversione per il mondo moderno [...] Molti scrittori hanno dedicato le loro opere a chiarire le ragioni di questo legittimo disgusto. Non Lovecraft. Per lui, l’odio per la vita precede tutta la letteratura. Quindi non ha intenzione di ribadirlo. Il rifiuto di ogni forma di realismo è una condizione preliminare per entrare nel suo universo». Il solitario di Providence - questo il suo noto epiteto - viene considerato uno dei più possenti autori di letteratura fantastica di sempre, un genio dell’horror, un allievo superdotato di Edgar Allan Poe. Come scrive giustamente Salvatore Santangelo nell’introduzione al volume collettaneo Yog-Sothothery. Oltre la soglia dell’immaginario di H.P. Lovecraft (Castelvecchi), «da maestro dell’horror a fenomeno di costume, il mondo partorito dall’immaginazione del Solitario di Providence è una presenza ubiqua che permea ogni aspetto del Mainstream, con una pervasività inimmaginabile per un autore che, durante la sua vita, ha vissuto all’ombra della marginalità letteraria. Oggi, senza temere di essere smentiti, possiamo affermare che Lovecraft è ovunque: un brand potente che dalla nicchia underground ha contaminato la cultura di massa. I suoi personaggi, i suoi Dèi (Azatoh, Yog-Sothoth e Nyarlathotep), i suoi mostri (Cthulhu), la sua pseudogeografia (Carcosa, Sarnath, Miskatonic, Arkham, Innsmouth) e i suoi pseudobiblia (il Necronomicon, i Culti innominabili) sono entrati stabilmente nell’immaginario collettivo. Le sue opere popolano gli scaffali delle librerie in numerose edizioni, le sue citazioni nutrono l’immaginazione di generazioni di imitatori e continuatori. Creazioni culturali che vanno dal fumetto, al manga, al videogioco, dal gioco da tavolo alla musica, passando per i role play (Il richiamo di Cthulhu edito dalla Chaosium è giunto alla sua VII edizione, mentre è stata realizzata una specifica ambientazione legata ai Grandi Miti pensata per Dungeons & Dragons) per approdare alla filmografia (ultimo in ordine di tempo la trasposizione de Il colore venuto dallo spazio con Nicholas Cage) e le serie tv (la prima e l’ultima stagione di The True Detective e Cabinet of Curiosities)». Di questo raccapricciante cosmo lovecraftiano fa parte a buon diritto Lovecraft - Memorie dall’Abisso (Rizzoli Lizard), romanzo grafico con i disegni dello straordinario Enrique Breccia. Nella prefazione, il celebre regista John Carpenter spiega che «il male può avere origini molto diverse, spesso proviene da un luogo che si trova oltre, là fuori, arriva dall’oscurità che scorgiamo in lontananza, quella che la luce tremolante delle nostre torce ardenti non riesce a dissipare, Il male è l’Altro, l’Estraneo, l’Alieno, ed è sempre temutissimo». E certamente, in Lovecraft, l’alterità è per lo più maligna. Ma resta tuttavia un grande fraintendimento riguardo questa alterità. L’orrore soprannaturale che si attribuisce ad H.P. è in realtà del tutto naturale: anzi è la natura stessa con i suoi legami. Gli incubi ancestrali di Lovecraft si annidano dalle parti di Charles Baudelaire e non altrove. Quel Baudelaire secondo cui la natura è una forza terribile e costrittiva, «spinge l’uomo ad uccidere il proprio simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; ché non appena si esce dall’ordine delle necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, si osserva che la natura non può consigliare altro che il delitto». Salvatore Santangelo, nel suo saggio, avvicina Lovecraft alla pittura di Edward Hopper, alle pennellate che restituiscono l’ansia e l’alienazione dell’uomo moderno. Ma è probabilmente più efficace rifarsi a Egon Schiele, ai suoi corpi lividi che appaiono schiacciati da una forza sconosciuta e soffocante, inquadrati dall’alto mentre un disagio infinito li opprime. Certo, in Lovecraft non c’è nulla dell’erotismo furioso che pervade l’arte di Schiele, ma in fondo il sesso per il pittore austriaco è un ultimo e disperato tentativo di restare vivo. Per il solitario di Providence invece nulla vi è di più temibile del femminile, emblema - esattamente come in Baudelaire - della natura tentacolare. In questo senso, Lovecraft è pienamente uno scrittore del decadentismo. Perfino la sua biografia di ragazzino letargico prima e romanziere recluso poi lo affratella al Des Esseintes di Huysmans, protagonista - che coincidenza - di Contro natura (o A ritroso). Un uomo che si richiude in casa e sfugge all’orrore brulicante della folla, al Male che si annida negli altri e nel creato. Un esteta che crea il suo paradiso artificiale domestico: quello di Lovecraft è solo un po’ più cosmico. Questa forse è la ragione per cui il nostro presente è così impregnato dell’oscurità lovecraftiana. Il terrore dell’alterità ci incatena e ci affligge. Il nostro isolamento è solo un po’ meno consapevole. La paura, come scrive H.P. nelle sue lettere, è il denominatore comune. E allora i più si sforzano di rifuggirla chiudendosi nel primo paradiso a buon mercato disponibile. «Pochi esseri sono stati cosi impregnati, cosi trapassati fino all’osso dal nulla assoluto dell’aspirazione umana», scrive ancora di Lovecraft Michel Houellebecq. «L’universo non è altro che una furtiva disposizione di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos. Che alla fine prevarrà. La specie umana scomparirà. Altre specie appariranno e scompariranno a loro volta. I cieli saranno gelidi e vacui, trafitti dalla debole luce di stelle mezze morte, che scompariranno anch’esse. Tutto scomparirà. E le azioni umane saranno libere e prive di significato come i liberi movimenti delle particelle elementari. Bene, male, moralità, sentimenti? Pura finzione vittoriana. Esiste solo l’egoismo. Freddo, imperturbabile e radioso. [...] Certo, la vita non ha significato. Ma nemmeno la morte. E questa è una delle cose più spaventose dell’universo di Lovecraft. La morte dei suoi eroi non ha alcun senso. Non porta a nessuna pacificazione. Non consente di arrivare a nessuna conclusione della storia. Implacabilmente, HPL annienta i suoi personaggi senza suggerire nulla di più dello smembramento di una marionetta».Il terrore dell’altro è terrore della natura, dell’umanità, e del Grande Altro trascendente. Il cielo di Lovecraft è oscuro. È peggio che vuoto: è popolato di un abissale orrore.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-eredi-di-lovecraft-in-fuga-dal-mondo-per-lorrore-dellaltro-2671203427.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-filosofia-del-rifiuto-della-vita-che-ha-ispirato-true-detective" data-post-id="2671203427" data-published-at="1740354297" data-use-pagination="False"> Una filosofia del rifiuto della vita che ha ispirato «True Detective» Se H.P. Lovecraft è una sorta di Baudelaire portato all’estremo, non per questo la corsa verso il buio più profondo si esaurisce con lui. L’americano Thomas Ligotti (nato a Detroit nel 1953) ne è un degnissimo erede: più che per lo stile dei racconti per via della filosofia abissale che li pervade. La sua opera ha ispirato la prima e la quarta stagione di una serie televisiva di fenomenale successo, ovvero True Detective, creata da Nic Pizzolatto. Ligotti allarga ed esplora il buco nero spalancato da Lovecraft, e non ha bisogno di evocare un pantheon di entità maligne: l’orrore che egli disvela è la vita stessa degli uomini. Tutto ciò è particolarmente evidente in un libro intitolato La cospirazione contro la razza umana (edito dal Saggiatore), nel quale in fondo la cospirazione è auto organizzata dagli uomini stessi a proprio danno. Il volume è dedicato alla memoria di un personaggio misconosciuto e affascinante come l’oscurità, lo scrittore norvegese Peter Wessel Zapffe (1899-1990), la cui opera capitale è stata di recente pubblicata in Italia da Mimesis. Si intitola L’ultimo messia, risale al 1993 ed è uno Zarathustra più conciso e letale. Se Nietzsche annunciava la morte di Dio, Zapffe proclama l’inutilità dell’uomo e di fatto ne invoca la scomparsa. Lovecraft non si spingeva a tanto, ma al pari di Zapffe proponeva l’artificio come via di fuga. Il risultato è un pessimismo brutale, che sfocia nell’idea secondo cui, dopo tutto, i depressi sono probabilmente gli unici sani. Secondo Zapffe, la natura ha puntato troppo in alto: «Una specie è stata armata troppo pesantemente - il suo genio l’ha resa non solo onnipotente verso il mondo esterno, ma ugualmente pericolosa per sé stessa. La sua arma era come una spada senz’elsa o guardia, una lama a doppio taglio in grado di fendere qualsiasi cosa; ma chiunque l’abbia usata ha dovuto afferrarla per la lama, volgendo una delle estremità contro sé stesso». Zapffe vuole sollevare il velo della realtà e sotto vi trova soltanto disperazione: «La natura non risponde più: con l’uomo essa ha compiuto un miracolo, ma si è rifiutata di riconoscerlo. L’uomo ha perduto la propria cittadinanza nell’universo: ha mangiato dell’albero della conoscenza ed è stato bandito dal paradiso. Egli è potente nel suo mondo, ma maledice il suo potere, perché l’ha acquistato a prezzo dell’armonia spirituale, dell’innocenza, del conforto che provava nell’abbraccio della vita». La natura superandosi ha dotato l’uomo di una coscienza e questa coscienza è ciò che lo inchioda al dolore. «Mentre una piccola quantità di coscienza potrebbe aver concorso alla sopravvivenza durante un capitolo immemorabile della nostra evoluzione - cosi sostiene una teoria -, questa facoltà divenne abbastanza presto un agente sedizioso operante contro di noi», scrive Thomas Ligotti. «Zapffe conclude dicendo che è necessario fare del nostro meglio per ostacolare la coscienza o essa ci imporrà una visione troppo chiara di quanto non vogliamo vedere, che - come osservò il filosofo norvegese insieme agli altri pessimisti - è la “fratellanza dei sofferenti tra tutti i vivi”. [...] Il fatto che possiamo concepire il fenomeno della sofferenza, tanto la nostra quanto quella di altri organismi, è una nostra proprietà esclusiva in quanto specie pericolosamente cosciente. Sappiamo che c’è sofferenza, e dobbiamo agire contro di essa, e questo include minimizzarla “limitando artificiosamente la capacità della coscienza”». Ma il paradiso artificiale non basta: meglio per l’uomo è scomparire. Non per nulla Zapffe fu convinto militante antinatalista: «Imparate a conoscere voi stessi, siate infertili e lasciate la terra silenziosa dopo di voi», scriveva. Ecco la decadenza portata all’estremo: rifiuto della natura che diviene rifiuto della vita. La morale è semplice da cogliere: se il cielo è vuoto, che senso ha l’uomo? Nessuno. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-eredi-di-lovecraft-in-fuga-dal-mondo-per-lorrore-dellaltro-2671203427.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="che-nostalgia-il-corteggiamento-nellera-woke" data-post-id="2671203427" data-published-at="1740354297" data-use-pagination="False"> Che nostalgia il corteggiamento nell’era woke «Corteggiare una donna vuol dire inseguirla finché questa ti acchiappa» afferma Marcel Achard, che esplorò i sentimenti dal palcoscenico alla pagina scritta. E sarebbe un’exergue aggiuntiva per Addio, cavaliere! - Filosofia e destino del corteggiamento, di Cesare Catà, che spicca nel rumore di fondo con cui i media fanno della contemporaneità un blob. Si ha una sorta di manuale per rimodulare la scansione e la dinamica dei sentimenti, come può farlo quello che oggi si definisce un «uomo di comunicazione». Quale è Catà, performer teatrale, filosofo, osservatore a trecentosessanta gradi. Scrive nella prefazione: «La mia tesi è che il corteggiamento - nell’accezione che proverò a chiarire e proporre - possa darci un orizzonte unico e luminoso per condividere parte del nostro passaggio terrestre con una persona che ci attrae, nonché per aver cura delle relazioni tra donne e uomini nel momento più entusiasmante e vulnerabile di tale passaggio: cioè quando siamo reciprocamente attratti da una forza misteriosa che porta le nostre esistenze a mescolarsi». Stendhal dedicò all’argomento uno dei suoi volumi più rappresentativi, al di fuori dei romanzi, Dell’amore, dove si legge un passo omologo a quello di Catà: «Ci sono due disgrazie al mondo: quella della passione contrastata e quella del vuoto assoluto. Con l’amore, sento che esiste a due passi da me una felicità immensa e al di là di tutti i miei desideri, che non dipende che da una parola, da un sorriso». Catà costruisce la sua escursione nel corteggiamento con uno schema paranarrativo. Parte da una situazione referenziale. Trovarsi in un pub di frequentazione abituale, a dividersi fra la lettura di un libro e il ristoro di una birra. Quand’ecco irrompere quello che Freud ha definito l’Unheimlich, il perturbante, il «sinistro» capace di sconvolgere l’ordinarietà delle cose. In questo caso la perturbante. Ha la consistenza di una ragazza che va a sedersi dall’altro capo del bancone. «Con un sorriso cortese ordina un cocktail al barman e, nel farlo, si scosta i ricci rossi dalla fronte reclinando leggermente la nuca all’indietro, un gesto di rara grazia simile al passo iniziale di una danza; sul volto pallidissimo, ricamato di lentiggini, gli occhi le palpitano di un verde che non immaginavo potesse esistere in natura». Il narratore diventa subito qualcos’altro dal protagonista di un racconto. Catà ne fa il meme della sua analisi: «All’interno dell’infinita gamma di risposte psicocomportamentali che si apre per il soggetto desiderante allorquando questi è attratto da un altro soggetto, se ne pone una peculiare, affascinante, strana, ardua e preziosissima, la quale attraversa, caratterizzandole, le epoche della storia dell’uomo: il corteggiamento». Di qui in poi, Catà procede per scomposizione delle fasi. A partire da un abbrivio antropologico: «Perché proprio lei? Perché lei e non un’altra, o un altro? Si tratta di ciò che Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, chiama il “grande énigme dont je ne saurai jamais la clef”, “il grande enigma che mai si saprà decifrare”. Quale dinamica cognitiva si innesca, nel momento in cui un umano è attratto dalla forma di un altro essere della sua specie?». Le risposte sono già stampate nella Bibbia dei sentimenti. O meglio, nel territorio illuminato dall’astro semiotico di Roland Barthes, che concilia prassi e spiritualità nel fattore sfuggito a molti di quanti si erano occupati dell’amore per secoli. Il codice. O meglio il processo comunicativo dell’attrazione. Non potevano mancare, dunque, nel testo di Catà le citazioni da Frammenti di un discorso amoroso, che contiene più suggestioni di tanto immaginario sul tema. Barthes, da omosessuale, ha la vista d’insieme che manca a uomini e donne. La sua condizione lo indirizza il più delle volte verso l’amore impossibile. Il semiologo francese, però, si muove in una società avanzata. Quindi può liberamente divagare sullo sviluppo comunicativo, espressivo ed interpretativo dell’amore. Pure, il suo accento va sempre sulla tensione del soggetto verso l’oggetto, di chi intraprende l’azione sentimentale rispetto a chi, spesso inconsapevolmente, la subisce. È il repertorio di Catà, che consegna un pamphlet irrinunciabile, pieno di rimandi bibliografici ad opere consimili, ma prive del brio di cui è capace un quarantenne post-moderno bisognoso di ritrovare il cavalierato, la galanteria e la dolcezza di tempi non inquinati dal woke, dal #metoo e dai cascami della deriva occidentale.
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